Fa' el to duvèr, cherpa ma va' avanti

Il «mestiere di vivere». È una espressione che mi è venuta in mente spesso in questi giorni di viaggio in Israele. Forse perché su molti volti ho scorto i segni di una fatica diversa. Il marchio del mestiere di vivere non è lo stesso che sono abituato a vedere sulle facce emaciate che incontro nella mia città, spesso simili al viso di un pugile perdente: gonfio, deforme, livido e sporco di inutile sudore. Certo, il vivere da queste parti è molto differente, un mestiere che in molti casi non possiamo neppure immaginare tanto è diverso dal nostro. Eppure ho visto rughe, occhiaie e bocche scolpite con una potenza e una dignità che raramente ho visto nella mia vita. Mi hanno ricordato quando da bambino seguivo per i campi il vecchio Settimio, un contadino di Albano Laziale incaricato di alcuni servizi nella tenuta di famiglia. Una volta l’ho visto uccidere una vipera a bastonate. La sua forza era tanto nelle braccia quanto nel silenzio che era seguito all’azione. Ero un bambino, ma intuivo che le sue bastonate erano un atto di ubbidienza a qualcosa che faceva naturalmente parte della sua vita. Mi riferisco ad una fedeltà radicale nei confronti della propria realtà (vipere comprese) che il contadino aveva accettato, come i suoi genitori prima di lui e tutti coloro che lo avevano preceduto.

Ieri in un Kibbutz semi-abbandonato e degradato sull’altopiano del Golan ho visto una donna uscire da una casa molto povera e stendere con grande disinvoltura un lenzuolo su un vecchio stendino. Da dietro i rami di uno spoglio melograno con qualche ultimo frutto raggrinzito l’ho osservata nel pieno del suo «mestiere» e ho avvertito la stessa cieca ubbidienza alla vita del mio Settimio (che, in un’altra terra, a distanza di quarant’anni, mi ritorna in mente). Enzo Bianchi ne Il pane di ieri (Einaudi, 2008) ricorda che suo padre, un contadino delle Langhe, usava dire Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti ovvero fa il tuo dovere anche a costo di crepare. Un po’ come Flannery O’Connor che ha scritto fino all’ultimo malgrado il Lupus Heritromatosus, la malattia incurabile che le divorava il corpo provocandole dolori molto forti. Dalle lettere della scrittrice sappiamo che le era di aiuto un certo senso dell’umorismo: aveva accettato il suo male e riusciva addirittura a sorriderne. Un sorriso aperto e potente come quello che ho visto da dietro il melograno quando la donna del Kibbutz si è accorta di me prima di rientrare nella sua fatiscente dimora.

Chi sorride in quel modo ha già detto un importante dentro di sé, forse senza neppure accorgersene. In un giorno qualsiasi della sua vita ha aderito ad un patto che ha cambiato la sua vita. Eppure, mannaggia a me, mentre mi allontanavo dal melograno e rivedevo Settimio che tagliava l’erba medica urlandomi di stare lontano dalla falce, mi sono chiesto (come un vecchio sopravvissuto del ‘900) quale potesse essere il senso di un simile «mestiere di vivere». Mi sono domandato se quella donna non avesse desiderato una vita diversa, lontana da quella ghost-town nata sulla vecchia frontiera dei pionieri sionisti, se non si fosse ribellata mai in nome di un’esistenza meno nascosta e sacrificata. Quando e perché aveva offerto il fianco al destino che la teneva in quel luogo? Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti era in quel sorriso, ecco la risposta vivente alla questione che mi ponevo. Cosa andavo cercando ancora con quei miei ragionamenti? Ancora la dittatura del pensiero che non si arrende alla semplicità della realtà? Mi sono detto: riprendi la strada e apri gli occhi, Stas’, non perdere tempo.

