Il tempo e la memoria: Savyon Liebrecht

Meir – il protagonista dell’ultimo romanzo della scrittrice israeliana Savyon Liebrecht – non ha memoria della sua infanzia. Una menzogna ha sbarrato il fluire dei ricordi. La sua memoria è inceppata. Finché la verità – che improvvisa gli viene rivelata dalla madre – rimuove quell’ostruzione. La memoria, come un fiume, prima lentamente poi precipitosamente, torna a scorrere.

Marcel Janco, On the Way to Ein Hod

Marcel Janco, On the Way to Ein Hod

L’esperienza del tempo, il conflitto tra tempo e memoria, sono centrali nell’opera della Liebrecht. Già nel suo romanzo più noto, Prove d’amore i fanstasmi del passato – della shoah – tornavano a sconvolgere il presente dei suoi protagonisti. Il disfacimento della memoria, il suo tracollo o la sua invadenza costituiscono un tema che accomuna molti scrittori israeliani della seconda generazione: la memoria della shoah rimane un imperativo ma, allo stesso tempo, la condizione del sopravvissuto rappresenta uno stigma, un oltraggio da cancellare, un residuo del passato che deve essere rimosso per far posto all’ebreo “nuovo”, quello temprato dall’esperienza del kibbutz che ha reciso ogni legame con il ghetto. Il tempo porta dunque con sé immagini diverse che si solidificano in modelli, e che rispecchiano ciascuna una ideologia diversa.

Ma qual è l’esperienza che ognuno di noi fa del tempo se la sua prima connotazione è l’evanescenza? In particolare, di quella dimensione del tempo svuotato, perduto che è il passato? E ancora: quali immagini poetiche la scrittrice presta al tempo, con quali parole cattura il suo fluire?

Il tempo passato e negato alla memoria è un pozzo, i ricordi sono depositati in un “antro”. la Liebrecht, per scrivere del passato perduto del protagonista, usa immagini che suggeriscono profondità e allo stesso tempo nascondimento. La visione inattesa, il ricordo che emerge improvviso è come “un sommozzatore che risale in superficie in un momento di difficoltà”, la memoria è inabissata “come un sottomarino che scende in profondità”. I ricordi si susseguono come “fotogrammi confusi di una pellicola cinematografica logora”. Le domande che sgorgano in Meir – ogni volta che un frammento del suo passato torna alla luce – sono come “antichissimi fossili”. I ricordi sono “come una porta che ne rivela un’altra”. E ancora: i ricordi sepolti richiedono costanza, precisione appassionata, cura: richiamarli al presente è come usare “i colpi delicati del pennello dell’archeologo”.

Quello che Meir recupera, nel ricordo della progressiva dissoluzione della sua famiglia fino alla tragedia che costituisce il centro dell’intreccio narrativo, è il bambino che era, un bambino “pieno di paure, di apprensioni, facile al pianto… sempre sul chi vive, pronto alla prossima disgrazia, sospettoso come un vecchio. La sensazione che a casa loro in  qualsiasi momento potesse accadere qualcosa di imprevisto non lo abbandonava mai”.

La partita che giocano i personaggi della Liebrecht è dunque giocata contro, nel, per il tempo. E’ il tempo che nasconde o svela il senso delle loro esistenze, non lo spazio. E’ il tempo più che lo spazio a creare identità, a segnarne il perimetro.

Siamo dinanzi ad una preminenza tutta ebraica accordata al tempo. Abraham Joshua Heschel ha mostrato come l’esperienza del tempo sia assolutamente centrale nell’ebraismo. Le profezie e l’apocalittica non sono comprensibili se non come presente che anticipa il fututo, futuro che precipita sul presente. “L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo. La eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro del Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: “E Dio benedisse il settimo giorno o lo santificò“. Nel racconto della creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attrubuito il carattere della santità”.

 Ma se il tempo è santo, il tempo passato non può essere cosa morta, inerte. Non può essere pensato come qualcosa che ha perso la dignità di essere, e che una volta stato non è più. Il tempo non può de-cadere, non può scivolare dall’essere al niente. Siamo dinanzi ad un enigma, a un mistero che ci sfida e che Heschel così formula: “Il tempo non è l’immagine mobile di un’eternità immobile, bensì il prodotto dell’eternità in azione, ossia dell’eternità in movimento. In realtà, il Dio della Bibbia è il Dio del pathos, dell’interessamento. Il tempo non è creativo in sé; il tempo è creato, viene creato, è cioé creazione continua.”

Ma se il tempo è creazione continua, sorgente, faglia cosa ne è del passato, del presente e del futuro, ossia di quelle dimensioni attorno alle quali si plasma la nostra esistenza? Forse le parole più belle, e insuperate, sul tempo le ha scritte Sant’Agostino: “E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuizione, il presente del fututo è l’attesa”.  

Savyon Liebrecht, Le donne di mio padre, E/O

Abraham J. Heschel, Il sabato, Garzanti

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