Sguardo ottimista

Sapevate che essere ottimisti fa bene al cuore? E che la serenità è contagiosa?

Tuttavia, è ancora possibile al giorno d’oggi essere ottimisti? È possibile ovvero guardare al futuro e farlo serenamente? E, soprattutto, l’ottimismo è fattibile a tutti? Come spiegarlo, per esempio, ai tanti giovani, spesso demotivati, del nostro Paese ed in modo particolare a quelli del Sud?

Queste domande sono strettamente connesse alle caratteristiche proprie del tempo e dello spazio in cui viviamo e, soprattutto, sorgono come esigenza propria della vita, che non si può concepire se non aperta al futuro e ad un futuro che comprenda, soprattutto per una persona giovane, la possibilità di realizzare sé stessi nella maniera più completa possibile. Pare che il termine “ottimismo” sia stato usato per la prima volta da un gruppo di Gesuiti di Trevoux, nei “Memoires di Trevoux” del 1737, in riferimento alla dottrina di Leibniz, anche se il concetto che esprime risulta di gran lunga più antico. Il termine fu particolarmente abusato, infatti, dalla filosofia antica, da Platone a tutte le cosiddette “filosofie ottimistiche”, ovvero quelle che ponevano a fondamento della realtà un principio razionale, concludendo che tutto ciò che è, in quanto è, è bene. Più in generale, oggi si definisce con il termine ottimismo l’attitudine a giudicare favorevolmente lo stato e il divenire della realtà.

Ma è davvero così importante essere ottimisti? Essere ottimisti è importante per riuscire a cogliere la semplicità delle cose che la vita quotidianamente ci offre ed in questa semplicità la sua grandezza.

E si può essere ottimisti anche quando si viene da una realtà “diversa”, come lo è quella del Sud Italia, per esempio, il famoso Sud sempre meno evoluto, meno industrializzato, meno attento e pronto ai cambiamenti, dove i giovani faticano a trovare un lavoro e quando lo trovano è perché si adattano, non perché hanno veramente modo di realizzare i propri sogni, di veder finalmente fruttare anni e anni di sacrifici e studi? È possibile essere ottimisti in una realtà in cui i latitanti si nascondono per anni senza essere trovati, mentre segretamente continuano a manipolare i loro sporchi traffici o dove chi lotta per sconfiggere tutto questo viene ucciso? Disoccupazione, per certi versi ignoranza, mafia, arretratezza, chiusure… sono realtà di cui soprattutto i giovani del Sud avvertono il peso, anche per le possibilità che hanno di confrontare le proprie condizioni di vita con quelle di altri e di rendersi conto che, a fronte di difficoltà che sono comuni a coetanei che vivono in luoghi diversi, altre sono invece collegate al territorio e alla sua storia ed aggravano le prime.

Cercando di andare oltre la famosa questione del bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno e, soprattutto, partendo dal presupposto che essere ottimisti non significa semplicemente pensare in positivo, prendere tutto alla leggera, essere superficiali o vivere alla giornata, forse, a questo punto, sarebbe opportuno più che di ottimismo parlare di fiducia, di affidamento/abbandono, di speranza, ovvero di quel “positivo” che nasce dalla fede. Per un cristiano quanto meno dovrebbe essere così, perché per un cristiano il termine ottimismo coincide con la fede, con la speranza, con la pre/disposizione, la disponibilità ed il sapere accettare tutto ciò che accade anche se noi non lo abbiamo previsto, anche ciò che non abbiamo calcolato, tutto ciò che è diverso da noi.

Essere ottimisti significa, allora, maturare uno sguardo nuovo, un atteggiamento aperto e flessibile nei confronti della vita, nei confronti delle persone, della realtà, del mondo. Si può essere o non essere ottimisti per vivere ma non si può vivere senza speranza, la speranza che con l’impegno cerca di aprire sempre nuove strade, che, testarda, cerca i fiori anche tra le pietre, che, instancabile, nutre l’amore anche in un’esperienza di assoluto egoismo.

Necessariamente bisogna partire dal presupposto che ogni persona ha un modo proprio di “prendere la vita”. Alcuni sostengono che essere ottimisti sia solo questione di abitudine ed alcuni studi dimostrano che la persona ottimista è più sana e felice di chi vede sempre tutto nero. In genere si definiscono ottimisti coloro che sanno affrontare le situazioni con serenità ed entusiasmo e pessimisti coloro che, al contrario, sono portati a vedere sempre il lato negativo di ogni cosa. I primi vivono, i secondi sopravvivono.

