Musica e poesia come ganci verso il cielo

Intitolata Traversate di un credente, è uscita, per Jaca Book, una raccolta di testi di François Varillon (1905-1978), comprendente scritti molti dei quali per la prima volta in italiano (François Varillon, Traversate di un credente, Milano, Jaca Book, 2008, euro 26). Gesuita, uomo di vasta cultura e ricchissime doti umane, Varillon è da annoverare tra le intelligenze francesi del ventesimo secolo che in un modo o nell’altro hanno influenzato il cattolicesimo e la teologia, tra i quali Teilhard de Chardin, de Lubac e Daniélou. Il tono franco e cordiale, il continuo riferimento all’esperienza personale, la passione dichiarata per le arti fanno sì che gli scritti raccolti in Traversate di un credente si offrano inaspettatamente al lettore in modo diretto e immediato.

“Varillon illustra la profondità del suo pensiero con citazioni e narrazioni illuminanti – scrivono i gesuiti Quentin Dupont e Antonio Spadaro nella loro prefazione scritta a quattro mani -, convogliando la sua passione per la letteratura, la musica e la pittura in una tensione verso Dio. Ciò dimostra quanto egli abbia fatto proprio il motto di sant’Ignazio: Cercare e trovare Dio in tutte le cose”. È questa, in fondo, una declinazione di quell’ “ebbrezza dell’apertura alla vita” che lo ha sempre contraddistinto. Il gusto gioioso per l’esistenza e per la fede valorizza in lui tutto ciò che è umano; il sacerdozio, anziché spegnere questo slancio positivo, lo ha illuminato di significati profondi e radicali. “Il problema della mia vocazione – scrive Varillon – era di conciliare l’arte e il Vangelo, e il nome di Gesù Cristo è un nome asciutto per chi è incantato dalle armonie baudeleriane e wagneriane”.
Eppure passione, emozioni e desideri hanno costituito parte integrante della vita del gesuita, rivelandosi un gioioso viatico per raggiungere quel Cristo “dal nome asciutto”.
La sua sensibilità artistica permetteva che musica e poesia, anziché ridursi a vaghi e astratti interessi esteriori, fossero invece vissute come tassello essenziale della propria formazione. Se Varillon definiva la poesia “un aggancio alla vita mistica”, e se nella scrittura di Claudel trovava una sensibilità che toccava profondamente il suo cuore, nella musica di Wagner rinveniva un’audacia e una bellezza indescrivibili.
L’attrazione per il compositore tedesco fu così forte che Varillon sentì addirittura il bisogno di “disintossicarsi”, astenendosene dall’ascolto per ben dieci anni: “La wagnerite è una malattia”, confessava senza falsi pudori.

Nemico dell’astrazione

Si può parlare di una vera e propria “incandescenza dello spirito” che si fa tutt’uno con l’esperienza delle cose. Nemica dell’astrazione, infatti, la riflessione del gesuita francese sgorga in maniera vivace dal vissuto di un uomo sempre in divenire, mai compiuto.

Una spiritualità che, muovendosi verso un Dio incontrato come un Tu, vive in pieno l’espressione di sant’Ignazio, quel magis, quel sempre di più, sempre oltre, ancora e sempre; quel magis che vuol dire acconsentire a una perpetua novità, come se i doni di Dio fossero non semplicemente fatti o cose, ma “compiti da portare a termine”.
In questa direzione si pone la straordinaria riflessione sulla parola “amore”, che Varillon, investendola di valenze dinamiche, intende come un perpetuo darsi, un perpetuo acconsentire alla novità. “Che cos’è mai l’amore? Dopo più di sessant’anni di vita umana e apostolica, comincio a capire un poco che cosa è l’amore. Si fa presto a dire che Dio è amore. Ma appunto è tutta un’esperienza di vita che fa capire che cos’è il vero amore”.
Lo stesso valga per la decisione, parola chiave per un figlio di sant’Ignazio. La decisione è la libertà in atto e l’uomo si costruisce mediante le proprie decisioni, alcune delle quali sono cruciali, nel senso etimologico della parola “croce”. “Ogni decisione deve essere in qualche modo umanizzante, farmi più uomo facendo gli altri e il mondo più umani”.

Ogni decisione è mistica

In questo contesto Varillon è radicale: “Dio è presente soltanto nelle nostre decisioni”. Decidere è l’opposto del ripiegamento su se stessi, è un darsi, un camminare con Dio, al punto che ogni decisione morale è sempre una decisione mistica: da qui la necessità del discernimento in un agire pratico, momento concreto di decisioni spirituali. Affinità evidenti, se non diretta influenza del “verso l’alto e in avanti” di un altro grande gesuita francese, Teilhard de Chardin.
All’8 giugno 1948, un mese dalla morte, risale l’ultimo splendido dialogo tra Varillon e Charles Ehlinger, intitolato “Arte di vivere – arte di morire”. Qui, nonostante il dolore venga letto come “mistero insondabile”, emerge di nuovo con forza un’altra consonanza teilhardiana: l’esigenza di una crescita perseverante, di un superamento, di una trasformazione.
La beatitudine più alta, la gloria futura promessa da Dio all’uomo non esclude la sofferenza, ma la implica misteriosamente, come un passaggio. Secondo Varillon esiste una morte durante tutta la vita: la morte che avviene nel momento in cui ci si decide per qualcosa. La decisione porta a “morire” ad alcune cose per risorgere ad altre.
Che la sobrietà di un grande pensiero si fosse spinta fino a cogliere l’essenziale, lo dimostrano infine le ultime parole, pronunciate sul letto di morte: “Mi abbandono come un bambino”.

(© L’Osservatore Romano – 9 aprile 2008)

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