Pino Roveredo. Un pugno in faccia ai "maudit"

pino roveredoLa voce di Roveredo è calma e ferma, dice concisamente quanto gli viene chiesto, poi tace, in attesa della domanda successiva. Non interrompe, non chiede chiarificazioni. Dice spesso «ripeto», come temesse di aver usato troppe parole. Ma non è né freddo né austero: è il primo intervistato che, dopo 12 minuti che ci conosciamo, mi saluta con «Un abbraccio». Le sue parole hanno peso, ecco tutto. Così anche Caracreatura (Bompiani, 2007, pagg. 246, euro 15,50): non è un romanzo, è un parto. C’è dentro amore tangibile come placenta, lancinante come un grido di doglie. C’è molto dolore, ma è dolore prezioso, che ha senso, e serve. Caracreatura è un romanzo dedicato a «tutte le donne madonne, che con le loro lacrime, muscoli, sospiri, sogni, preghiere, sputi, sangue, angosce, passione, sudore, tempo, cuore, amore, amore, amore, amore e ancora amore mi hanno insegnato a essere madre». Caracreatura racconta di una madre che ama realmente il proprio figlio, lo ama così tanto che, pur di strapparlo dalla droga, affronta per anni il suo odio e la sua ingratitudine. Una maternità che non è fatta di condiscendenza o gratificazioni. «Questo libro – chiarisce Roveredo – non è un trattato sulla tossicodipendenza, ma una grande storia d’amore in cui bisogna arrivare per forza all’ultima pagina per capirne il senso e la forza».
Caro Roveredo, sulla quarta di copertina c’è una litania di nomi femminili: di chi sono?
«Il primo nome è quello di mia madre, poi quello della mia compagna – mia moglie da trent’anni – e poi ci sono tutti quei sostegni femminili che con i loro muscoli mi hanno aiutato a salvarmi la vita».
Tutte loro, dice nella dedica, le hanno «insegnato a essere madre».
«Sì, nel senso che io per vent’anni, avendo sbagliato mira e avendo fatto una vita molto pesante, per imparare a diventare padre ho dovuto affidarmi alla sensibilità e al cuore e alla forza delle donne. Io oggi mi ritengo un discreto padre, però sicuramente innamorato grazie a questi insegnamenti».
La maternità che racconta non è carineria sentimentalista, ma partecipazione viscerale fino all’ingiuria, all’unghiata in faccia, allo sputo. È un amore ambiguo, soffocante e salvifico.
«Io ho avuto una grande fortuna nella vita, quella d’imparare prima il silenzio che il rumore, essendo nato da due genitori sordomuti, e questo mi ha permesso nel mio lavoro di operatore da strada di avere un’ottima capacità di ascolto. Queste storie di donne io le ho ascoltate, le ho mangiate e bevute, ho sofferto per quei dolori, ho gioito per quei dolori. Ecco, tutti questi tratti femminili che racconto sono storie che mi sono entrate nella pelle».
C’è, nei suoi libri, una concretezza che spazza via l’idealizzazione del ribellismo autoassolutorio che punteggia tanta letteratura. Non c’è alcun poetico eroismo nella disperazione, nell’alcolismo, nella droga…
«In questi percorsi bisogna essere molto concreti, non si ha bisogno di grandi filosofie. Una cosa su cui batto è l’assoluto valore della vita, sottolineando che nel suo corso la cultura del lamento è una retromarcia se non un freno a mano. Per questo non frequento lo stile del piangersi addosso, ma provo a fare semplicemente il cronista delle storie che incontro o che ho vissuto io stesso».
Guerra al vittimismo, dunque. Nel suo lavoro di operatore come supera questa barriera?
