Letteratura israeliana, spazio, tempo: a colloquio con Anna Lissa

Anna Lissa, docente di Lingua e letteratura ebraica all’Università di Trieste, è autrice di un bellissimo libro sulla letteratura israeliana: “Quando lo spazio si fa tempo. Rappresentazioni di Gerusalemme nella letteratura israeliana. David Shahar e Abraham B. Yehoshua” (Il nuovo Melangolo). La professoressa Lissa ha risposto ad alcune domande.

Sergio Quinzio ha scritto che “l’originalità ebraica si mostra nell’esperienza del tempo storico, tempo a senso unico e senza ritorni”. E Abraham J. Heschel che “il Dio d’Israele era il dio degli eventi”, e l’evento è per definizione ciò che accade nella storia. Eppure la sua ricerca mostra come tempo mitico e tempo storico siano fatalmente intrecciati e il tempo storico sia stretto tra la creazione e l’eschaton. Quanto è importante questo intreccio nelle opere degli autori da lei studiati?

Naturalmente, mi sono affacciata a questo tipo di ricerche da un tempo relativamente ristretto. Perciò posso dirle quelle che sono le mie impressioni, su cui penso e spero di continuare a lavorare: la questione del tempo, della sua percezione e rappresentazione, in letteratura mi sembra centrale. Inoltre, capire quali elementi del mito siano passati nei testi letterari contemporanei, può dire molto riguardo alle nostre origini e alla nostra storia. Ricordare, ad esempio, che il motivo della ricerca dell’immortalità è presente nella mitologia babilonese, ci dice che le nostre origini non sono solo a Gerusalemme, ad Atene e a Roma, ma anche a Babilonia. Questo vuol dire che forse anche il concetto di alterità è da ripensare.Venendo alla questione del tempo nell’ebraismo è vero che l’ebraismo rabbinico pensa al tempo come ad un qualcosa che è stato creato da un Dio assolutamente trascendente addirittura il quarto giorno della creazione (Genesi 1, 14-19). Inoltre, i maestri dell’ebraismo hanno ribadito che il tempo dell’inizio e quello della fine (eschaton) restano comunque qualcosa che non è pienamente conoscibile. La verità è che come ha fatto notare Gershom Scholem fin dall’epoca del secondo Tempio la storia della creazione e la visione del carro di Ezechiele (Ezechiele 1) erano considerati passi del testo biblico che era consigliabile studiare in un circolo esoterico e con allievi che avessero compiuto i trent’anni. L’atteggiamento di sospetto e prudenza nei confronti di questi argomenti era per lo più dovuto al fatto che si temeva che coloro che si avventuravano nell’indagine di tali segreti, potessero cadere nella tentazione del politeismo e dell’antropomorfismo. Le dottrine kabbalistiche, che indagano proprio i misteri della visione del carro di Ezechiele, oppure il processo della creazione del mondo descritto ad esempio da Yitshaq Luria di Safed (XVI secolo), pur essendo rimaste all’interno della normativa ebraica (come ha evidenziato Gershom Scholem), sono state guardate con diffidenza e considerate potenzialmente pericolose se lasciate in ‘mani inesperte’. David Shahar e Abraham B. Yehoshua si confrontano col problematico intreccio tra tempo mitico e tempo storico, in particolare attraverso un incessante e talvolta non pacifico dialogo con le fonti della tradizione ebraica. In questo, essi seguono le orme del grande maestro che fu Shmuel Yosef Agnon. Talvolta, come nel caso di David Shahar, il tempo mitico del principio è legato ad una dimensione edenica, quella del pacifico mondo infantile, ormai perduta, e ad una realtà e ad un tempo storico ormai prosaici e, sarei tentata di dire, degradati dalla materialità quotidiana. Abraham B. Yehoshua mostra come il tempo della fine, trasferito in un contesto quotidiano e ideologizzato possa essere potenzialmente pericoloso e distruttivo. Tuttavia, mi sembra, questo loro dialogo continuo con la temporalità descritta dalle fonti ebraiche, li colloca a pieno non solo, come è ovvio, nel contesto della letteratura israeliana, ma anche in quello più generale della cultura e del pensiero ebraici, smontando l’accusa di autoreferenzialità, così spesso rivolta alla letteratura israeliana.

