L’identità è una crosta?

Lui, l'altroChi è lui? Chi è lo sconosciuto che mi sta di fronte, l’altro con cui ho incrociato lo sguardo, questo tale che mi parla, la persona con cui sto viaggiando gomito a gomito sull’autobus, l’uomo che mi viene incontro sul marciapiede? In Israele una simile domanda vuole innanzitutto una precisa risposta di carattere etnico perché essere ebreo o arabo (ancorché israeliano) è un elemento di diversità radicale che suscita sentimenti e comportamenti molto differenti. Eppure la questione non è così semplice. Può accadere, per esempio, che un ebreo cresciuto in un paese come l’Iraq, dopo aver parlato solo arabo per ventitre anni (e, quindi, con un’anima araba), sia costretto a lasciare il Paese per via del suo sangue semita e a rifugiarsi in Israele, l’unico paese disposto ad accoglierlo. Giunto nel nuovo Stato, questo strano ebreo di cultura araba, decide di abitare nel quartiere arabo di Haifa e di diventare uno scrittore.

Ma per diventare uno scrittore in Israele occorre conoscere l’ebraico alla perfezione e da quel momento si mette a studiare la lingua del popolo a cui ha scoperto di dover appartenere quando è stato portato alla frontiera del suo paese natale perché nel 1948 i suoi concittadini ne avevano abbastanza degli ebrei. Questa, grosso modo, è la storia di Sami Michael (si legge Sami Mihaèl), uno dei più apprezzati scrittori israeliani viventi con un grande successo di pubblico anche all’estero (moltissime le copie vendute in Egitto dove i suoi libri scritti in ebraico sono, da lui stesso, tradotti in arabo). Questo “scrittore ebreo israeliano con il cuore di un arabo” (così si è definito lui stesso in occasione del recente Festival di Letteratura Ebraica a Roma) ha un vissuto che gli ha permesso di scrivere un romanzo straordinario come Rifugio (l’ultimo pubblicato da Giuntina dopo gli ottimi Una tromba nello Uadi e Victoria) in cui il dramma del riconoscimento dell’altro è rappresentato in modo esemplare.

Il nodo dell’identità in Israele e nei territori occupati costringe milioni di uomini all’imbarazzo, al sospetto, al pregiudizio, alla paura, al rancore, alla guerra e, in generale, a un senso di inferiorità o di superiorità che, anche nelle condizioni migliori, ostacola il sorgere di quel sentimento di fiducia necessario per l’avvio e per lo sviluppo positivo di qualsiasi incontro e convivenza. È un problema politico, sociale e culturale di cui scopriamo però la profonda dimensione umana e spirituale attraverso le storie di Shula, Marduch, Satchi e gli altri personaggi del romanzo di Sami Michael. La questione è complessa e va al di là delle semplificazioni aride e manichee operate dai mass-media perché accade, per esempio, che Shula sia una donna ebrea sposata a Marduch, un ebreo di cultura araba che, allo scoppio della guerra del Kippur nell’ottobre del 1973, esce di casa per unirsi all’esercito israeliano. Entrambi fanno parte del partito comunista israeliano (ideologicamente allineato alla posizione filo-palestinese dell’Unione Sovietica) e dovrebbero boicottare qualsiasi intervento militare israeliano. Dovranno fare i conti con le critiche dei compagni di partito che costringono Shula, mentre il marito è al fronte, a nascondere in casa Satchi, un avvenente poeta arabo israeliano che sogna la vittoria totale di Siria ed Egitto.

Nel rifugio offertogli dalla donna ebrea (dilaniata dalla preoccupazione per Marduch che combatte sulle alture del Golan, dalle frecciate dei suoi compagni di partito e dagli sguardi impietosi dei vicini che le rimproverano di dare asilo ad un arabo proprio mentre Israele è attaccato) Satchi si rende conto che, mentre sogna ad occhi aperti di abbattere con i suoi versi tanti carri armati israeliani, anche la sua identità di arabo rivoluzionario è fragile, proprio per il fatto di godere della cittadinanza israeliana. La sua posizione è facilmente criticabile dagli stessi arabi di cui sogna il trionfo perché Satchi non è un povero palestinese dei territori occupati, ma un arabo che ha prosperato in Israele e che, per giunta, nell’ipotesi che le armate sirio-egiziane arrivassero fino ad Haifa, potrebbe essere scambiato per un imboscato traditore nascosto in casa di ebrei. Ma questo è il minimo perché Satchi scoprirà a poco a poco che l’altro di cui si auspica la distruzione non è un’astrazione, ma una persona che ha in sé qualcosa che lo mette in crisi: Shula è generosa, seducente, responsabile e Satchi non può fare a meno di sentirne i passi e l’odore. La sua rigida identità di arabo resistente deve fare i conti con le forze misteriose della vita, più potenti dell’ideologia antisionista e delle armate siriane ed egiziane che stringono Israele su due fronti. La morale che indurisce il suo sguardo è nel pensiero, ma non nel sangue dove la vita è un’energia creatrice potente e inarrestabile che scorre e spinge in avanti infischiandosene delle diverse appartenenze etniche, culturali o ideologiche. È quella forza primordiale a cui l’uomo non può resistere, quella spinta in avanti nel tempo che accende i sensi, abbatte certezze, suscita dubbi, scioglie e coagula visioni sempre diverse, alimenta un magmatico e mutevole sentimento di se stessi e degli altri. E soprattutto suscita il desiderio dell’unione con l’altro (è quella forza che Walt Whitman ha descritto molto bene in questi versi: Urgere urgere urgere / sempre l’urgere procreante del mondo //Dalla confusa oscurità gli opposti uguali avanzano/sempre sostanza accrescimento e sesso/ E intrecciarsi di indentità e sempre distinzione sempre riproduzione).