«Più che una barriera il vittimismo, in questa nostra società, è un muro alto, una montagna invalicabile. Ma spesso va bene così. Un filosofo ha detto: “Se domani per miracolo sparisse il disagio, sarebbe un dramma mondiale”… sarà per questo che tutto viene coltivato e mantenuto? Io ai ragazzi che incontro, ma anche nelle storie che scrivo, dico sempre che il vittimismo non paga, mentre per uscire dal problema bisogna pagare un biglietto – il biglietto della forza e del coraggio, il biglietto del muscolo – che è il biglietto che mi hanno insegnato queste donne che si aggrappano alla speranza con l’ultimo dente, e se non hanno il dente anche con le gengive, perché se gli togli la speranza gli uccidi la vita».
Nella sua scrittura predilige un monologo su cui s’innestano altre voci. Come mai?
«Ho un modo strano – strano non per me, per me è assolutamente normale – di scrivere. Io parlo scrivendo. A casa mia ma anche chi mi abita vicino, quando alle due di notte o alle tre di mattino sentono parlare, sanno ormai da anni che è Pino che sta scrivendo. Mi parlo e se il dialogo non mi entra con naturalezza nell’ascolto non lo scrivo. Ho bisogno di musicalità. Mi racconto e se quel racconto mi piace lo aggiusto e lo metto a posto finché non mi entra con una chiarezza nell’ascolto; allora lo riporto su carta. È un continuo dialogo».
In Caracreatura si avverte molto: e io che pensavo a una componente teatrale!
«Ho passato le notti a riempirmi la stanza con queste figure di donna, anche per avere l’opportunità di rincontrarle dopo tanto, e ci sono state anche delle conversazioni, dei diverbi, delle discussioni, ci sono stati anche dei pianti, però tutto questo alla fine è andato su carta».
La lingua, con le sue rincorse e riprese, i suoi giochi di parole – quasi filastrocche ingenue che ti pugnalano all’improvviso – fa pensare a Testori. Ha dei riferimenti letterari?
«No, anzi, ricordo che nelle prime interviste volevano a tutti i costi dire che mi fossi ispirato a Baudelaire o London, e io dissi che no, mi dispiaceva, ma m’ispiravo a De Andrè, Guccini, Vecchioni. No, io non seguo grandi scuole, la mia scuola è stata la strada e il carcere, dove ho scritto i miei primi libri. Secondo me è assolutamente importante la chiarezza della comunicazione, perché se non si è chiari dopo cinque minuti si perde l’ascolto. E allora questa voglia anche di vocalità, questo ripetere le frasi, è un modo per essere più chiari ma anche più attenti. Capriole in salita e Mandami a dire sono stati adottati da più di cento scuole in Italia, e io sto continuando a rimbalzare con gioia da Messina a Trento, dove i ragazzi accolgono questa scrittura in maniera straordinaria: un po’ perché è di facile lettura, un po’ perché si parla di percorsi sociali. Vado nelle scuole e dico: “Io non sono qua per spiegare, io sono qua per raccontare”, che è molto diverso».
I suoi genitori, ha raccontato in Parlare con le mani ascoltare con gli occhi, erano entrambi sordomuti. Come ha influito, questo, sulla sua scrittura?
«In modo fondamentale. Ho imparato a parlare prima con la lingua dei gesti, tant’è che le voci che entravano in casa mi sembravano un fatto superfluo o di quasi disturbo. La lingua dei gesti vuol dire innanzi tutto guardarsi negli occhi, vuol dire non interrompersi, vuol dire soprattutto mettere una grande fantasia nel movimento delle mani. Da quando poi se ne sono andati i miei genitori credo che quei gesti mi siano rimasti nelle mani come un assoluto bisogno di sfogarli, di raccontare».
Cosa significa fare l’operatore?
«Io, con meno tempo di prima, faccio l’operatore di strada, che vuol dire non avere un ambulatorio o un ufficio, ma andare dove i ragazzi inciampano, dove vivono o sopravvivono. Non andiamo con grandi medicine o soluzioni o miracoli, andiamo per ascoltarli. Però questa è una forma egoista: io mi salvo salvando, mi occupo degli altri per ricordarmi chi sono stato. E questo è un ottimo modo per mantenerci in salute».

Intervista comparsa su Letture n. 640 (ottobre 2007)

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