Lei scrive che Il signor mani di Yehoshua rappresenta una sorta di riconciliazione dello scrittore con Gerusalemme: alla città i personaggi del romanzo dedicano brani fortemente lirici (“E’ una luce, sì, padre, una luce dentro cui lottano due luci diverse, quella giallastra che fluttua libera dal deserto e quella celeste che nasce dal mare, si arrampica lentamente su per le pendici dei monti e raccoglie il riverbero degli ulivi e delle rocce, finché si assorbono l’una nell’altra a Gerusalemme, si dominano e si conquistano a vicenda, e verso sera si fondono in una tonalità di vino chiaro che ramo dopo ramo scende giù dagli alberi e diventa un rossore ramato….”). Se apriamo le pagine di Dopo l’abbandono di Zeruya Shalev, scrittrice nata nel 1959, troviamo questa descrizione dura della città: “Quanto era sperduta Gerusalemme, e la strada che conduce alla città conserverà in eterno questa natura isolata, chissà se tutti coloro che giurano nel suo nome si rendono conto di quanto modeste siano le sue proporzioni, a dispetto delle sue abitudini: una misera cittadina di mercato presa da vane visioni, relegata dietro mura e porte, circondata da squallidi villaggi di pastori nomadi, scoscese pietraie, dedita a coltivare in segreto epopee eroiche e divine”. Questa disillusione è comune alle ultime generazioni di autori israeliani?

Come ha giustamente osservato il celebre studioso di letteratura ebraica e israeliana Dan Miron, il tema di Gerusalemme si caratterizza per una rappresentazione basata su una contrapposizione binaria: idealizzazione o demistificazione e disillusione. In generale è possibile dire che l’attitudine degli scrittori israeliani, a partire dalla generazione di Yosef Hayyim Brenner e di Shmuel Yosef Agnon, nei confronti di Gerusalemme è influenzata per lo più dall’ideologia sionista socialista. I padri fondatori dello Stato di Israele non consideravano Gerusalemme fondamentale ai fini del rinnovamento dell’esistenza ebraica nella Palestina Ottomana e Mandataria. Dal loro punto di vista, era nei kibbutzim che si ricostruiva e si forgiava l’ebreo nuovo. La fondazione di Tel Aviv (1909), il cui nome non a caso significa “collina di primavera” è la concretizzazione e la realizzazione in forma urbana dell’utopia sionista: una città sionista, ebraica e moderna, con case, viali, teatri e caffé che erano il centro della vita culturale ebraica in rinascita, e lo sono tuttora. È chiaro che l’impronta data all’identità del nuovo ebreo è vistosamente secolare. Per questo motivo, ad esempio, Shmuel Yosef Agnon, nel suo romanzo Ieri e l’altro ieri (1945) contrappone le due città: Tel Aviv, luogo della rinnovata esistenza ebraica, e Gerusalemme, immersa in una dimensione tradizionale e religiosa, che i pionieri si erano lasciati alle spalle al momento della loro ‘aliyah (lett. salita, immigrazione) verso la Terra di Israele.Una conferma della relativa importanza della città, in questo contesto, è data anche dal fatto che in seguito alla guerra di Indipendenza (1948) David Ben Gurion trovò dolorosa, ma sopportabile, la perdita della Città Vecchia di Gerusalemme, col quartiere ebraico, le sinagoghe e il Muro del Pianto, che fino al 1967 è stata sotto controllo giordano. La disillusione e demistificazione di Yehoshua, come quella di molti scrittori e scrittrici della sua generazione o un po’ più giovani, nei confronti di Gerusalemme è fondamentalmente legata all’inquietudine di fronte ad una dimensione religiosa, che tenta continuamente di tradursi in scelte ideologiche potenzialmente pericolose e aggressive. Questa è una tendenza che si è andata rinforzando proprio in seguito alla riunificazione della città, dopo la guerra dei sei giorni (1967).Personalmente, ho vissuto alcuni mesi a Gerusalemme e vi ho ritrovato gli incantevoli paesaggi descritti da David Shahar e anche una dimensione religiosa che si affianca a quella secolare, con balzi di tanto in tanto aggressivi. Tuttavia, credo che quello che non ci farebbe male ricordare, qui in Europa, è che oltre a tutto questo esiste, perfino a Gerusalemme, una vita quotidiana, fatta di gente che ogni giorno si alza e va a lavorare, a fare la spesa e così via, proprio come in tutte le città del mondo.

