Il Fuoco amico di Abraham Yehoshua

Due affiatati coniugi israeliani, Yaari e Daniela, sono costretti ad una separazione forzata. Daniela vola in Africa per andare a trovare il cognato Yirmiyahu che ha scelto il remoto continente come riparo dopo la morte della moglie. E’ un uomo segnato dalla tragedia: prima ancora della scomparsa della moglie, suo figlio è stato ucciso dal “fuoco amico” dei suoi commilitoni durante un’operazione militare in Cisgiordania. Nello spazio scavato dalla separazione provvisoria, Yehoshua muove le storie parallele dei due coniugi, un “duetto” nutrito di segrete corrispondenze: ciascun coniuge è alle prese con un diverso enigma e ogni enigma affonda nell’altro il suo pungolo. Ma che forma prende il mistero? I venti che – come spiriti indomiti – agitano la notte degli inquilini di un grattacielo di cui Yaari ha progettato gli ascensori, in Israele. La dinamica della morte del giovane nipote per “fuoco amico” in Africa.

Spirito e fuoco sono dunque i due elementi che scorrono sotteranei nelle storie parallele di Yaari e Daniela. Perchè i venti che gemono negli ascensori sono accostati da Yehoshua agli spiriti che accompagnano le vicende dei personaggi africani. Nell’antropologia ebraica il passo tra vento, soffio e spirito è breve. La ruah è vita, è il soffio che infonde la vita ma è anche il respiro, l’accordo dell’esistenza. Perchè Yehoshua insiste tanto sul vento? Il vento non è catturabile, né può essere indirizzato. Non si sa da dove né quando arrivi. La sua presenza è evanescente, e tuttavia reale. Il vento non c’è, soffia. Non ha la forza della permanenza, ma provoca lo stupore di ciò che è improvviso, l’imprevedibilità di ciò che è transitorio. Il vento – figura dello spirito – rappresenta l’irriducibilità della vita alla sola dimensione corporea, alla successione ordinata e controllata degli eventi, alla pretesa del controllo. Per usare un’espressione di Salvatore Natoli, “lo spirito è evento/avvento”.

E il fuoco? Il fuoco ha una natura duale. Il fuoco distrugge e incenerisce. Ma è anche benefico: disinfetta, purifica, scalda, protegge l’esistenza.

Partita per riaccendere il dolore per la scomparsa della sorella, Daniela urta contro la reticenza scontrosa del cognato, deciso a tranciare ogni rapporto con il passato. Per l’uomo l’Africa è soprattutto un vuoto: niente sinagoghe, né tracce o memorie del passato. “Qui non ci sono antiche sepolcri né pavimenti di sinagoghe in rovina; non ci sono musei con i resti di una parochet bruciata né testimonianze di pogrom o dell’Olocausto; non c’è diaspora né dispersione; non ci sono reminescenze di un’epoca d’oro né c’è mai stata una comunità ebraica che abbia contribuito ad arricchire la cultura mondiale”.

Yirmiyahu non vuole liberarsi solo del suo passato, ma affrancarsi dalla storia, dalla lingua, dall’identità israeliana. Il fuoco del commilitone che ha ucciso il giovane soldato si è trasformato nel braciere nel quale l’uomo dissolve tutto ciò che arriva da Israele, giornali e candele rituali, il profano e il sacro, la storia e il mito, il ricordo e il futuro.

Con una scrittura piana, molto lontana da quella “faulkneriana” dei romanzi della maturità – tutta tensione eruzioni torsioni -, Yehoshua esplora in “Fuoco amico” un intero campo etico. Di chi e di che cosa abbiamo responsabilità? Dove arriva, cosa copre e dove si ferma la responsabilità che investe ciascuno? Esiste responsabilità senza ricordo? E cosa accade invece quando la memoria diventa un peso intollerabile che cancella la possibilità stessa di assumersi la responsabilità di qualcosa? E ancora: qual è il confine tra responsabilità individuale e collettiva? Quando la prima sostiene la seconda, quando ne è invece schiacciata? E infine: come può sopravvivere la responsabilità – di un singolo come di un intero popolo – sotto la confisca di un’occupazione?

