Ho una bella storia questa sera?

Si può credere nelle storie?
Alle storie o ci si crede (e allora esse si dispiegano nella loro potenza rappresentativa ed evocativa) o non ci si crede (e allora la pagina e la vita restano mute e dure).
Senza fede non c’è storia che tenga. Samuel Coleridge parlò di una “fede poetica” che consiste nella “sospensione volontaria dell’incredulità (willing suspension of disbelief)”. Aveva ragione.
Le storie richiedono una fiducia di base che conduce all’immersione in un mondo che non è più il nostro, quello solito che conosciamo già. Così la Yourcenar e i suoi lettori entrano nel tempo di Adriano, come i lettori di Kafka si muovono verso l’irragiungibile Castello e i lettori di Carroll entrano nel Paese delle meraviglie,…
Tuttavia è proprio a partire da queste storie lontane che è possibile rimettere in questione sia la nostra percezione comune delle cose sia la nostra personale esistenza. Si avvia un gioco di interpretazioni e significati. Ecco allora la virtù paradossale delle storie: quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso. Occorre dunque entrare con fede in un mondo diverso rispetto a quello della nostra vita per comprendere a fondo il senso proprio del nostro mondo.
Non credere nelle storie significherebbe narcotizzare il reale, spegnerlo, renderlo piatto, superficiale, scarno, secco.
Una vita senza storie e senza fede nelle storie sarebbe ben povera. Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie da raccontare e più è disponibile ad ascoltare.
Alla fine di ogni giorno bisognerebbe chiedersi: ho una bella storia da raccontare?

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