In Prove d’amore di Savyon Liebrecht, la protagonista vive il precipitare delle condizioni di salute di sua madre, il disfacimento della memoria della donna, una sopravvissuta dell’Olocausto. (“Hamutal guardò la madre con tristezza, chiedendosi d’un tratto cosa si agitasse dietro la fronte corrugata per lo sforzo, dove fosse svanita la sua cultura…Le cellule del ricordo non avevano retto? Erano state sradicate e vagavano per le pareti del cervello come milioni di tessere di un puzzle che non poteva ricomporsi?”). In un racconto della stessa autrice, intitolato Hiroschima, una giovane donna israeliana finisce per essere tiranneggiata da una superstite della bomba atomica giapponese. In entrambi casi, sembra vi sia una sorta di rivolta contro la memoria o la sacralizzazione della memoria seguita allo sterminio.

Leggendo il romanzo di Savyon Liebrecht, e anche quelli di molti altri autori che hanno scritto sulla Shoah come Aharon Appelfeld, o anche, seppur in maniera molto più indiretta Yitzhaq Awerbuch Orpaz, ho avuto la sensazione che il loro vero problema non sia tanto la semplice preservazione della memoria. Essi hanno una priorità ben più problematica: il tentativo di ripristinare una temporalità che si è spezzata. Mi spiego meglio: il loro problema centrale è il controverso rapporto di continuità/discontinuità tra l’esistenza ebraica nella diaspora e in Terra di Israele, attualmente Stato di Israele. I pionieri che immigravano nella Palestina Ottomana e Mandataria compivano un gesto rivoluzionario, lasciandosi alle spalle la vita nella diaspora che, secondo l’interpretazione sionista, era stata una vita da schiavi privi di ogni dignità, per ‘costruire il paese e ricostruire se stessi’, come dicevano gli slogan dell’epoca. L’ideologia sionista dava una lettura negativa della storia del popolo ebraico in diaspora. Il nuovo ebreo era il sabra, nato in Terra di Israele, forte, abbronzato dal lavoro nei campi del kibbutz, nobile d’animo eppure colto, pronto a levarsi coraggiosamente in difesa del suo paese. Si trattava del modello identitario ideale elaborato dal sionismo socialista, descritto e lodato dagli autori della generazione letteraria precedente quella di Abraham B. Yehoshua, Amos Oz e dei loro colleghi. Il sabra, secondo le parole dello scrittore Moshe Shamir, ‘è nato dal mare’, il che vuol dire che non ha passato ma solo un presente e un futuro nella Terra di Israele. Attualmente, questa visione è stata ampiamente rivista e ridiscussa e il vero problema degli scrittori israeliani della generazione di Yehoshua, Oz e Appelfeld è innanzitutto ricostituire la temporalità e la continuità storica che sono state spezzate. Secondo le parole di Appelfeld, ‘la relazione interna dell’individuo con il suo patrimonio culturale era stata minata’. Mi sembra che questa sia la prospettiva nella quale bisognerebbe inserire la questione della memoria della Shoah: non un vuoto cerimoniale, una mera sacralizzazione della memoria, ma una continua disamina dei rapporti di continuità e di discontinuità tra l’esperienza ebraica in diaspora e in Israele. Per usare un’immagine tratta proprio dal romanzo di Savyon Liebrecht, bisognerebbe rintracciare un rapporto di continuità tra le ciliegie e i fichi d’India, metafore le une della diaspora e gli altri della Terra di Israele.