Dinanzi a questo dilemma morale, si compie la danza dei personaggi di “Fuoco amico”. Yaari si sente responsabile. Della moglie partita e lontana, del figlio disertore, dei nipoti abbandonati, del suo lavoro, e dei venti che infuriano nelle viscere segrete del grattacielo. La sua responsabilità è in qualche modo rivolta all’esterno, a ciò che lo circonda. Daniela avverte invece un’altra chiamata: si sente responsabile del ricordo della sorella morta, tesse un dialogo accorto con il cognato nel tentativo – disperato – di recuperalo alla vita, e alla sua pienezza. Nello svelamento del mistero che avvolge la morte del giovane soldato, emerge un fragile “gesto umano” che fa esplodere in tutta la sua drammaticità il nodo della responsabilità. Ma quella dei due coniugi, come ha spiegato lo stesso Yehoshua, è una battaglia comune. In Israele Yaari ha custodito la vita. In Africa Daniela ha lottato contro la morte.

Abraham B. Yehoshua, Fuoco amico, Einaudi

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  1. Stas' ha detto:

    Il fuoco di Yehoshua mi ha fatto pensare all’ultimo romanzo di Cormac McCarth. Il bambino protagonista de “La strada” ricorda al padre, mentre insieme attraversano un territorio devastato da una calamità apocalittica, che loro sono quelli che “portano il fuoco”. Questo fuoco di cui sono portatori li distingue dagli altri pochi sopravvissuti che hanno perso la loro umanità diventando dei cannibali pronti a mangiare altri uomini pur di sfamarsi. Questo fuoco è all’origine del prendersi cura l’uno dell’altro e a renderli, per questo motivo, ancora profondamente umani malgrado siano coperti di stracci e il mondo sia ridotto ad un cumulo di cenere sotto a un cielo perennemente grigio.

    Grazie per questa bella recensione, Luca.

  2. Ada Poglio ha detto:

    Come tutti i libri di Abrahm Yehoshua, questo suo romanzo mi é piaciuto molto. Ne scriva presto un altro!!!

  3. Sergio Magaldi ha detto:

    La cornice in cui si svolge Fuoco amico a prima vista mi sembrava interessante e inoltre avevo già letto con un certo piacere altri romanzi di Yehoshua.
    Una vicenda che si svolge interamente nella settimana di Hanukkah e che si articola in otto capitoli, quante sono le candele che si accendono durante la festa più amata in Israele e nelle comunità ebraiche. Un duetto tra sessantenni: Amotz Yaari, progettista d’ascensori, che resta a Tel Aviv e l’amatissima moglie Daniela, insegnante, che parte per la Tanzania nell’intento di ritrovare qualcosa della sorella morta. L’accoglienza del cognato, in Africa per una spedizione di paleoantropologia, non si rivela delle più affettuose per la donna. E qui l’autore ci rivela forse il vero motivo che lo spinge a scrivere una storia per altri versi tanto lunga e noiosa. È il perenne conflitto arabo-israeliano, è l’essenza stessa di Israele che viene messa in questione attraverso la sofferenza del cognato di Daniela, privato del figlio, caduto per errore sotto il fuoco dei suoi stessi commilitoni, “fuoco amico”, appunto.
    Nel rifiuto di Yirmiyahu, vedovo della sorella di Daniela, di non fare più ritorno in Israele o addirittura di continuare a sentirne parlare, non c’è solo il dolore per la morte del figlio o l’amarezza per un conflitto che sembra non aver mai fine, perché è la stessa fonte da cui Israele trae alimento ad essere riguardata con sospetto. Una rilettura attenta di alcuni passi della Scrittura rivela infatti altri punti di vista, altri possibili significati.
    Peccato soltanto che la strategia narrativa non sia quasi mai all’altezza di un tema così drammatico e inquietante. L’idea stessa di alternare nei capitoli (o accensioni di candele nei bracci della Menorah), le vicende dei due protagonisti, marito e moglie, non si rivela felice e in luogo di evitare di appesantire la narrazione finisce col renderla sovrabbondante e persino ossessiva. Anche perché i fatti narrati non si discostano dalla banalità del quotidiano, fermandosi talora su particolari così insignificanti da indurre il lettore a passare oltre.
    L’apatia generale in cui si dipana la storia, se così si può chiamare, è appena scalfita dalla trovata degli ascensori che emettono sibili e ululati, l’uno per via di vecchi ingranaggi, gli altri a causa del vento che s’infila nelle fessure di un palazzo mal costruito da operai stranieri (sic, rumeni e cinesi) e che può far pensare ad una duplice ed efficace allegoria: le molte e contraddittorie ingerenze straniere che portarono alla costruzione della nazione ebraica e il “ruach refaim”, lo spirito dei morti, dei troppi morti, che aleggia di continuo in terra d’Israele.

  4. Abraham Yehoshua ha detto:

    Lo spirito è vento e ogni cosa è impermanente come il vento. La similitudine non appartiene solo alla simbologia ebraica ma credo che in molte culture si è portati ad associare lo spirito al vento, perché così evanescente e sottile.

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