Scazzottare l’impercettibile

(dal testo della relazione all’International Flannery O’Connor Conference, Roma 20/4/2009)

Flannery O' Connor (illustrazione)Flannery O’Connor il 4 maggio 1963 scrisse a suor Mariella Gable in maniera assolutamente inequivocabile: I can’t write about anything subtle . Dichiarava così di non poter scegliere come argomento della sua narrativa nulla che fosse sottile, vago, impercettibile. La concretezza e il legame con la materia che cade sotto i sensi caratterizzano infatti la sua ispirazione. Un’immagine realistica della O’Connor è quella che lei stessa dipinse in una lettera del 17 gennaio 1956. Si tratta di un ricordo biografico dagli echi biblici: «Tutto voglio fuorché essere un angelo, per quanto da un po’ di tempo a questa parte i miei rapporti con loro sono migliorati. Prima non ci rivolgevamo nemmeno la parola. […] Fra gli otto e i dodici anni avevo l’abitudine di chiudermi ogni tanto a chiave in una stanza e facendo una faccia feroce (e cattiva), vorticavo torno torno coi pugni serrati scazzottando l’angelo. Si trattava dell’angelo custode del quale, secondo le suore, tutti eravamo provvisti. Non ti mollava un attimo. Lo disprezzavo da morire. Sono convinta di avergli addirittura mollato un calcione finendo lunga distesa. È impossibile far male a un angelo ma mi sarei accontentata di sapere che gli avevo insozzato le piume, perché è con le piume che me lo immaginavo».
Pur parlando di un angelo, l’immagine dell’«incontro» è tutt’altro che leggera, sottile e impercettibile: si parla di pugni e penne insozzate. Flannery O’Connor è sempre rimasta una bambina che prendeva a pugni volentieri il suo angelo custode. Ce lo conferma, del resto, un suo saggio, frutto di una conferenza tenuta alcuni mesi prima della morte, nel quale sostiene che lo scrittore deve lottare «come Giacobbe con l’angelo […]. La stesura di un romanzo degno di questo nome è una sorta di duello personale (The writing of any novel worth the effort is a kind of personal encounter)» . Questo scazzottare si estende per tutta la sua opera come una grande metafora del rapporto con ciò che trascende la finitezza, ad almeno tre livelli.

La concretezza del reale
Il primo livello è la visione dell’infinito come trama del reale finito. La O’Connor scrive perché vede il mondo. La scrittrice ha una visione del reale, non dei labirinti della mente, della coscienza e della psicologia: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa» . Da qui un prezioso avvertimento: non è possibile suscitare emozione con testi che trasudano emozione né suscitare pensieri riempiendo le pagine di considerazioni e riflessioni. A queste cose lo scrittore «deve dar corpo, deve creare un mondo dotato di peso e di spessore (He has to provide all thes things with a body; he ha sto create a world with weight and extension)» : scrivere narrativa non è questione di «dire» cose, ma di farle «vedere» al lettore, di mostrarle: «mostri queste cose e non avrà bisogno di dirle (show these things and you don’t have to say them) , consiglia in una lettera a Ben Griffith, che gli aveva inviato un racconto.
Dunque, se un personaggio ha un carattere legnoso deve avere una gamba di legno. Se la sua personalità cambia, allora deve arrivare un ladro a rubarle quella gamba, come avviene nel racconto Good Country People («Brava gente di campagna»). In questo racconto una dottoressa in filosofia viene derubata dalla propria gamba di legno da un venditore di Bibbie che aveva tentato di sedurre. La donna non crede in niente, e il lettore avverte che la gamba di legno, man mano che le pagine scorrono, accumula significato e corrisponde all’anima «legnosa» della sua proprietaria. Quando il venditore la ruba, il lettore s’accorge che egli si è portato via una parte della personalità della ragazza, svelandole il suo più intimo tormento. Prima di essere un simbolo la gamba di legno è, appunto, quel che è nella sua materialità: una gamba di legno, una «cosa» assolutamente indispensabile al racconto. Proprio perché ha una sua collocazione sul piano letterale della storia, questo oggetto agisce in profondità, oltre che in superficie, arricchendosi di valenze e significati.
La concretezza dunque è una delle basi forti della poetica della O’Connor. Personaggi e avvenimenti hanno un aspetto che colpisce la percezione, sono incarnati e materiali: «il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia (the world of the fiction writer is full of matter)» , mentre spesso si crede che siano le emozioni tumultuose o le idee grandiose a fare un racconto. La O’Connor sa che in quanto scrittrice, il suo gesto di vergare parole su un foglio non significa esprimere una serie di intuizioni, ma molto concretamente dar vita a un mondo. Lo stesso Dio e la dimensione spirituale hanno una consistenza materiale o, meglio, «sacramentale». Dio è un dato dell’esperienza, non un’intuizione della mente o dello spirito: nello splendido racconto The Turkey («Il tacchino»), è addirittura reso in figura da un tacchino a cui un undicenne sta dando la caccia, mentre nel racconto A View of the Woods («La veduta del bosco») Cristo è reso in figura dal bosco, in cui i «pini, visti di fianco avevano l’aria di camminare sull’acqua (woods which appare at both ends of the view to walk across the water)» .
Una volta la scrittrice si trovò a cena da Mary McCarthy, altra nota penna dei suoi anni, che le disse di considerare l’Eucarestia solamente come un «simbolo». La risposta della O’Connor fu netta, come testimonia una lettera ad «A.»: «Be’, se è un simbolo, che vada al diavolo (Well, if it’s a symbol, to hell with it)». Dunque il mistero dell’esistenza nella pagine della O’Connor si manifesta non per evanescenza o leggerezza o per puro rinvio o comunque per sottrazione di materia, cioè in maniera impercettibile, ma sotto forma di materia più densa.

