Viaggio attraverso l’Eneide III

Viaggio di Enea da Troia verso l'Italia

Viaggio di Enea da Troia verso l'Italia

Enea continua a parlare davanti a Didone e ai notabili di Cartagine per esporre le peripezie del suo viaggio. Il senso di sconforto e di rimpianto che si avverte fin dai primi versi del canto, l’immagine di Troia (superbum /Ilium) ridotta ad un mucchio di macerie, il ricordo della sua potenza, della vita tranquilla e operosa di un tempo ormai perduta per sempre, sono i motivi che ispirano la poesia di questo libro e che, brevemente accennati all’inizio, torneranno insistentemente come un incubo doloroso a caratterizzare ogni stato d’animo e ogni situazione  di questa breve odissea virgiliana, di cui è protagonista un eroe destinato a peregrinazioni forzate, un vinto che non ha più una patria e viaggia con il rimpianto del passato e l’incertezza dell’avvenire.

L’eroe troiano prosegue narrando che, appena giunse l’estate, la nuova flotta, costruita coi sacri pini del monte Ida, fu pronta per il grande viaggio senza ritorno da quei luoghi desolati dove Troia non c’era più. La prima mèta dei profughi è la vicina Tracia, dove pensano di potersi fermare, tanto che fondano la loro nuova città: Eneade. Ma un giorno, mentre Enea strappava alcune fronde da un verde cespuglio per ornare gli altari e per invocare con un sacrifico la protezione degli dei sulla nuova città, un orribile prodigio lo induce ad abbandonare per sempre quella terra. Infatti, dai rami spezzati del cespuglio, vede esterefatto colare gocce di sangue! Poi, mentre cerca di romperne altri e di scoprire il mistero, sente una debole voce che gli chiede di aver pietà di quelle membra, che furono di uomo e per di più di un suo parente: Polidoro! Era questi uno dei figli di Priamo mandato dal padre, con una gran quantità di oro e di argento, presso il re della Tracia, affinché, almeno lui, si salvasse dall’incombente rovina di Troia; ma il sovrano si rivelò un traditore, in quanto, per impossessarsi delle ricchezze, fece uccidere il giovane e ne lasciò il corpo insepolto sulla spiaggia. Ma i dardi e le frecce, confitte sul suo corpo, erano poi prodigiosamente germogliate formando quel cespuglio di cui Enea aveva spezzato i rami. L’eroe, inorridito da questo racconto e impietosito per la sorte del suo giovane congiunto, celebra i dovuti riti funebri e, appena i mari e i venti lo permettono, riprende la navigazione per raggiungere Delo e chiedere all’oracolo di Apollo dove debba dirigersi per porre la sua nuova sede. Il dio risponde che dovevano raggiungere l’antica madre (antiquam exquirite matrem), ma Anchise interpreta erroneamente questa profezia, in quanto crede che la terra indicata dal dio sia l’isola di Creta, perché di lì era venuto Teucro, uno dei loro progenitori. Così, giunti nella nuova sede, vengono decimati da un’improvvisa pestilenza, appena avevano costruito la loro nuova città, Pergamo, ed iniziavano a vivere felici. Enea stava per tornare ad interrogare l’oracolo, quando, una notte, gli appaiono i Penati che, assicurandogli di essere stati mandati dallo stesso Apollo e che mai gli mancherà la loro protezione, gli rivelano che la vera madre dei Teucri è l’Italia, da cui era venuto l’altro capostipite: Dàrdano. Enea si affretta a ripartire, ma un’improvvisa tempesta lo spinge nelle isole Stròfadi. Qui, uccisi alcuni buoi che vagavano liberi per i campi, appena si sono disposti a banchetto, i Troiani vengono assaliti dalle Arpie, mostruosi uccelli dal volto di donna,  che divorano le loro vivande ed insozzano le mense. Anche se Enea e i suoi compagni cercano di mettersi al riparo nel folto del bosco, gli assalti delle invulnerabili Arpie si ripetono per tre volte, nonostante i Troiani cerchino di fronteggiarle con spade, frecce e lance. Alla fine la loro regina Celeno, per vendicarsi dell’assalto e dell’uccisione dei giovenchi, dall’alto di una rupe annuncia ai Troiani con la sua voce stridula e con perverso compiacimento che, anche quando avranno raggiunto l’Italia, non avranno termine le loro avversità, anzi, arriveranno ad un punto tale che, per fame, divoreranno le mense. Tutti tremano di orrore e di paura e Anchise, dopo aver pregato gli dei di vanificare quel funesto presagio, ordina di nuovo di partire. Superano Zacinto, Dulichio, Samo, Nerito, Itaca ed approdano infine presso il promontorio di Azio, dove celebrano i ludi troiani. Quando sta per avvicinarsi l’inverno, riprendono il viaggio e giungono a Butroto, sulle coste dell’Epiro, dove hanno la gioia di incontrare Eleno, figlio di Priamo, re di quelle terre, a cui era passata in sposa Andromaca.  Enea e i suoi compagni si avviano dunque verso Butroto, dove, davanti alle mura di una piccola città, accanto a due altari che fiancheggiano un tumulo vuoto, vedono proprio Andromaca che, mesta e commossa, celebra un rito funebre in onore dei Mani della sua famiglia.  Appena scorge Enea avvicinarsi e si vede circondata dalle insegne e dalle armi Troiane, atterrita da quella che crede una visione, chiede perché Ettore non sia con loro e sembra venir meno per l’emozione e il dolore. A stento Enea riesce a risponderle, per rassicurarla sulla sua reale condizione di uomo, per narrarle del suo lungo, difficile viaggio fino a quella terra e per chiederle quale sia la sua attuale condizione, interessato a sapere soprattutto se sia ancora moglie di Pirro. Dopo aver compianto la sorte infelice di Polissena, sacrificata come vittima sulla tomba di Achille, ricorda che, dopo essere stata destinata come preda di guerra a Pirro, protervo figlio di Achille, di cui era stata schiava e moglie, soffrendo per la sua alterigia e tracotanza nel fasto superbo di quella casa di nemici, quando poi Pirro si era innamorato di Ermione, l’aveva concessa ad un altro schiavo, Eleno,  anch’egli figlio di Priamo, il quale, dopo la morte di Pirro avvenuta per mano di Oreste, geloso di Ermione, era diventato re di una parte del regno. Poi, sempre tra le lacrime, gli chiede di lui, del suo viaggio, del figlioletto Ascanio. Sopraggiunge intanto Eleno, che felice per l’incontro, li abbraccia e li invita nella sua nuova città. Enea, stupito, credendo quasi di sognare, vede le stesse strade, gli stessi palazzi, la stessa rocca di Troia, persino le porte Scee, con le alte mura bagnate da due corsi d’acqua battezzati Xanto e Simoenta: non può che commuoversi vedendo che gli esuli Troiani hanno ricostruito in piccolo la grande Troia per avere sempre davanti agli occhi la patria perduta.

