Philippe Jaccottet. Fiori, colori.

Quando si parla di colori si finisce per trattare, prima o poi, anche dei fiori: tema capitale della poesia che però riesce difficilmente a interessare ancora il lettore contemporaneo. Per uno sguardo conquistato, suo malgrado, dall’invasità del male, la bellezza di una corolla, così inutile e indifesa, passa in second’ordine. In Tempi brutti per la poesia Brecht proclama il suo entusiasmo per il melo in fiore, ma solo i proclami di Hitler lo spingono a impugnare la penna; avrebbe voluto scrivere di quel bianco vivo e supremo ma trovava quasi offensivo dedicarvi attenzione mentre l’Imbianchino – come soprannominava il dittatore – annullava tutte le opinioni attraverso metodiche, inarrestabili pennellate di retorica. I colori scomparivano dal suo mondo, annullati dall’uniformità dell’ideologia.

Questa primavera mi sono imbattuto in una raccolta di poesie sui fiori davvero convincenti: si tratta di E, tuttavia, dello svizzero Philippe Jaccottet (traduzione di Fabio Pusterla, Marcos y Marcos, 2006, pagg. 209, euro 15,00). Una lettura che, incredibilmente, mi ha imposto i luoghi in cui leggerla; perché la grande poesia non si può leggere ovunque, né a qualsiasi ora, almeno per chi legge con il corpo oltre che con le meningi. Questo volume va assaporato all’aria aperta, in silenzio, immersi nel verde e nel sole. Sa di felicità conquistata. Con gli anni lo sguardo di Jaccottet, oggi ottantenne, si è spinto «là dove il più bel libro / non è che un riparo precario». E, tuttavia è congiunzione e avversativa, dice continuità e scarto: pronuncia l’invasività della corruzione ma non capitola alla sua banale evidenza. Non cerca scorciatoie o fughe, semmai sono le brecce della realtà a imporsi al poeta, ad aprirgli gli occhi, incrinando la prepotenza illusoria delle lenti conoscitive. Il balenare di un colibrì tra le foglie, lo zampettare di un pettirosso, un canto d’usignolo, il germinare di viole e convolvoli «apre, nel proprio aprirsi, un’altra cosa, molto più di se stesso».

Jaccottet non si rifugia in una botanica deumanizzata, ritiene al contrario che «occorre ribattezzare i fiori», sgombrare la strada alla bellezza così che il paesaggio parli di nuovo anche a chi si trascina nel sangue (su questo, in particolare, Note al botro). Il suo spazio poetico è l’ingresso; nei suoi versi la poetica delle cose – che si manifesta anche nella forma, prosa poetica – varca il recinto dell’immanenza pur riconoscendo che per passare di là ci vuole, forse, ben altro. Ed ecco che Hördelin, Claudel e Giovanni della Croce diventano suoi interlocutori. Quali emozioni si agitavano nel cuore di Hopkins quando vedeva in un fiore la bellezza di Cristo? Jaccottet si fa traduttore dello sguardo contemplativo e tra le mani gli sgorga quel fonte turato dalla ghiaia di formule e codici. Risale all’Origine senza volerla nominare, perché i nomi, possedendo, riducono. Il suo tuttavia è salvifico, produce svolte impensate, parla di risurrezione: «Attraverso quel fiore potrebbe avere inizio la riparazione del cielo più alto. Proprio qui sulla terra, che non si aprirebbe più solamente con colpi di vanga per tombe».

Eccovi un assaggio… ecco cosa si può arrivare a dire contemplando il più ovvio ciuffo di violette:

“Viole”

Soltanto un ciuffo di pallide viole
un ciuffo di questi fiori deboli e quasi insulsi,
e un bambino che gioca nel prato…

Quel giorno, in quel febbraio, non poi così distante eppure perso come tutti gli altri giorni della propria vita che mai più sarà dato riafferrare, per un attimo breve, devono avermi sgombrato la vista.

Fiori tra i più insignificanti e più nascosti. Infimi. Al limite dell’insulsaggine. Nate dalla terra che le ultime nevi d’inverno hanno reso più molle. E come possono, poi, se tanto fragili, anche solo apparire, sbucare dalla terra, e stare ritte?