Amos Oz ha raccontato la storia della sua famiglia in Una storia di amore e tenebra, saghe familiari tornano nei libri di Meir Shalev o di Shahar. Questa passione per la genealogia può essere considerata una cifra della letteratura israeliana contemporanea? A quali bisogni risponde?

David Shahar ha fatto della saga familiare e della memoria il motivo e il motore della sua scrittura fin dai suoi primi racconti. Questa sua scelta, che prescinde da altre considerazioni, ne fa un caso a parte nel quadro della letteratura israeliana contemporanea. Altri autori come Meir Shalev, Abraham B. Yehoshua, Shulamit Hareven a ultimamente anche Amos Oz hanno descritto l’esperienza nazionale servendosi della metafora familiare. Il fenomeno ha avuto inizio a partire dai primi anni ’70 (La città dai molti giorni di Shulamit Hareven è del 1972), affermandosi definitivamente da dopo la guerra dello Yom Kippur (ottore 1973). Questa guerra, secondo la storica israeliana Anita Shapira, ha determinato il crollo del mito del sabra, di cui abbiamo appena parlato, e, più in generale, la crisi dell’ideologia sionista socialista. I dirigenti della coalizione sionista socialista che avevano guidato lo Stato di Israele fin dalla sua nascita (1948), si lasciarono inizialmente cogliere di sorpresa dall’attacco della coalizione araba. Questo fatto non fu loro perdonato dagli elettori, che nel 1977, per la prima volta nella storia di Israele, mandarono al governo una coalizione di destra. In seguito a questa svolta rivoluzionaria, il passato è riaffiorato come un freudiano ritorno del rimosso. La rivolta contro il modello identitario del sabra traspare già da questo fatto: i protagonisti dei racconti e dei romanzi non sono ‘nati dal mare’ ma hanno un passato con cui fare i conti. Alcuni autori come Yitzhaq Orpaz hanno immediatamente privilegiato questo aspetto, dando alla loro scrittura una cifra autobiografica (La via Tomojenna e La trilogia di Tel Aviv), attraverso la quale hanno riesaminato il loro passato familiare e collettivo a partire dalle origini nella diaspora, per poter indagare a fondo le cause della crisi dell’ideologia e anche, se così si può dire, dell’utopia di cui il sionismo socialista si era fatto portatore. Meir Shalev in La montagna blu (titolo originale Romanzo russo) ha descritto la decomposizione fisica e spirituale dei vecchi ideali, rintracciandone gli inizi fin dai tempi dell’arrivo dei pionieri in Terra di Israele, ed esprimendola metaforicamente attraverso la descrizione del campo del kibbutz trasformato in un cimitero per i pionieri.Altri autori, come Abraham B. Yehoshua con L’amante e con Un divorzio tardivo hanno innanzitutto offerto un lucido ritratto della crisi in fieri. Successivamente, anche Yehoshua si è confrontato con le radici storiche della crisi e ha scritto una saga familiare Il signor Mani, in cui ogni capitolo è ambientato ad un crocevia storico fondamentale per il popolo ebraico. In realtà, Il signor Mani è anche un romanzo autobiografico, che ruota intorno al rapporto con la figura paterna dei protagonisti ma anche dello stesso scrittore che ha confidato di aver concepito l’idea del romanzo il giorno del funerale di suo padre, alla cui memoria esso è dedicato. La dimensione intima e autobiografica è più evidente in Una storia d’amore e tenebre che ruota intorno alla figura della madre dell’autore a ai motivi del suo drammatico suicidio. Questo romanzo è però anche e forse soprattutto il racconto di un’autobiografia nazionale. Tuttavia, mi sembra che la dimensione ideologica sia qui meno marcata rispetto a Il signor Mani. In questa autobiografia nazionale molti israeliani si sono riconosciuti, e il suo fine mi sembra sia quello di preservare questa autobiografia e questa memoria nazionale, mettendole per iscritto prima che esse vadano perdute.

