Aspettando Bruce Springsteen

Bruce Springsteen

Bruce Springsteen

In principio fu Born to run di Dave Marsh. Per i fan di Bruce Springsteen – che allora erano poco più di una setta, custodi gelosi di un culto misterico che non aveva ancora conosciuto i fasti planetari di Born in the Usa – fu un autentico oggetto del desiderio. Diciamoci la verità: a fare gola non erano solo gli aneddoti riportati da Marsh, il minuzioso racconto della genesi degli album e delle torrenziali maratone dei concerti, ma soprattutto quella galleria di foto, a corredo del libro, che mostravano e rimostravano Bruce: Bruce mentre si lancia nel vuoto con la chitarra con sorprendenti doti atletiche, Bruce sormontato dal gigante con il sassofono, Bruce con la barba, Bruce senza barba, Bruce in lacrime, Bruce senza muscoli, Bruce, Bruce, Bruce. Era il fatidico 1983: c’erano già stati Born to run (senza parole), l’oscuro Darkenss, il vitale The river, il criminale Nebraska, c’era stato il concerto a Zurigo nel 1981 con tanto di migrazione di italiani. Ma mancava ancora qualcosa.

Quel qualcosa accadde: partiva come un razzo, con un colpo di batteria e un sintetizzatore simili a un terremoto, una voce rabbiosa, un pugno chiuso, una capacità impareggiabile di scrittura. Era Born in the Usa, miracolo di sintesi, storia, presente passato e summa del rock’n roll, erano i giorni di gloria che non avrebbero conosciuto fine, la hometown che cadeva a pezzi e il desiderio di non arrendersi, era il solare Springsteen e il notturno Springsteen, era il desiderio il fuoco l’amico di sempre che se ne andava per la sua strada (e anni dopo sarebbe tornato), erano i sogni romantici e lo spettro della maturità, l’America, la ferita del Vietnam, era l’ostensione (inopportuna? ambigua? ammiccante? furba? desolata? testarda? fedele?) di una bandiera a stelle e strisce.

Le acque si ritirarono, gli stadi si riempirono. Bruce uscì dalla nicchia, Bruce entrò nella leggenda. Non fu solo un successo musicale senza pari, non fu solo uno schiaffio a quella faccia da schiaffi di Ronald Reagan, non fu solo uno sberleffo alla musica plastificata imperante negli anni Ottanta. Fu (e sarà) un successo editoriale. Carta, libri, pensieri, traduzioni, biografie. Springsteen significò una rincorsa: per spiegare, per analizzare, per cercare di capire perché nel sudore che quell’uomo spandeva  a fiotti in concerti lunghi come odissee, ci fosse il segreto dell’America, l’ologramma in grado di contenere tutto, la Grande Mela e la provincia, i grandi spazi e il senso soffocante della sconfitta, John Ford e Woody Guthrie, il peccato e la redenzione, l’America che sbarca il lunario e quella supponente, l’America travolta dal mito e quella che si crede mito, l’America che ci insegue da quando siamo nati. Insomma Bruce lo si incontrava (e lo si incontra) non solo sugli scaffali dei dischi (e sì c’erano i dischi), ma anche negli scaffali dei libri. Marsh non mollò l’osso, e ci fu il racconto dei giorni di gloria (Glory days) e quello della maturità (Two hearts) e quello della strada (On Tour 1968-2005). Ma non fu il solo. Impossibile nominarli tutti: ma basti dire che nel calderone ci sono tra gli ultimissimi un’analisi del rapporto di Bruce con la filosofia (Bruce Springsteen and philosophy), dell’ansia di redenzione che percorre come il suo rock (The gospel according to Bruce Springsteen), studi sulla musica popolare americana (Bob Dylan, Bruce Springsteen and american songRunaway american dream), sul rapporto con la tradizione letteraria (Born in the Usa and the american tradition).

In Italia tra i più prolifici è Ermanno Labianca, autore tra i tanti dell’enciclopedico American Skin – censimento concerto dopo concerto, canzone dopo canzone della carriera di Springsteen – e il fresco di stampa Talk about a dream (ma attenzione trattasi solo della prima parte, in autunno il seguito). Testi tradotti anche per Leonardo Colombati (Come un killer sotto il sole) che in un bel saggio introduttivo spiega che sì tra Whitman e Springsteen non corre poi così tanta differenza. Ecco (perdonate l’autocitazione) Oltre il confine. Miti e visioni d’America nelle canzoni di Bruce Springsteen, un mio tentativo di confrontare alcune delle grandi narrazioni Usa con l’universo poetico del Boss. Un’annotazione particolare merita Antonella D’Amore con il suo My City of ruins. L’America di Bruce Springsteen, seria, precisa, circostranziata ricostruzione della produzione del Boss, con i debiti e le influenze, le citazioni e le rivoluzioni che fanno del corpus springstiano quella amalgama unica che si può chiamare in un solo modo: il corpus springstiano. Un occhio divertito, spesso canzonatorio ma sempre partecipe al mondo dei “seguaci” del Boss è nei libri di Gianluca Morozzi, mentre ultimissimo prodotto scritto da un fan, e che veleggia in quell’universo dei fan incredibile per dedizione e costanza, instancabili narratori/tessitori del mito Springsteen, sempre in attesa del ritorno del Capo, collezionisti al limite della follia, comunità itinerante innamorata dell’Idea, è il libro di Eugenio Nascimbeni “Per fortuna che c’è…BRUCE!“.

