Szymborska. Una pressante ingenuità

Wisława Szymborska

Wisława Szymborska

Abbiamo raggiunto Wisława Szymborska: resta ormai ben poco da tradurre in italiano. Certo, si tratta di un corpus poetico ristretto, undici esili sillogi in mezzo secolo, poco più di 300 composizioni, qualche raccolta di prose. E il Nobel ha dato certo man forte, ma neppure tanto, perché prima del 1996 era nota perfino in Italia, mentre altri scrittori meritevolmente insigniti dall’Accademia svedese sono ancora misconosciuti. Szymborska è amata dai lettori. In Polonia la sua ultima raccolta, uscita nel 2005, ha venduto oltre 40 mila copie. Cosa conquista, dunque, nei suoi versi? Luigi Marinelli ha acutamente notato, in un articolo scritto in morte di Miłosz, che per molti poeti polacchi del secondo Novecento scrivere ha significato riflettere sul sofferto rapporto tra la grande Storia e le vicende personali, compendiando la propria missione artistica «nel binomio “testimonianza e compassione”, nel volere e saper parlare per tutti e al cuore di tutti». Questo «individualissimo discorso al plurale» appartiene certamente anche a Szymborska. Scheiwiller ci ha proposto la sua settima opera, Grande numero, «una delle più dense e compatte» della sua intera produzione, come sottolinea il sempre bravissimo traduttore Pietro Marchesani. Lo confermano la presenza di alcune delle sue poesie più note e caratteristiche, come La cipolla o Una vita all’istante, stuzzicanti connubi tra soggetto inconsueto, tono scherzoso e meditazione esistenziale. La sua undicesima e, per ora, ultima raccolta è Due punti (Adelphi, 2006). Anche qui Szymborska conferma i temi a lei più cari, come la difesa della singolarità di ogni istante e la misteriosa alchimia che origina un individuo inedito (Assenza), il cui sguardo sul mondo è sempre nuovo e irriducibile.

La poesia scocca nell’attimo d’incontro tra la metamorfosi del mondo e l’osservatore, non meno soggetto a impercettibili ma inarrestabili cambiamenti: i suoi occhi sono avidi interrogativi e la risposta è ciò che vede, ovvero l’esistenza, introdotta da due punti esplicativi (In effetti, ogni poesia). È un’odissea nell’impercettibilità dell’infinitamente elementare e irriflesso, nei luoghi bollati come comuni, estromessi dalla repubblica delle lettere, e capita di dover rileggere una composizione per capire cos’è avvenuto, tanto lievi sono i passaggi. Eppure ci sono: Szymborska è sorpresa dall’ovvio non per dono innato, ma perché in lei coesistono disincanto e disciplina del reincanto consapevole, intelligente, sorvegliato (Disattenzione). Come la natura che compare nei suoi versi. Ci sono sì allodole e pettirossi, ma anche e soprattutto scimmie, yeti, alligatori, orche assassine, antilopi inseguite da leoni, cervi di carta. Non c’è nulla d’impoetico, a suo dire, nella scienza: vengono pertanto chiamati in causa Darwin, la paleontologia, la citologia, l’astronomia, la matematica, la statistica.