Enea e i suoi compagni trascorrono a Butroto due giorni sereni, pur tra ricordi e rimpianti, e quando si avvicina il momento di partire, Enea interroga sulle vicende che il futuro imminente gli riserva Eleno, dotato di virtù profetiche, con grande trepidazione e attesa. Questi, dopo aver fatto i dovuti sacrifici, gli espone, col tono ieratico e austero di chi parla per ispirazione divina, quanto ha potuto vedere a suo riguardo. Gli consiglia di raggiungere l’Italia dall’occidente per evitare la costa orientale abitata da Greci a loro ostili; lo informa che potrà esser sicuro di aver raggiunto la sede destinatagli dal fato quando troverò una scrofa bianca circondata da trenta porcellini; lo rassicura riguardo alla profezia di Celeno, dicendogli che non preannuncia nulla di terribile; gli consiglia di coprirsi da allora in poi sempre di un velo purpureo durante i sacrifici, per evitare che in quei momenti gli appaiano immagini nemiche e di tramandare quest’usanza ai suoi discendenti; di evitare Scilla e Cariddi circumnavigando la Sicilia, e di non tralasciare mai di onorare l’ostile Giunone. Infine gli consiglia di interrogare, appena giunto a Cuma, la Sibilla Deifobe e di chiederle di dargli il suo responso a voce, non su foglie che il vento potrebbe disperdere. Da lei saprà tutto quanto gli servirà per affrontare e superare i pericoli che incontrerà in Italia. Seguono quindi i momenti dell’addio: particolarmente commovente è l’atteggiamento di Andromaca che colma di doni Ascanio, mentre cerca di imprimersi nella mente l’immagine di quello che avrebbe potuto essere il suo Astianatte, coetaneo del figlio di Enea, e sembra felice dell’inaspettato incontro soprattutto per questo. Enea pronuncia parole solenni, con cui augura una felice vita alla nuova piccola Troia, dove i suoi abitanti possono ormai vivere sereni, mentre a lui il Destino riserva ancora molte dure prove. Si augura che un giorno, se riuscirà a fondare la sua città sulle rive del Tevere, le loro città saranno affratellate in una pace eterna, componenti di un unico grande impero che le unirà per sempre come parti di un tutto inscindibile.