Però mentre tornavo verso il mare di Galilea pensavo che l’autore de Il mestiere di vivere aveva conosciuto tante persone con la mentalità e la cultura del padre di Enzo Bianchi, contadini per i quali la realtà è la realtà, uomini tutti d’un pezzo come il Settimio della mia infanzia. Chissà quante donne Cesare Pavese aveva visto come quella osservata da me da dietro le bacche di un melograno del Golan. E forse suo padre un giorno gli aveva detto Fa’ el to duvèr, cherpa ma va’ avanti. E lui lo aveva fatto il suo dovere: la sua missione nella vita era stata quella di scrivere e l’aveva vissuta con un’abnegazione totale. Eppure ci stava molto stretto nel suo personale Kibbutz senza un’anima gemella. Sapeva di essere il migliore scrittore italiano del dopoguerra, era riuscito in questo, ma quale spietato contrappasso la certezza che non sarebbe mai stato amato da alcuna donna! Questo era il destino a cui sentiva di non poter sfuggire (e allora perché continuare a vivere?). Scriveva infatti nel suo diario che Per consolare il giovane cui succede una disgrazia, gli si dice: ‘Sii forte, prendila con fegato; sarai corazzato per l’avvenire. Una volta succede a tutti, ecc.’ Nessuno pensa a dirgli quello che invece è vero: questa stessa disgrazia ti succederà due, quattro, dieci volte – ti succederà sempre, perché, se sei così fatto che le hai offerto il fianco ora, lo stesso dovrà accaderti in avvenire. Non c’è dubbio che parlasse di se stesso e di quella che sentiva essere la sua inesorabile disgrazia.

Forse è una sciocchezza, ma mentre scendevo dal Golan ho pensato che dalle nostre parti, di questi tempi, mancano entrambe le cose: l’ubbidienza/aderenza alla realtà, quel che ti dà l’abbrivio per compiere el to duvèr costi quel che costi, ma anche la semplice certezza di essere amati da qualcuno e di non essere soli al mondo, una certezza senza la quale la coscienza della propria missione e il senso del dovere non bastano (anzi, possono portare alla tragedia).

Lascia un commento a questo articolo
  1. laura ha detto:

    Bisogna andare avanti? Anche secondo me, e ci sono vari modi per dirlo:
    anche “the show must go one”, per esempio.
    Ricordo un fatto accaduto nell’ambiente dello spettacolo, che raccontava mia madre; quando la soubrette Delia Scala, nel corso di uno spettacolo a teatro, fu avvisata che il suo fidanzato era morto in un incidente: lei, mi pare, pronunciò questa frase “the show must go one” e andò avanti fino alla fine dello spettacolo.(Vedi anche su: http://it.wikipedia.org/wiki/The_Show_Must_Go_On)

  2. Alice (delle meraviglie) ha detto:

    Panni stesi al sole

    Il concetto che” lo spettacolo deve andare avanti” suscita in me l’indignazione provata ogni volta che l’ Iinformazione sportiva ci ha tediato, con i suoi articoli, sull’opportunità o meno di sospendere una partita di calcio alla presenza di disordini e di violenza negli stadi.
    Si è dovuto arrivare alla morte Filippo Raciti, l’ispettore di polizia, ucciso durante i violenti scontri del derby Catania – Palermo, per “sospendere lo spettacolo della tifoseria” di violenza e di morte.
    Il senso dell’andare avanti risponde, in questo caso al prodotto spettacolo, dovuto a chi ha pagato il biglietto,o l’abbonamento alla tv per godersi la partita; è l’antitesi di quell’andare avanti, a costo di crepare, e della cieca ubbidienza alla vita di Settimio.
    Per i giocatori, i loro gesti, le loro azioni sono un mestiere che si compra e si vende al mercato, un mestiere che fa spettacolo.
    Quale spettacolo offre la donna allo spettatore, dietro il ramo di melograno, stendendo con disinvoltura i panni, se non quello di un gesto e dignità, che non si vende e non si compra. Stendere i panni è per quella donna il prendersi cura dei familiari, è l’obbedienza all’amore. A parte il folclore, in quei panni si legge la storia di una famiglia. Sono panni gocciolanti di affanni.
    Nella Roma dell’Ottocento il lavare i panni era un mestiere prevalentemente delle donne (lavandaie o bucataie), e in misura minore anche dagli uomini (lavandini o bucatari).
    A Pigna (IM) al museo della mostra sull’ acqua (foto archivio Museo di Pigna) si possono ammirare foto di tante donne che portavano i panni da lavare nelle campagne, dove c’era il pozzo privato, torrentelli e spazio per stenderli. Li portavano nei cavagni sulla testa o sul mulo.
    Panni stesi al sole narrano le vite di chi lo indossa, narrano la storia dei loro tempi. Quando la lescia ( bucato) era ben fatta si poteva esclamere: u de sciortin a lescia gianca cume in liru!(mi è uscito un bucato bianco come un giglio!)