David Grossman fa dire a uno dei personaggi de Il sorriso dell’ agnello: “La ricerca della giustizia assoluta è un modo per nascondere l’impotenza ad agire, la paura e l’indecisione”. E Alec de La scatola nera di Amos Oz, indagando la “mente” del fanatico, scrive: “affondare completamente l’Io dentro il Noi. Ridursi a una cellula cieca dentro un organismo smisurato, atemporale, onnipotente e sublime. Fondersi fino all’oblio di sé, sino all’annichilimento, nella nazione, nel movimento, nella razza”. È un rivolta nei confronti dell’assoluto?

La tensione e l’aspirazione verso l’assoluto sono un importante motore delle azioni umane. A patto però che l’assoluto resti separato e nascosto nella sua trascendenza. Se l’assoluto, che, di per sé, è al di là di esso, irrompe nel tempo storico, lo fa esplodere, frantumandolo, e rischia di arrestarlo. La pretesa di realizzare in un tempo determinato la giustizia assoluta nasconde la paura, l’impotenza ad agire e la mancanza di decisione che ne derivano. Di più, poiché l’assoluto è l’universale, se esso effettivamente si incarnasse in qualche cosa (stato, classe, nazione, razza etc.), automaticamente disintegrerebbe, liquidandolo, l’individuale. Perciò, la forza dell’assoluto agisce come fattore di individualizzazione fino a quando resta un termine irraggiungibile cui tendere. Questa forza, tuttavia, agisce al contrario quando l’assoluto viene calato nel tempo, perché allora esso disindividualizza e diventa potenzialmente pericoloso. Di questo, probabilmente, erano coscienti i maestri dell’ebraismo dopo la rivolta che portò alla distruzione del Tempio di Gerusalemme, quando affermarono con decisione che la venuta del Messia sarebbe stata affrettata solo attraverso la preghiera e non attraverso l’azione. Credo che questo sia il motivo per cui autori come Abraham B. Yehoshua guardano con sospetto ad un certa dimensione religiosa ebraica, e ne evidenziano il potenziale pericolo proprio nel fatto che essa tenti di tradursi in azione politica.

Un’ultima domanda. Come si è avvicinata alla letteratura israeliana? Quale libro le è stato “fatale”?

Il mio primo incontro con l’ebraismo è legato, come credo sia successo a molti bambini, alla lettura del diario di Anna Frank alle scuole elementari. Tuttavia, il mio interesse ha incominciato a maturare e a rivolgersi alla letteratura quando, curiosando nella biblioteca di mio padre, ‘sono inciampata’ in alcuni romanzi di Isaac B. Singer e ho pensato che se avessi davvero voluto conoscere la cultura ebraica il primo strumento di cui avrei avuto bisogno era la lingua. Infine, il vero ‘incontro fatale’ è avvenuto durante il primo anno di università, quando, durante il corso di Lingua e Letteratura ebraica, la mia maestra Prof.ssa Gabriella Moscati Steindler mi assegnò una ‘tesina’ su Il signor Mani. Posso dire che da allora il mio interesse per la letteratura israeliana non è mai venuto meno.

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  1. Oblomov69 ha detto:

    Articolo molto interessante.
    A proposito della diffidenza di alcuni scrittori ebraici nei confronti di movimenti messianici e ideologie che cercano di calare l’Assoluto nel contigente ricorderi le prime parole dell’ l’epigrafe-monito di Satana a Goray, libro di IsaacBashevis Singer che racconta la storia di un villaggio ebraico polaccco ai tempi dello pseudo messia Sabbatai Zevi:
    CHE NESSUNO TENTI DI COSTRINGERE
    IL SIGNORE A PORRE
    TERMINE ALLE NOSTRE SOFFERENZE NEL MONDO. IL
    MESSIA VERRA NEL MOMENTO PRESCELTO DA
    DIO;……………………..

  2. ange.. ha detto:

    chi mi da la relazione del libro “una storia di amore e di tenebra” scritto da Amos Oz

  3. Silvia Geraci ha detto:

    articolo stupendo, domande e risposte dense e interessantissime, tanto più che ho terminato ieri Una storia di amore e tenebra e sono dentro un capitolo di tesi sull’escatologia. Il precedente commentatore ha poi trovato la relazione che cercava mesi fa? comunque,mi cercherò il libro di Lissa. Grazie Silvia

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