Piccola deviazione. Springsteen non rieccheggia solo nei libri a lui dedicati, ma invade anche le pagine di numerosi romanzi. Solo qualche esempio. Il celeberrimo Altà fedeltà di Nick Hornby (premiato dallo stesso Springsteen che appare in sogno al protagonista nella versione cinematografica), Hornby che stilerà la sua lista delle 31 meraviglie partendo da Thunder road. O ancora Denti bianchi  di Zadie Smith. Tra gli italiani, l’avvocato Guerrieri protagonista dei libri di Gianrico Carofiglio è un assiduo ascoltatore di Springsteen che infatti affiora con i suoi versi nei panorami baresi tracciati dallo giallista.

Infina merita una particolare citazione il saggio “La risurezione di Bruce Springsteen” del “padrone di casa” di Bombacarta, Antonio Spadaro, che con pionieristica intensità faceva i conti con la “cecità” di certa critica, poco disposta a riconoscere quella dimensione religiosa che si è fatta sempre più prepotente nell’ispirazione del Boss, ritrosia non retrocessa neanche dinanzi alla trasparente evidenza di The rising. Negli States c’era stato un precedente altrettanto illustre: quello del reverendo Andrew Greeley che in Tunnel of love scorgeva il profilo della teologia.

Buon concerto e buona lettura a tutti! 

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  1. carlo ha detto:

    Cuore affamato

    S. Siro,ieri sera, ore 20,40: i ragazzi entrano sul palco e Bruce inizia dicendo, in italiano: “Ciao Milano, fa abbastanza caldo? Fa abbastanza caldo? Con noi ne farà ancora di piu”. E si parte. «Summertime Blues», una cover. Quindi «Out in the Street», potentissima, durante la quale si avvicina a una ragazza del pubblico con un cartello “kiss the italian girl”, e a questo punto non se lo lascia ripetere 2 volte.. Una scaletta da paura, “None but the brave” lascia tutti a bocca aperta, poi «Darkness on the Edge of Town»,«Prove it all night» «Hungry Heart» (se non la fa qua dove puo farla?). Fin qui tutto bellissimo, anche se non aggiunge nulla a quello che ho gia visto altre volte. Ma quando arriva il momento di «Racing in the street» mi sembra come la prima volta che vedo Bruce, penso:”per questo è valsa la pena venire stasera”.
    Il concerto procede fino agli encores, nei quali spicca “Detroit Medley”, incredibile, e la grande «Rosalita», come nel 2003.
    Si arriva infine a «American Land», che chiude tutti i concerti di questo tour.
    Durante la presentazione Bruce presenta la band: “Milano, you’ve just seen the greatest r&r band of the world, the house rockin’, pants droppin’, earth shockin’, hard rockin’, booty shakin’, love makin’, heart breakin’, legendary E Street Band”
    E come dargli torto?

    Stiamo gia pensando che è finita quando lo vediamo impugnare la chitarra e dire qualcosa alla band, inizia una canzone, un signore sconosciuto si volta entusiasta verso di me e mi grida in faccia “Twist and Shout, Twist and Shout!!!” … e così è, come nel 1985, la prima volta che è venuto in Italia, e proprio a S.Siro (io avevo un anno). La cosa ha dell’incredibile: solitamente Bruce esegue 24 canzoni nelle altre tappe, e ieri a Milano quante ne ha fatte? 29. Chiude dicendo: “Milano, vi amo! Milano, vi amo!” Ma questa volta non ci tranquillizza piu come nel 2003 quando disse “Ci rivediamo ancora”. Forse è l’ultima volta che vedremo leggendaria E-Street Band. Ma come i grandi campioni, è meglio uscire da vincitori.

    Il concerto era iniziato prima del previsto perchè, date le nuove regolamentazioni, tutti gli spettacoli devono chiudere tassativamente entro le 11,30. Invece ieri Bruce ha smesso a mezzanotte meno cinque, fregandosene e facendo un concerto di 3 ore. A 59 anni.

    Come ha detto l’amico Frank D’Acri, “spero che non rimanga solo un bel ricordo. Sarò un ragazzino, ma spero che Bruce in qualche modo abbia a che fare con il mio destino di uomo. Spero che la sua musica non sia solo una menzogna. Spero che al di là dell’anticamera ci sia “The Promised Land”. Ci spero e lo credo.”

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