Ma da dove nasce l’ottimismo? Si può imparare? Dal pessimismo si può guarire? Ottimisti si nasce o si diventa? Secondo una serie di studi di genetica del comportamento non esistono geni dell’ottimismo e geni del pessimismo. Esiste, casomai, una sorta di tendenza verso l’uno piuttosto che verso l’altro. L’ottimismo e il pessimismo sono legati alle nostre esperienze e alla predisposizione con la quale noi vediamo, percepiamo e interpretiamo la realtà che ci circonda, ovvero i fatti, gli eventi, le situazioni, ma soprattutto sono legati alle prospettive future, alle disposizioni d’animo rispetto ad eventi che devono ancora verificarsi. Esiste una stretta connessione tra ottimismo e autoefficacia, intendendo per quest’ultima il senso della propria efficacia personale, la consapevolezza di non essere soltanto spettatori della propria esistenza, bensì protagonisti. Per essere ottimisti per prima cosa bisogna avere voglia di esserlo!

Le ferite, le delusioni che tanti di noi hanno ricevuto nel corso della propria vita e che, ahimè, forse ancora riceveremo, in diversi ambiti, non devono indurci a pensare che anche da determinate circostanze non sia possibile trarre qualche beneficio, la possibilità cioè di imparare un qualcosa che proprio quella situazione ci ha permesso di vedere finalmente in modo chiaro e, allo stesso modo, non dovrebbe mai venir meno la speranza che anche in certe persone non possano esserci delle qualità migliori: il che non significa affatto osannare gli ingenui o gli sprovveduti, ma semplicemente che esistono al mondo persone diverse. La persona ottimista dovrebbe allora distinguersi per l’atteggiamento obiettivo; l’ottimista dovrebbe essere fiducioso, disponibile, aperto agli altri, non dovrebbe aver paura di incontrare persone nuove, di instaurare rapporti nuovi, nuove forme di collaborazione. La persona ottimista non dovrebbe aver paura di chiedere”.

E l’ottimismo cristiano, in particolare, non è pura fiducia nel fatto che, sempre, tutto andrà per il meglio, ma un ottimismo che affonda le sue radici nella coscienza della libertà e nella sicurezza del potere della grazia; un ottimismo che porta a essere esigenti con noi stessi ed a sforzarci per esserlo. Compito del cristiano dovrebbe essere quello di guardare tutti con fiducia e comprensione e comprensione significa azione. Abbiamo ricevuto da Dio il mondo in eredità e per questo abbiamo il diritto di avere anima ed intelligenza vigili. L’insensibilità e l’abitudine possono permettere che si guardi il mondo senza vedere il male; dobbiamo essere ottimisti, ma di un ottimismo che nasce dalla fede, quell’ottimismo che ci permetta di coglierne la compatibilità con le difficoltà, le preoccupazioni, le sofferenze, con la stanchezza fisica ed il dolore.

E come trovare questa forza? Come coltivare la speranza, come diffonderla, comunicarla e trasmetterla agli altri dopo di noi? Su cosa/chi contare? Sulle istituzioni? Gli uomini di governo, spesso imposti dall’alto con scelte che guardano gli interessi del partito più che le esigenze del territorio, mirano a barcamenarsi quando non sono collusi con la mafia: i pochi di buona volontà sono isolati, voci che gridano nel deserto, criticati da quegli stessi per i quali si battono. E la Chiesa? Gli ideali cristiani spesso spariscono dietro interessi di carriera, vantaggi economici, una vita opaca nella quale il mistero di Cristo non è più visibile, sperimentabile, in cui manca la testimonianza limpida di una vita spesa per gli altri.
Noi Pietre di scarto abbiamo cercato di trovare una risposta a questi interrogativi, oltre ad aver personalmente sperimentato che è possibile oggi, nel Sud, coltivare e far crescere la speranza, fondandola su: la fiducia nella vita e nel suo Creatore, la cui volontà è la vita, non la morte delle sue creature; la forza delle relazioni tra le persone, in particolare quando esse sono legami nei quali ciascuno è responsabile nei confronti dell’altro; la forza creativa che nasce dal relazionarsi non solo con i coetanei e i vicini, ma con persone di ogni parte d’Italia e del mondo, di ogni età, razza, estrazione sociale, ideali; la forza dei sentimenti, delle idee, delle esperienze, comunicati, condivisi, che rendono creativi anche i momenti di solitudine, di prova; la fiducia nella terra, l’amore per la terra, anzitutto quella in cui si è nati e si vive, per le sue tradizioni, la sua storia, la sua lingua, i suoi costumi, che le permettono di dare un contributo autentico, unico, alla storia universale.

Le cronache di Narnia

Le cronache di Narnia

Portando avanti questa riflessione sull’ottimismo da un punto di vista pratico, nel dicembre 2005 è uscito nelle sale cinematografiche un film che può aiutarci molto, a proposito, a vedere tutto in modo più chiaro. Si tratta di Le cronache di Narnia, regia di Andrew Adamson, tratto da “Il leone, la strega e l’armadio”, primo dei sette libri che compongono la leggendaria saga del mondo di Narnia, di C. Lewis, uno dei più grandi scrittori della letteratura inglese del Novecento. Il riferimento è ad una scena in particolare del film, quasi all’inizio della visione, il momento, cioè, dell’incontro di Lucy, piccola figlia di Eva, protagonista della storia insieme ai suoi fratelli, fortunosamente allontanata dalla madre dagli orrori della seconda guerra mondiale, con il fauno, una delle fantastiche creature che animano il mondo di Narnia. Lucy è intenta a giocare a nascondino quando, semplicemente attraversando la porta di un armadio, si ritrova d’improvviso in un mondo nuovo, ma che non le fa paura. Narnia è nelle mani della crudele strega bianca, a causa della quale è sempre inverno.

La scena in questione ci presenta proprio il gelo, la neve, tutto pietrificato dal ghiaccio e questa bambina, che, pur allontanatasi dal gioco, non esita ad avanzare curiosa e disposta a meravigliarsi di fronte a quanto le si offre agli occhi. Vediamo Lucy avanzare lentamente mentre i fiocchi di neve le si poggiano piano sui capelli e tra le ciglia, quando ecco arrivare il fauno. Proprio in questa scena è possibile trasfigurare quanto può accadere a ciascuno di noi nella vita di ogni giorno. Ed ecco allora che le preoccupazioni, le ansie, le difficoltà che talvolta ci affliggono prendono forma nella foresta gelata e nulla cambia, si riscalda, si scioglie se non siamo noi, proprio come Lucy, ad impegnarci, a provare a riscaldare tutto con il nostro sguardo. Lucy ed il fauno sono due esseri completamente diversi; inizialmente il loro incontro li turba, li spaventa, Lucy urla e d’istinto cerca protezione dietro un albero e allo stesso modo il fauno, con una sciarpa rossa decisamente insolita in mezzo a tutto quel bianco e dei regali che finiscono in terra per lo spavento. Ma ecco Lucy prendere coraggio e piano piano, seppure con timido intento, avvicinarsi, riuscendo a comunicare con quell’essere che, a parte quelle strane orecchie e la parte inferiore del corpo da animale forse nasconde qualcos’altro di buono e Lucy questo lo sa.

Ecco, per essere ottimisti bisognerebbe imparare a fare proprio come questa bambina, bisognerebbe imparare ad essere come Lucy, senza temere ciò che non conosciamo, senza paura di sperimentare il diverso, il nuovo, ma alimentando con costanza quanto di positivo si può trarre dal mettersi in gioco, dalla voglia di non smettere mai di meravigliarsi, di stupirsi, anche quando bambini non lo si è più. Ed ecco così che tanti piccoli particolari sembrano d’improvviso assumere significati del tutto nuovi: il lampione, per esempio, che all’inizio della scena sembrava posto decisamente nel luogo meno adatto, ma il cui compito era, invece, quello di dare il benvenuto a Lucy nel mondo di Narnia e con la sua fiamma, con il suo colore, con il suo calore, anticipare egregiamente l’ottimismo, la speranza tutta cristiana che anima l’intera storia ed allo stesso modo la sciarpa rossa del fauno, i regali che si lascia cadere ed una frase pronunciata da Lucy, “com’è grande l’anima del guardaroba!”, che ci permette di capire che, in realtà ,il mondo di Narnia non è il viaggio in un mondo inventato, ma il viaggio che ognuno di noi potrebbe compiere, in quanto viaggio nel proprio mondo, alla scoperta del proprio io; l’anima in questione non è dunque quella del guardaroba, ma l’anima di Lucy.

Infine, prima di concludere, Vera Munafò, nostra carissima amica di Messina, consiglia, sempre a proposito della riflessione sull’importanza di essere ottimisti la lettura di Un mondo per Julius, un libro di Alfredo Bryce Echenique, uscito da poco in Italia, tradotto da Enrico Cicogna ed edito da Guanda. Il romanzo narra la storia dell’infanzia di Julius, offrendo la cronaca spietata ma non priva di humour della dissoluzione del mondo affettivo nei suoi primi undici anni di vita. Il mondo di Julius è fatto senz’altro da sua madre Susan, deliziosamente frivola e adorata da tutti, ma anche dalla famiglia di ricchi uomini d’affari a cui lui appartiene, con il suo seguito di domestici devoti e fedeli; e poi c’è la città di Lima, con le contraddizioni tipiche delle metropoli sudamericane, grazie alla quale Julius scoprirà lo scandalo dell’ingiustizia sociale. Julius è sempre pronto ad apprezzare il lato positivo della vita, perfino quando il dolore irrompe nella sua esistenza apparentemente dorata.
Alfredo Bryce Echenique è nato da una famiglia dell’alta borghesia in Perù nel 1939, dove ha studiato e vissuto fino al 1964, per poi trasferirsi in Francia e quindi in Spagna.
La riflessione di Vera sull’ottimismo ci suggerisce, inoltre, anche la lettura ed analisi di queste poesie, rispettivamente di Nazim Hikmet , di Pablo Neruda e di Madre Teresa di Calcutta:

Alla vita

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.

Prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli
ma perché non crederai alla morte
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.

Ode al giorno felice

Questa volta lasciate che sia felice,
non è successo nulla a nessuno,
non sono da nessuna parte,
succede solo che sono felice
fino all’ultimo profondo angolino del cuore.
Camminando, dormendo o scrivendo,
che posso farci, sono felice.
Sono più sterminato dell’erba nelle praterie,
sento la pelle come un albero raggrinzito,
e l’acqua sotto, gli uccelli in cima,
il mare come un anello intorno alla mia vita,
fatta di pane e pietra la terra
l’aria canta come una chitarra.
 

Ama la vita così com’è…

Ama la vita così com’è:
amala pienamente, senza pretese;
amala quando ti amano o quando ti odiano,
amala quando nessuno ti capisce,
o quando tutti ti comprendono.

Amala quando tutti ti abbandonano,
o quando ti esaltano come un re.
Amala quando ti rubano tutto,
o quando te lo regalano.
Amala quando ha senso
o quando sembra non averlo nemmeno un po’.

Amala nella piena felicità,
o nella solitudine assoluta.
Amala quando sei forte,
o quando ti senti debole.

Amala quando hai paura,
o quando hai una montagna di coraggio.
Amala non soltanto per i grandi piaceri
e le enormi soddisfazioni;
amala anche per le piccolissime gioie.

Amala seppure non ti dà ciò che potrebbe,
amala anche se non è come la vorresti.
Amala ogni volta che nasci
ed ogni volta che stai per morire.

Ma non amare mai senza amore.
Non vivere mai senza vita!

(Un ringraziamento particolare lo dobbiamo a Nancy e a tutte le Pietre di Scarto, per averci aiutato in questa “positiva” riflessione).

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  1. Angela C. ha detto:

    Carissima, ti ho letto in un sorso. Non appartengo ai due emisferi che tracci, ottimismo e pessimismo. Del resto il primo, che nutre il e si nutre di buonismo, potrebbe non essere meno nocivo del secondo. Consentimi di dissentire e rilanciare almeno una terza categoria: il sano disincanto. Volendogli riconoscere una dimensione spazio tempo, potremmo localizzarlo tra una nuvoletta e Sodoma e Gomorra, il tutto si svolge qui e ora (…a ben vedere sono gli stessi paletti in cui si muoveva il Cristo).
    Con un sorriso e tanta stima alla bella gente di Pietre di scarto

  2. Nancy ha detto:

    Ripensavo allo sguardo di Lucy. E’ la prima cosa che mi colpisce rileggendo Le Cronache di Narnia. E’ stata la prima cosa che mi ha colpito rivedendo il film. Il suo sguardo! Non è solo lo sguardo di una bambina che vuole giocare, non è uno sguardo ingenuo. Indica apertura, senso del meraviglioso, coraggio nonostante tutto. I suoi occhi vedono lo stesso mondo che vedono i suoi fratelli. Ma il suo atteggiamento è diverso. Non vuole assolutamente chiudere quegli occhi. Non vuole neanche girare l’attenzione altrove, per paura o per pregiudizio. E’ uno sguardo nuovo, irresistibile, riconoscibile per la sua bellezza in mezzo… agli sguardi degli altri. E’ lo stesso sguardo che Tolkien, Lewis, Chesterton hanno avuto di fronte alla loro epoca. Mentre tutti gli altri si crogiolavano in un’ansiosa ricerca di nuove forme di comunicazione, portandosi dietro il fardello delle certezze spezzate dal dolore della guerra e di una società in crisi, loro invece ci indicavano un’altra strada. Per percorrerla era necessario un altro sguardo, quello della speranza, quello della fede.
    Nancy

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