    La biancheria stesa al sole, nelle strade di Napoli, è il segno di un modus vivendi assai antico. C’è una storia secolare di famiglie che non sempre hanno avuto luoghi appropriati in cui vivere. C’ è un modo tradizionale di vivere il proprio privato. Alcuni condomini di altre città vietano anche lo stendi panni sul balcone. Mentre a Napoli i fili per il bucato vanno da balcone a balcone, da condominio a condominio. è che dopo secoli di panni al sole e al vento c’ è una condivisione di questo comportamento. Una condivisione che lo legittima. Stendere I panni è un arte. Il sorriso potente di quella donna era la felicità per quello sguardo indagatore dietro il ramo di melograno che la gratificava, che le rendeva omaggio.

  3. laura ha detto:

    mi spiace di essere stata fraintesa:
    innanzitutto per me la partita a calcio, non è spettacolo…comunque mi pare che Delia Scala sia una donna come tutte le altre donne che fa un mestiere, anche se poco nobile forse.

  4. Alice (delle meraviglie) ha detto:

    Probabilmente anch’io mi sono espressa male nel mettere insieme il Mestiere che si esercita per guadagno e il Mestiere di vivere.

    Ciò che accomuna nel tempo e nello spazio tutte le donne è il lavoro che si occupa della famiglia, senza esercitare una professione retribuita, della casa che ha il buon odore di spigo e di lavanda Campana; di pace, e quiete casalinga.
    Il lavoro della donna, in questo caso di lavare e stendere panni,è anche un supporto economico alla famiglia.
    In Canada per esempio si usano gli asciugatoi elettrici, che costano al consumatore 90 dollari l’anno e soprattutto consumano 900 chilowattora di energia ogni anno, che si traducono in 840 chilogrammi di inquinamento e gas che producono l’effetto serra a nucleo familiare.

    Esistono norme del “ mestiere di vivere “che diventano pratiche da far vivere ogni giorno perché necessarie alla comprensione reciproca, lontane dai luoghi comuni e dagli steccati gergali del proprio settore professionale, recuperando espressioni della vita.

    Panni al sole , uno dei capolavori del nostro Ottocento, di Pellizza da Volpedo , affronta nelle sue opere il tema dell’Amore, e in modo più approfondito l’ amore di Pellizza per la moglie ( quella Teresa che egli sposò giovanissima) insieme all’attenzione del pittore per l’ universo femminile,per quelle presenze austere, silenziose, proprietarie di misteri che, nei suoi quadri, Pellizza osserva attento e partecipato.

  5. Paolo Pegoraro ha detto:

    Aggiungerei che p. Bianchi, avendo vissuto sulla propria pelle anche le storture della retorica doveristica (come pure Pavese), aggiunge:

    «subito accanto a questo comando, pesante come un macigno, troppo duro da portare per molti, un secondo ammonimento, quasi volto a correggere possibili fraintendimenti da “superuomini”: “Esageruma nenta!”, “Non esageriamo!”. Parole pronunciate sovente come un adagio in reazione a espressioni altezzose, arroganti, vanitose: occorre avere il senso dei propri limiti, saper aderire alla realtà quotidiana, e chi, meglio dei contadini, sa scrutare i segni nel cielo tenendo saldamente i piedi per terra? “Chi parla troppo, esagera sempre – si diceva – e chi esagera racconta frottole”: l’invito a non esagerare era l’immissione di una sana diffidenza verso tutto ciò che a prima vista si impone, cresce, ha successo. Così, anche quando uno si costruiva la casa o ristrutturava la cascina, doveva cercare di farla bella ma modesta, senza accorgimenti appariscenti, senza ostentazione di ricchezza. Altrimenti, invece di grida di ammirazione, un ironico “esageruma nenta!” sarebbe corso di bocca in bocca tra vicini e conoscenti. Negli edifici come nel vestirsi, nel raccontare se stessi come nel reagire al successo, era segno di saggezza, e fonte di stima, restare nella semplicità, lontano da ogni orgoglio e pretesa».

  6. Stas' Gawronski ha detto:

    Hai citato una delle parti più belle del suo libro, quanto è vero tutto questo.

    A quanto pare Pavese si sottoponeva a turni di lavoro che potremmo dire “esagerati” (a volte lo si percepisce addirittura nella perfezione della sua prosa). Era forse esagerato anche il suo desiderio di un’anima gemella? Non credo. Era esagerata la tensione che si creava tra questo desiderio fortissimo e l’incredulità altrettanto forte che qualcuno potesse esaudirlo.

  7. Paolo Pegoraro ha detto:

    Tutte le risposte nel prossimo articolo di Antonio sulla Civiltà Cattolica ;-)

Prima di inserire un commento, assicurati di aver letto la nostra policy sui commenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *