L'esperienza come ambiente

(foto di Gianluca Figus)

Oggi si parla molto di “esperienza”, di “fare esperienza”. Io sono appena tornato da un mese in California. Mi verrebbe da dire che ho vissuto una bella esperienza. Ed è così. Ma dicendo questo non voglio dire (soltanto) che mi sono divertito. Voglio dire altro. Il fatto è che, nonostante si parli molto di “esperienza”, questa dimensione dell’esistenza umana sembra in realtà decisamente in crisi.

Sembra che oggi non si senta alcun bisogno di fare esperienza: non soltanto essa è svalutata come fonte di autorità e saggezza, ma al suo posto sembra subentrare una condizione fantastica (o meglio l’illusione di una condizione fantastica), senza tempo e senza età, in cui possiamo in ogni momento scegliere ciò che ci pare e poi tornare indietro a piacimento. Io non posso tornare indietro da ciò che ho vissuto in California, se veramente ho fatto lì una “esperienza”.

Ogni cosa per molti oggi è a tempo determinato: dal lavoro agli affetti. Tutto si può (e anzi si deve) cambiare: una condizione in cui tutto ci appare controllabile e sostituibile. Fatta un’esperienza, oggi si crede che si possa tornare indietro sempre e comunque: essa si riduce a semplice “esperimento”. Nulla sembra lasciare tracce: la simulazione batte il reale per la sua più ampia potenzialità e il suo basso livello di rischio. Tuttavia ciò che il soggetto crede di padroneggiare viene neutralizzato, diventa qualcosa di inerte, di spento. E invece la California in me è “viva”.

E’ vero, la realtà è insicura: essa non garantisce il riparo dalle ferite e dai sentimenti negativi. E’ come conoscere una persona o, ancor di più, innamorarsene. Ma solamente se accettiamo il fatto che non si può padroneggiare la realtà, riusciamo ad afferrare qualcosa di questa realtà, della vita. E la vera esperienza non è mai quella che progettiamo di affrontare, secondo i nostri modi e i nostri tempi, ma è qualcosa che ci supera e ci sorprende. Qualcosa nella quale ci troviamo immersi, un vero e proprio “ambiente” di vita. L’esperienza però, bisogna aggiungere, non è l’accumulo di sensazioni provate legate all’oggetto o alla situazione o alla persona che abbiamo davanti: esse potrebbero essere finte, cioè indotte da simulazioni.

La vera esperienza invece implica l’intelligenza delle cose, la domanda sul senso di ciò che si vive, il giudizio. Questo vale anche per l’esperienza della letteratura e dell’espressione creativa.

La letteratura e l’espressione di cui si parla in BombaCarta dovrebbe essere qualcosa di irreversibile, capace di modificare realmente il modo in cui una persona vive la propria vita, la propria esperienza umana.

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  1. Katia ha detto:

    E’ impressionante come tu riesca, Antonio, ad esprimere sempre la cosa giusta nel modo più giusto. Grazie tante per questo editoriale, che ancora una volta ci suggerisce di riflettere sul modo di ognuno di noi di “stare” a questo mondo. E il segreto è davvero tutto qui.

  2. Paola ha detto:

    Ti ringrazio dell’editoriale, perche nuovamente mi fa riflettere sulla parola esperienza, oggi tanto depotenziata e banalizzata. A questo proposito vorrei fare una riflessione, partentendo da un confronto con la lingua tedesca. In tedesco il nostro termine “esperienza” viene tradotto essenzialmente con : “Erlebnis” ed “Erfahrung”, due parole che in alcune espressioni possono essere utilizzate come sinonimi, in altri casi assolutamente no. Infatti il primo viene usato per indicare una fatto
    vissuto come un “evento” (Erlebnis da “er-leben” = vivere), momentaneo, legato ad una determinata circostanza, che non comporta necessariamente un cambiamento nella persona che lo ha vissuto (ad es. “Volate con WinJet. Sara’ una bella esperienza”); il secondo, Erfahrung, dal verbo er-fahren = venire a sapere, implica, invece, sempre un cambiamento perché è implicita nella radice della parola l’idea di una conoscenza (ad es. “E’ un bravo meccanico. Ha una lunga esperienza”). Nella frase sulla tua vacanza in California -“ho vissuto una bella esperienza” – avresti potuto usare indistintamente i due termini, dando pero’ una connotazione diversa a quello che avevi vissuto : se avessi voluto dire che la tua vacanza era stata solo un “semplice esperimento sulla realtà” , un evento piacevole dal quale tornare indietro senza che nulla fosse rimasto “vivo in te” avresti dovuto usare Erlebnis; se invece avessi voluto dire che quella vacanza era stata una occasione per diventare più “esperto della realtà” , dunque di te stesso, dei tuoi amici, del tuo ambiente ect. , avresti dovuto usare Erfahrung.
    La nostra lingua italiana non ha tutte queste sfumature: esperienza deriva dal latino experior che significa sia “tentare”, “provare”, sia “venire a conoscenza”, dal quale poi anche esperimento ed esperto. Ma proprio sul prevalere di uno di questi due “atteggiamenti” si gioca la grande dicotomia della vita: possiamo, infatti, vivere ogni esperienza come un fatto che ci capita casualmente, senza che questo comporti un nostro cambiamento, una nostra crescita, una riflessione sempre più profonda sulla nostra esistenza, cioe’ possiamo vivere la vita come un “esperimento continuo”, passando da una sensazione ad un altra, ritornando indietro, andando avanti, sbagliando sempre sulle stesse cose perché non memori delle precedenti “esperienze” (basta pensare a quelle amorose, sempre piu’ numerose ma nello stesso tempo fallimentari) oppure possiamo decidere di vivere ogni cosa (una vacanza, un libro, un incontro di BombaCarta) come una provocazione, una sollecitazione continua ad andare a fondo di noi stessi e della realtà, scoprendone il vero senso : ma per far questo dobbiamo impegnarci a confrontare l'”occasione” che ci si presenta con le domande ultime del nostro cuore che sono il nostro desiderio di verità, di bellezza e di felicità, cioe’ dobbiamo imparare a giudicare ciò che è bene e ciò che è male per la nostra esistenza, “vagliando tutto ma trattenendo solo ciò che vale” come diceva San Paolo … solo allora la vita sarà tutta una Vera Esperienza …
    Paola