Il conflitto tra l’identità di ebrea e la sovrastruttura ideologica comunista soffoca Shula (che non può dimenticare Rami, il suo primo amore, lui che l’aveva avvertita tanto tempo prima: “Il Partito ti ha rovinata. Ogni cosa bella è proibita, solo il brutto è permesso”); la presunzione e il dogmatismo rivoluzionario di Satchi rendono il poeta sempre più inquieto, ma mentre entrambi, nel corso di quella convivenza forzata, si dibattono come mosche dentro una bottiglia, la loro umanità vibra di pietà, attrazione fisica, curiosità, stima, tenerezza. Shula e Satchi scoprono che l’altro è presenza che genera in loro una forza che anticipa (la memoria di tanti episodi della loro vita riemergono inaspettatamente) e supera la coerenza morale e ideologica con cui vorrebbero definirsi e così evitare il dolore e la fatica di scoprire la propria identità nella relazione con l’altro. Shula piange chiusa in bagno perché si accorge di non essere indifferente alle attenzioni di Satchi che sente suo malgrado di amare questa donna ebrea che gli ha offerto un rifugio e che non gli si è concessa. La crosta dura superficiale dell’identità di ciascuno si è rotta ed è fuoriuscito un magma misterioso che può dare forma ad un nuovo mondo. Ma se la crosta si richiude, torneranno ad essere semplicemente un ebreo e un arabo, due mondi distanti e nemici.

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  1. Pasquale ha detto:

    L'”altro” è sempre mio fratello. Ma non nella stucchevole accezione “pacifista” di una fratellanza indifferenziata ed utopistica, perciò irrealista e “satanica”. L’altro è mio fratello nel senso di comune destino, nel senso di confronto e di scontro. Reale. A volte pericoloso. Sanguinario, nel senso del legame. L’altro è mio fratello come Caino lo è stato per Abele, come Giuseppe e gli altri fratelli che lo vendono ai nomadi. L’altro è mio fratello e mio nemico. Perchè mi dice tutto di me. Perchè mi indica i miei stessi desideri. Perchè è il primo a rivelarsi a modello e ad ostacolo insormontabile. Perchè mi rivela.

  2. laura ha detto:

    Non capisco cosa c’entra “pacifista” e “satanica”.

    Comunque sì l’altro mi rivela e si rivela nel confronto o nello scontro, nella diversità ,o almeno nella diversità di sensibilità, di momenti vissuti prima o che si vivranno. Ma anche che si potrebbero non vivere mai, realmente. E’ unione è separazione con tutta la gamma di emozioni e sentimenti che queste due situazioni, 2 a caso, comportano ….

  3. Ugandany ha detto:

    Quando ti domandi chi sei è inevitabile che tu ti chieda anche chi è l’altro!La prova di quanto sia importante il riconoscimento degli altri per ciascuno lungo il corso della vita è dato dal fatto che ciò che più si teme è l’indifferenza.Gli uomini non possono non comunicare tra loro in quanto la comunicazione gestuale e verbale è una costante in ogni relazione,anche la più labile, sia che si accetti il legame sia che si rifiuti,che si tratti di una situazione di prossimità o che si consideri un rapporto a distanza.L’esigenza di avere un’identità socialmente convenuta può portare a chi ne è sprovvisto a pagare un prezzo molto alto in termini di conformismo o reazioni reattive.Il velo islamico per le donne musulmane che vivono in Occidente può essere usato come un’arma per rivendicare un’appatnenza religiosa, mentre per una parte degli albanesi che emigrano in Italia la loro identià nazionale non va rivendicata e operano una strategia di mimetismo coi locali italiani..(vedi il libro “Farsi Passare per Italiani”),tutto ciò per dire che la crosta identitaria è una crosta complessa che va al di là dell’etnia che si scrosta solo in un rapporto cocn un tu paritario,come in uno specchio in cui si è capaci di vedersi senza veli nè maschere e confrontarsi.

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