Questo tratto è evidente in particolare nel suo Letture facoltative (Adelphi, 2006): Szymborska si sforza di essere un’eterna quanto appassionata principiante della realtà, una collezionista del sapere accessorio, e per questo si avventura con mai sminuita trepidazione tra letture irrimediabilmente terrene e pubblicazioni ignorate quali calendari, manuali di grafologia e florocomposizione, biografie, statistiche, storie dell’abbigliamento e storie dell’evoluzione dei molluschi, diari, fumetti, guide al bricolage, allo yoga, al bon-ton. Szymborska attraversa le discipline più settoriali perché nella contemporaneità le lenti panvisive di ogni metafisica si sono infrante in miriadi di saperi specialistici, e solo da questi minuscoli trampolini si può saltare verso l’alto, cercando qualcosa di condiviso dall’infinità dei punti di vista che ha reso tutti un po’ scettici (Il vecchio professore). Di comune ci sono solo le domande, o al massimo proposizioni minime, suggerimenti intrafisici, microscopici, ma universali, solidi come atomi; negarle, decostruirle ulteriormente, avrebbe l’effetto di una bomba nucleare per la coscienza umana. Perché «non ci sono domande più pressanti / delle domande ingenue». La poesia si propone allora come unico cielo capace di ospitare tutto lo scintillante pulviscolo in cui sembrano essersi ridotte le certezze del vecchio mondo. Nei suoi versi, dunque, non sono i tecnicismi linguistici a contagiare la purezza del linguaggio lirico, ma è piuttosto la conoscenza poetica del mondo a trasbordare riappropriandosi di ciò che, fin da principio, le apparteneva. Il poeta, d’altra parte, è uno che resta indietro «per raccogliere quanto è stato calpestato e smarrito nella marcia trionfale delle verità oggettive»; è un genio inclusivo che scende dal piedistallo per tessere il mondo, convinto che la poesia sia solo una componente della letteratura, «né più né meno importante di altre». Il poeta non rifiuta nessuna occasione di stupirsi della bontà di ciò che c’è, per quanto piccolo o volgare; come non rifiuta l’occasione per indicare il rattoppo sulle mutande della Storia, tanto per ricordare che il piccolo e il volgare appartengono a tutti, anche se qualcuno preferisce nasconderlo per fingersi invincibile invece di lavorare sodo per rendersi amabile.

Szymborska è amata perché scopre la vita, e perché lo fa con la bonomia sorniona e maliziosa della nonna che si finge sorda davanti a un ospite importuno. Con una lingua radicalmente democratica, che si appella al buon senso più che alla cultura, e si fa capire anche da chi ha la terza elementare. Allergica com’è alla prosopopea autoreferenziale e alla posa dell’intellettuale eternamente scontento, Szymborska apostrofa così i suoi colleghi: «Signori Critici! dal momento che vi servite dell’espressione “umorismo demenziale”, provate a introdurre, per equità, il termine “serietà demenziale”!».

Questo mondo fluido e composito compare molto bene nel libro di Marco Minghetti e Fabiana Cutrano intitolato Nulla due volte, Il management attraverso la poesia di Wisława Szymborska (Scheiwiller 2006), testo singolarissimo che offre diversi livelli di lettura. Vi troverete un’antologia poetica ma anche fotografica, una folta bibliografia che diventa filmografia, discografia, sitografia, e soprattutto i commenti di venticinque personalità ad altrettante poesie di Szymborska. Lo raccomandiamo soprattutto agli accaniti lettori di Scott Adams e a quanti sostengono che la poesia non abbia nulla da spartire con lo spietato mondo del lavoro. Ed ecco il punto. Secondo gli autori proprio la poesia è uno strumento privilegiato per transitare dal modello taylorista a strutture d’azienda rette dalla convivialità, o meglio, dallo scientific management allo humanistic management. Il libro si legge bene perché il management, in fondo, non è che una metafora dei rapporti sociali e il fordismo simbolizza tutte quelle concrezioni storicamente assunte da una visione dell’uomo utilitaristica, meccanicista e spersonalizzante. Gli autori si rifanno costantemente a Szymborska – con intuizioni critiche notevolissime – e a Zygmunt Bauman, il sociologo che ha definito lo stadio attuale come «vita liquida», per tracciare un’antropologia su cui riscrivere la vita aziendale. L’identità umana, in effetti, è imprevedibile come la crosta terrestre: superficialmente inamovibile terraferma e saldissima, che però cova fluenti interiora di magma e sfrenatamente galoppa per le ombrose praterie della galassia.

[rielaborazione di testi comparsi su Letture 629 e 635]

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