Macchie rosse

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Saverio Bertolino su
Alessandra Montrucchio, Macchie rosse, Farfalle, Venezia, Marsilio, 2001.

Estate del 1984. Un gruppo di ragazzi, la compagnia del mare, la stessa compagnia dello stesso mare romagnolo da anni, si ritrova a Lido di Spina per trascorrere insieme le ultime due settimane di agosto. Ragazzi diciotto-ventenni come tanti. E, come tanti a quell’età, spensierati. Molto spensierati, lontani dagli amici quanto da loro stessi. Ancora innocenti di quel salto verso la vita consistente nell’aprire gli occhi su se stessi e sugli altri, nel conoscere e nello scegliere. Per sé, anche per sempre.
Macchie rosse è un romanzo dal quale sale una lode corale alla fine dell’adolescenza, alla perdita di quest’innocenza. Una lode malinconica, di una nostalgia struggente, a volte aspra, altre volte venata di una pungente tenerezza. Un inno che scioglie le sue rime in quattordici giorni, nelle previsioni uguali a se stessi e a quelli degli anni passati, invece stavolta decisivi per ognuno dei protagonisti, che si ritrovano al capolinea della spensieratezza a fare i conti, da soli o in coppia, con l’imprevisto e con le decisioni – con la vita.
Sullo sfondo di un ambiente statico e rarefatto, intriso di afa, pioggia e odore di mare, la diciannovenne Titi avanza in un normale inizio di vacanza nell’estate della maturità, immatura nel dividersi superficiale fra la cotta per il timido ed enigmatico Luca, la tentazione verso Fizz, giovane inglese dal passato difficile, e l’amore mai spento per Ale, genio sregolato bello e impossibile, personificazione di una giovinezza eterna e dorata piena di possibilità aristocraticamente sprecate. Attorno a lei Daria, sua nipote, caustica e indecisa soprattutto verso il suo ragazzo Federico; Lucrezia e Gabriele, fintamente fidanzati e felici del figlio che sta per nascere; Sara, chiusa in sé quanto basta da essere incapace di vivere; Augusto, amico di Bebe – anzi ragazzo di Bebe; Morgana, sorella di Augusto, che si crede costantemente a credito di attenzione verso il mondo. E poi genitori e bambini, bagnanti e turisti, bulli e ragazze facili, gelaterie e negozi, spiagge e mare, strade e villette, piscine e canzoni per l’estate, e il tempo che cambia prospettiva al mutare di quella del gruppo.
Durante le due settimane Titi e i suoi amici scoprono, con ritmi ed esiti differenziati, che a pochi passi da loro scorre la vita, e che finora l’hanno solo distrattamente osservata, come appoggiati al davanzale di una finestra, ma non l’hanno mai davvero vissuta. Non ci sono ancora entrati dentro.
Agli estremi delle scelte dei ragazzi sta il dramma. Un incidente nella gravidanza di Lucrezia la separa da Gabriele e come in un domino dà inizio nei ragazzi a una serie di prese di coscienza che li conducono a scegliere, scompaginando gli equilibri delle esistenze loro e del gruppo. Ognuno compie qualche passo e scopre che crescere consiste nell’accettazione e nell’apertura verso se stessi e verso l’altro, non nella contrapposizione o nell’uso – che solo così ci si trova davvero.
Un altro capolinea sarà l’occasione per tutti di ritrovarsi anni dopo e di scoprire come le esperienze e le (non) scelte di quell’estate abbiano lasciato un segno nei percorsi individuali di crescita verso l’età adulta. L’esperienza del dolore, fisico e morale; della diversità vissuta, nascosta e coraggiosamente rivelata; dell’aprire gli occhi della mente e del cuore, fino alla caduta della maschera; dell’amore come dono di sé scoperto per contrasto con l’amore egoistico; della percezione del proprio limite e della propria immaturità: tutto conduce al confronto con la responsabilità che in ben pochi casi ha condotto ad un equilibrio con sé e il mondo, quanto piuttosto all’infelicità e al rimpianto per le occasioni perdute.
Alessandra Montrucchio tratteggia un quadro del passaggio all’età adulta malinconico e dolce-amaro, dove i personaggi esistono senza vivere veramente, anzi si lasciano vivere e finiscono per non imparare a essere attori vivi della loro vita. Una storia disincantata che esiste in tipi piuttosto ben delineati, le cui psicologie passano attraverso il prisma dello sguardo di Titi e si manifestano nei molteplici colori dell’iride. Soprattutto del rosso, che è anche il fil (appunto) rouge di ogni giornata, colore di oggetti o elementi in qualche modo legati a momenti rivelativi o di grande intensità vitale ed emotiva. Un linguaggio immediato e spigliato, la predominante forma dialogica e l’uso del discorso diretto – anche nei pensieri – rendono plastici ambienti, personaggi e situazioni. Le vicende si susseguono a velocità forse un po’ troppo serrata ma verosimile fino all’ultimo capitolo, dove il disincanto e la nostalgia prevalgono sulla vivacità e il tempo sembra dilatarsi fino ad annullare il ritmo.
Un romanzo per guardare in se stessi, per riflettere su quello che è stato il proprio salto verso l’età adulta. Su quanto si può aver perso nel tentativo di dare alla propria vita una data direzione, o su quanto si è lasciato per non aver fatto abbastanza tentativi, o per non averne fatti proprio. Ma anche per pensare a quanto si può aver guadagnato, e per rivivere quella spensieratezza dei tempi andati che fa male ricordare solo se non si sono risolti tutti i nodi con se stessi. Perché, altrimenti, fa sorridere di appagamento.

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