L’ambiente ovvero l’«abito di essere»

Quest’anno BombaCarta si occuperà di ambiente.

Che cosa avete capito? Probabilmente che BC si occuperà di questioni ecologiche. E invece no. O meglio, magari anche di quelle, ma la nostra intenzione è di occuparci degli ambienti in cui l’uomo (cioè ciascuno di noi) vive. L’uomo, proprio perché è uomo, vive sempre in un “ambiente”, cioè in un contesto col quale è in relazione esplicita o implicita. Così ogni essere vivente, forse anche ogni cosa.

Facciamo un esempio: il mare. Il mare è un contesto ricco di elementi (pesci, alghe, rocce, acqua,..) che diventa ambiente per i pesci o per le alghe, etc… Dunque un luogo diventa ambiente se è considerato nel suo essere-per, in relazione a qualcuno o qualcosa. Altrimenti quel luogo resta anonimo, non significativo, irrelato, chiuso nel suo anonimato.

Cosa dedurre da questo esempio? Che un luogo qualsiasi (una casa, una foresta, una strada, una piazza,…) diventa ambiente nel momento in cui si pone in relazione ad altro da sé o con una parte di sé presa singolarmente. Parlare di ambiente allora significa parlare di scambi, di relazioni, di significati tra noi, gli altri, le cose. La differenza, rispetto alle relazioni interpersonali è che l’ambiente è un sistema di relazioni che prende senso perché si riferisce a me e che contribuisce a darmi senso.

Per l’uomo l’ambiente può essere “casa”, “prigione”, luogo a cui adeguarsi, oppure da plasmare oppure addirittura da conquistare. la nostra relazione con l’ambiente è espressione del nostro modo di essere nel mondo. La tensione a una armonia tra noi e il nostro ambiente caratterizza ogni tensione umana ad “abitare”. L’ambiente abitato diventa “habitus” (habit, in inglese), abito ricco delle connotazioni di “vestito” e “abitudine”.

Cosa accomuna il vestito e l’abitudine? Innanzitutto il fatto di starci addosso, di essere adeguato a noi e modellato su di noi. E il primo abito/abitudine è quello radicale di essere. “The habit of being” è il titolo della raccolta delle lettere della scrittrice Flannery O’Connor. Letteralmente significa “L’abitudine di essere”. Qui il termine non significa meccanica e noiosa abitudine di essere a questo mondo, ma qualità essenziale, disposizione interiore a essere, a vivere. Questo è il vero e fondamentale sentirsi a casa. Allora la stessa esistenza diventa un ambiente di vita, una casa…

Quest’anno dunque, occupandoci di “ambienti” cercheremo di riflettere su ciò che ci sta addosso, che ci modella e che noi contribuiamo a modellare. Innanzitutto il fatto stesso di essere.

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  1. Tonino Pintacuda ha detto:

    Ottimo esordio, con un’abbondanza di heideggerismi che non guastano affatto.

  2. Maura Gancitano ha detto:

    Gli scritti autobiografici di Virginia Woolf, invece, si chiamano “Momenti di essere” (“Moments of being”).
    Comunque, Antonio, le tue riflessioni mi hanno dato un’idea, che ovviamente riguarda lo “spazio pubblico”. Vedremo cosa ne verrà fuori! :-)

  3. Anonimo ha detto:

    “L’arte è l’habitus dell’artista; e come tutte le abitudini deve mettere radici profonde in tutta la personalità, e va coltivata col tempo, mediante l’esperienza. […] Pur trattandosi di una disciplina, non credo si riduca solo a questo; credo sia un modo di guardare al creato e di usare i sensi per cogliere nelle cose quanto più significato possibile”.

    Flannery O’Connor, Nel territorio del diavolo, (Ed. Minimum fax)

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