Ripreso il mare, dopo un’intera giornata di navigazione, i Troiani si fermano nella terra dei Centauri, per poi riprendere il viaggio il giorno dopo, poco prima dell’alba. Quando il cielo si colora per l’aurora sono già in alto mare, dove, tra i tenui veli di nebbia che il sole non ha ancora dissolto, intravedono le prime alture della penisola italica, che tutti salutano con festose esclamazioni di gioia, felici di vedere finalmente humilem… Italiam. Fanno una breve sosta per celebrare un rito a Pallade e subito riprendono il viaggio che ben presto li porta in vista di Scilla e Cariddi, dove con fatica riescono a sfuggire alle insidie del mare perennemente sconvolto. Poi, al calar delle tenebre, approdano, ignari di trovarsi nella terra dei Ciclopi, dove stanno tutta la notte nascosti in una foresta, senza poter prendere sonno per il timore del cupo rimbombo dell’Etna e per la terrificante visione delle fiamme che con le loro lingue di fuoco illuminano sinistramente la notte senza luce di luna né splendore di stelle. Il giorno dopo, appena si è fatto giorno, una figura di uomo macilento e coperto di censi compare ai loro occhi e li supplica di portarlo con loro via di lì, in quanto pensa che sia meglio morire per mano di nemici piuttosto che diventare preda dei Ciclopi, mostri feroci, bestiali e antropofagi. È Achemenide, sventurato compagno di Ulisse, da lui dimenticato nell’isola da cui era precipitosamente fuggito con gli altri, dopo aver accecato Polifemo. Egli racconta le imprese di Ulisse nell’antro del Ciclope e la sua misera vita nell’isola, sempre nella vana attesa di una nave che lo porti via. Si raccomanda e li prega di salvare se stessi e lui con una rapida fuga. Aveva appena terminato di parlare, quando si vide il mostro scendere lentamente da un vicino poggio per lavarsi l’orribile piaga con l’acqua di mare. Subito i Troiani si danno alla fuga, ma Polifemo, accortosi della loro presenza dal battere dei remi,  si volge verso le navi, brancolando nel buio nel disperato tentativo di afferrarle con le sue orribili mani. Quando si accorge che non può raggiungerli, con un urlo terrificante chiama in soccorso gli altri Ciclopi che accorrono subito numerosi. I Troiani, per fortuna, sono ormai lontani e, superati i pericoli di Scilla e Cariddi grazie al vento favorevole che li sospinge al largo, lasciano i Ciclopi a guardarli dalla riva con l’occhio bieco, confabulando tra di loro e ondeggiando con le loro enormi teste, simili –secondo il poeta- ad un bosco di querce secolari agitate dal vento. L’episodio dell’incontro con il greco Achemenide ha messo in risalto ancora una volta la pietas di Enea, o meglio quel senso di universale fratellanza nei confronti dell’umanità accomunata dal dolore per cui si dimenticano odi e ostilità di fronte alla sofferenza: qui il compagno di Ulisse abbandonato alla ferocia dei Ciclopi non è più un nemico, ma solo un perseguitato che ha bisogno di compassione e di pietà. Dopo una navigazione che li porta a superare la foce del Patangia, Tapso, Ortigia, Pachino, la palude di Camarina, Gerla, Agrigento, Selinunte e Lilibeo, giungono finalmente nel porto di Trapani, dove per Enea ci sarà un’altra e più grande sventura, la morte del padre Anchise, dolore che né Eleno né Celeno avevano saputo prevedergli.

Il libro si chiude con l’accorato ricordo di Anchise, l’ottimo padre, morto prima di poter toccare la terra promessa e l’attenzione del poeta si sposta infine da Enea, protagonista narrante, all’uditorio della reggia, ancora attento e muto, come all’inizio del II canto, al quale l’eroe, a conclusione del suo racconto, dice che da Trapani, dopo il dolore per la morte del padre, un Nume l’ha indirizzato alla loro terra.

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  1. Anonimo ha detto:

    ulisse non ha colpa per achemenide , perche , enea ha preso achemenide e la ha portato al sicuro . a me mi piace questa scena per enea .

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