Alle radici del blues

Secondo il critico letterario americano Leslie Fiedler un fantasma inquieta la letteratura americana: quello del pellerossa. Più la cultura dei nativi veniva sistematicamente distrutta, più essa – il suo fantasma – invadeva le “stanze” dell’animo americano. Tanto che alcuni tratti dell’eroe a stelle e strisce – come già sosteneva D.H. Lawrence – sarebbero solo dei “prestiti” dell’indiano (e delle sue stilizzazioni). Una fascinazione presente, ad esempio, nelle pagine di Moby Dick, nella forma della divertita ammirazione del bianco Ismaele nei confronti del selvaggio (in versione polinesiana) Queequeg.

Ma c’è un’altra cultura – che proprio in questi giorni celebra la sua rivincita simbolica – che ha subito un’analoga sopraffazione: quella afroamericana. Destino diverso, però, quello del nero rispetto al pellerossa. La sua presenza è stata “indotta” perchè necessaria all’economia della nascente nazione americana. Funzionale all’utilizzo “mercantile” del nero è stata la distruzione dell’ordito simbolico che lo avvolgeva.  Questa repressione ha però avuto esiti imprevedibili (per i bianchi). La presenza afroamericana si è condensata in una cultura – prima di tutto musicale e orale – che è stata capace non solo di ritagliarsi una propria autonomia pervenendo a esiti tra i più significativi dell’intero Novecento – basti pensare al jazz -, ma ha anche finito per influenzare e impregnare di sè la cultura bianca. Se una parte della cultura letteraria americana va rivista alla luce del rapporto con  “il fondamento” nero – si veda ad esempio lo studio “Was Huck Black? Mark Twain and African American voices”- il blues ha lasciato un’orma altrettanto indelebile sulla musica statunitense: basti pensare al rock’n roll.

Quale è stata allora l’impronta della cultura bianca su questo genere musicale? O meglio, in che termini il blues è stato una reazione alla sopraffazione bianca? Ricondurre l’intera gamma delle espressioni artistiche di una cultura ad un’altra – in questo caso della nera oppressa alla bianca dominante – è un’operazione pericolosa: rischia di misconoscere l’originalità della prima e nutrirsi di uno strisciante razzismo. Uno studio di Adam Gussow (“Seems like murder here. Southern violence and the blues tradition”) ha gettato però una luce nuova su un rapporto in qualche modo costitutivo della cultura musicale afroamericana: quella tra il blues e il linciaggio.

“Il linciaggio – ha scritto Alessandro Portelli -,  come ogni rito, è un messaggio. Non è una sanzione contro il singolo, ma uno strumento disciplinare, comunicazione giudiziaria preventiva contro tutti. Poco conta che la vittima sia colpevole o meno: il terrore è più profondo quando si colpiscono a caso gli innocenti”. Secondo Gussow il linciaggio (e i contraccolpi psicologici del terrore che esso spargeva) è il grande rimosso che percorre il blues. Mai portato a livello di linguaggio (l’unico brano che esplicitamente affronta il tema  è  la bellissima Strange fruit), “il linciaggio è inscritto nelle tradizione blues in modi svariati: ora come terrore dell’accerchiamento, della tortuta e dello smembramento, ora come materializzazione di un fantasma che bussa alle porte del cantante blues, lo insegue, gli infligge ogni sorta di male“.

Gli hard times o la bad luck, gli jinx il mojo e ogni forma di trouble, i cani  furiosi sbucati fuori dall’inferno (hellhound) , le diverse personificazioni che ricorrono del blues – i diavoli (devils) che piovono dal cielo o bussano alle porte o addirittura il blues in persona “che cammina come un uomo” – non sarebbero altro che trascrizioni inconsce della figura del linciaggio e la risposta alla violenza fisica e psicologica che attraverso di esso veniva esercitata. Questa personificazione del male è praticamente onnipresente nel blues. Il blues accerchia, preme, tende a rompere le difese, a sfaldare la stessa identità del soggetto aggredito, a penetrare, a de-formare. Il prezzo della sua invasione è spesso la follia, la fuga o una violenza altrattanto insensata. Il senso della minaccia, della precarietà, di qualcosa che è fuori controllo, di qualcosa che assedia, che opprime, che rende blue: ecco il blues.

Mi sono alzato questa mattina/ la iella era tutta attorno al mio letto” (Son House)

Guai guai alle costole ogni santo giorno/ sembra proprio che i guai debbano seguirmi fino alla tomba” (Bessie Smith)

Signore mi sono alzato stamattina/ il blues era tutto attorno al mio letto” (Tommy Johnson)

Non mai visto un tempo così duro/il lupo continua ad aggirasi fuori dalla mia porta” (Ida Cox)

“I blues mi furono addosso, Dio mio, e mi rincorsero di albero in albero/ avresti dovuto sentirmi implorare, Signor Blues, non mi ammazzare” (Little Brother Montgomery)

Mi sono alzato stamttina, i blues camminavano come un uomo/ bene, blues, dammi la tua mano destra” (Robert Johnson)

Lo spettro del linciaggio non comprende nè spiega l’intero mondo poetico del blues. Non riassume insomma un genere musicale capace di abbracciare – poeticamente – l’intero universo afroamericano. In un certo senso il linciaggio non inchioda al suo rituale di morte la vitalità del blues. Come ha scritto il teologo James H. Cone “quando il blues cattura l’assurdità della vita del nero nell’America bianca e la esprime in musica e parole, esso consente alla gente nera di interporre una distanza dai problemi che la attanagliano nell’attimo presente, permetteno loro di rimasticarli sotto forma artistica, offrendo una catarsi liberatrice”.  E tuttavia, quello messo in luce da Gussow, resta un nodo che non si può ignorare: “Il blues sono un modo di simbolizzare ciò che a livello incoscio opprime il soggetto nero: la periodica eruzione della violenza di massa ritualizzata dei bianchi“.

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  1. Max Granieri ha detto:

    Ciao Luca. Articolo utilissimo per accostarsi, in modo diverso, a un genere troppo lontano dai personali gusti e piaceri. E con grande godimento, grazie alla tua citazione, ho riascoltato “Strange Fruit” di Billie Holiday. Leggendo il post, mi è venuto in mente il “Mr. Mojo Rising” dei Doors in “L.A. Woman”. E’ l’anagramma di Jim Morrison, ispirato da un brano blues di Muddy Waters “I Got My Mojo Working”. La prova che chi ama il rock deve continuamente tornare all’origine, al blues. Inutile dirlo… Grazie!

  2. lucia capuzzi ha detto:

    Ciao Luca!
    Come sempre un’ottima analisi. Non ci avevo mai riflettutto ma in effetti il ritmo del Blues ti l’idea di un grido soffocato ceh veine dal profondo, da una paura atavica, ancestrale, quella collettiva che per generazioni ha oppresso la minoranza nera. Però dato che ormai ti sei addentrat nel mondo delle “paure o tragedie in nota” attendo un saggio sul tango…. Anche lui nasce da un grido soffocato, quello dei migranti, arrivati (volontariamente questo sì ma più che altro in teoria) in un universo straniero e inaccessibile…. Forse è per questo che, come il Blues, ti entra nella pelle….
    Dunque, mettiti all’opera!
    Abbracci
    Lucia

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