Nella liturgia dell’anno, più costante, un poco più eterna dell’altra – che d’altronde si va sfaldando – hanno il loro posto preciso come l’ora d’aria nella giornata dei reclusi. Per sentirle, bisogna spostare dell’ombra. Essere usciti dagli incubi. Aver sciolto le proprie bende. O non è forse la loro vista che in questo ci aiuta?

Viole.

Frecce di tenera punta, incapaci di veleno.

(Cancellare tutti gli errori, i sotterfugi, tutte le forme di distruzione; per non conservare altro che queste lievi, queste fragili punte di freccia, scoccate da un angolo d’ombra a fine inverno).

L’infimo, che apre una via, che traccia una via; ma nulla di più. Quasi ben altro occorresse, a me mai dato, per passare di là.

Leggi i 3 commenti a questo articolo
  1. Stas' ha detto:

    Grazie Paolo per questa intenso e approfondito “dispiegamento” delle poesie di Jaccottet. Sono d’accordo con te, con lui e con chiunque creda nell’importanza di tornare alla contemplazione del reale, alla riscoperta della bellezza. Non dico nulla di nuovo se affermo che dobbiamo ripartire dalla Bellezza, ma lo penso ogni giorno di più. Sì, ci vuole uno sguardo semplice, ci vuole raccoglimento, ci vuole il coraggio di rinunciare a capire il mondo solo con la ragione.

    Le viole di Jaccottet mi hanno fatto pensare agli orapi raccolti dalla protagonista de “La puttana del tedesco” – l’ultimo bellissimo romanzo di Giovanni D’Alessandro – la verdura selvatica delle montagne d’Abruzzo che rappresentano per la donna la bellezza della vita malgrado tutto e, quindi, l’inizio della speranza. Oggi, però, la cultura dominante non è sensibile alla Bellezza, ma piuttosto al piacere del ridere, dell’evasione mascherata di critica sociale, una satira sempre più uguale a se stessa per risate subito spente. Insomma, si preferisce l’evasione alla contemplazione, la fuga deresponsabilizzante (come è manichea e “capace di veleno” la satira!) all’immersione nel reale che “apre una via”.

  2. paolo pegoraro ha detto:

    Il Poeta parlava del giglio del campo, ne ammirava lo splendore inimitabile che pure dura una sola giornata; e forse l’eterno segreto della bellezza ci tocca davvero solo attraverso la sua caducità. Un fiore che dura non avrebbe la commossa magnificenza del colore che grida la lode anche attraverso la sua fine, attraverso l’unicità di ogni secondo in cui si leva alla pioggia e al sole.

    La bellezza non svanirà, diceva Cronin, ma quanti ci credono? quanti riescono a scorgere ancora il volto di una diciottenne innamorata attraverso le rughe di una ottantenne costretta al letto? Meglio ridere di quella sciocca adolescente che non sapeva dove sarebbe finita.

    Un giorno – se mai resterà qualcosa di tutto ciò – qualcuno scriverà dell’abissale ironia postmoderna. Una delle sue manifestazioni più acute l’ho trovata in “Una certa idea d’Europa” del critico George Steiner (Garzanti 2006), che spiazzato, spaventato, e infine inasprito dalla sfida della pluralità auspica una tolleranza che sia «ironica indifferenza». In altre parole: il mondo – il suo mondo – finirà con una gran risata. Di chi, però, non lo dice.

  3. Paolo ha detto:

    IL fiore e l’occhio é l’essenza della terra germinale puro carnale,evocativo di pluralità ed individualita’ non comuni. I suoi colori puri e fantasiosi li ritroviamo nell’universo completo di perplessità è teoricamente l’unicità di forme e colori sgomenta chi fa’ l’osservatore a tempo.Guardiamo e pensiamo di essere unici ed è giusto pensarlo?Calcolare distanze astronomiche e porci
    domande e nella nostra natura formulare teorie inaffidabili sul come è sul quando.Indubbiamente maturando in noi perplessità ed inattese mutazioni individuali.

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