  3. Attila ha detto:

    Leggo e piango. Piango e leggo. Io so che tu comprendi, non sei come gli altri. Bombacarta è l’ Editoriale di un solo uomo. Non son ruffiano io, Ahimè, ed in fondo ci son anche tanti altri fiori di notevole intensità. Ma io son Attila e rispetto Cesare e devo dargli qualcosa. Ma cosa?
    Offrirò il mio dolore a chi lo tramuterà in Amore. Per oggi (sol per oggi sarò grigio, ma sfumato, quell’albero sfumato è così bello). ps. E’ bello quando il lettore ripete le parole dentro di sè, o in un laboratorio di scrittura agli altri. E’ bello quando cerca in ogni parola il senso o gli annessi e i connessi con le altre parole. E’ bello quando dal foglio prende vita un percorso dal prima al dopo. Io amo quando il foglio diventa alato ed evade oltre i vetri di una finestra verso il cielo blu.
    Blu è il colore del legame e dell’indescrivibile che provo se siamo io e il foglio. L’ esperienza sarebbe tanto bella, se vissuta come me la canti tu. Il resto è nebbia.
    Ma che importa, la luce è ad un passo.
    M.

  4. Umberto ha detto:

    Visito per la prima volta questo sito e sono rimasto colpito dall’intelligentissimo editoriale di Antonio. Mi accingo a fare questo commento buttando lì un interrogativo: forse questo atteggiamento nei confronti delle esperienze è dovuto alle nostre superficialità/scarsa sensibilità (sono la stessa cosa?)? Saremmo quindi portati a credere che ciò che conta sia in fondo accumulare eventi. Aver fatto certe esperienze potrebbe diventare solo simbolo di condizione
    sociale, di classe in una società che alla fine è tutta di uguali.
    Il mondo della simulazione cui accenni non aiuta certo a sviluppare la sensibilità o ad approfondire la superficialità, anzi alla lunga ne paghiamo i danni: la realtà forse non è poi così insicura come dici, bensì siamo noi che la ingigantiamo con le nostre debolezze..
    C’è infatti il paradosso che pur essendo meno sensibili, siamo anche più vulnerabili! Ma è un paradosso solo all’apparenza, e qui sta per me il punto cruciale perchè una simulazione non porta quasi mai a dispiaceri e sconfitte (e in ogni caso, brutalizzo riferendomi all’esperienza del videogioco, è sufficiente
    aver salvato per poter ritornare indietro… proprio come dici tu!); e quando questi spiacevoli eventi accadono in una vita reale non siamo in grado di farvi fronte.
    Chiudo il commento manifestando la mia entusiastica ammirazione, per la grande verità che esprimi in questa riga:
    “La vera esperienza invece implica l’intelligenza delle cose, la domanda sul senso di ciò che si vive, il giudizio”. Giù il cappello :)
    Forse che conti più la qualità dell’esperienza che la quantità?

    Saluti,
    Umberto

  5. monica ha detto:

    Indubbiamente la qualità dell’esperienza conta più della quantità ma per far sì che erlebnis (esperienza irriflessa) diventi erfahrung (esperienza elaborata) essa necessita di un’ attenzione, di tempo e che io abbia gli strumenti giusti per poterla elaborare!
    Ma in questo mondo che punta alla velocità, a fare tante cose in poco tempo ne rimane un pò per occuparci di noi e delle nostre esperienze!!?!? Per crescere grazie ad esse?

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