Il mistero espansivo del mondo
Il secondo livello è la visione dell’infinito come mistero espansivo del mondo. La O’Connor punta al mistero. La sua visione del reale, pur concretissima, non è mai da école du regard, cioè scuola di uno sguardo algido e sterile. La narrazione ha per lei sempre un carattere «espansivo», e lo sguardo dello scrittore è fecondo, pregno, capace di far maturare i semi di mistero che è in grado di cogliere. Lo scrittore dunque è chiamato ad avere una visione «anagogica» della realtà, cioè capace di accorgersi che in un’immagine o in una situazione sono in gioco i diversi livelli del reale. La O’Connor intende richiamare lo schema dei commentatori medioevali della Sacra Scrittura, che rinvenivano nella lettura i sensi «letterale», «morale» e «anagogico». A suo giudizio lo scrittore deve far propri questi tre livelli di lettura del mondo e la conseguente «prospettiva ampliata della scena umana».
Dunque in un buon romanzo «accade sempre di più di quanto riusciamo a cogliere sul momento, accade di più di quanto salti all’occhio (more happens than meets the eye)». Il more tende all’infinito, alla inesauribilità. Lo scrittore prima vede in maniera superficiale, ma «la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata». In questa tensione di approfondimento visivo lo scrittore se ne sta a «fissare senza andare subito al dunque. Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro (The longer you look at one object, the more of the world you see in it)». Nello sguardo di chi scrive deve esserci «un granello di stupidità (a certain grain of stupidity)», che lo conduca a rimanere come «imbambolato (to stare è il verbo usato)» . E’ proprio così che prende corpo un profondo senso dell’ascolto, del rispetto e dell’obbedienza nei confronti della realtà e del «mistero della nostra posizione sulla terra (the mystery of our position on earth)».
A questo livello si colloca il senso dell’imprevisto o, addirittura, del grottesco perché nella storia narrata può accadere di tutto. La violenza gratuita, il bizzarro e il grottesco, misto di comicità e orrore, sono uno strumento conoscitivo, una lente di lettura. Essi sono funzionali alla forzatura, anche teologica, dello sguardo di un lettore duro d’orecchi e di vista debole. È come se la scrittrice desse uno schiaffo al lettore, scompigliando la sua intenzionalità visiva nel momento in cui sposta il volto, angolandolo di sbieco. Un vero e proprio shock apocalittico. Ciò che salta subito per aria è quel «buon senso» vagamente laico, razionale e illuministico degli «intellettuali» (per i quali la O’Connor con ironia dispregiativa usa il termine interleckchuls invece che intellectuals, come si dovrebbe in lingua inglese) che  tanto ammorba la vera ispirazione.
Basti pensare a un racconto quale The Lame Shall Enter First («Gli storpi entreranno per primi») per cogliere tutta l’antipatia per l’illuminismo umanista. Il protagonista è il direttore del Centro ricreativo comunale, un tal Sheppard che il sabato lavora senza compenso al riformatorio. È vedovo con un figlio, Norton, che a suo parere è fondamentalmente egoista. Un giorno Sheppard decide di accogliere in casa Rufus Johnson, un ragazzino che era stato nel riformatorio e che egli aveva desiderio di redimere. Imbevuto di nozioni psico-sociologiche e di un umanitarismo filantropico, è convinto che il male possa essere vinto con un’educaziona laica capace di sviluppare l’intelligenza. Johnson però non fa che sfuggire dai suoi schemi e ciò avviene in pagine splendide che toccano i nervi della condizione umana. Johnson coinvolge in questa sua ribellione anche Norton. Sheppard ne uscirà sconfitto. Anche il romanzo Il cielo è dei violenti presenta una dinamica simile. L’ironia per gli interleckchuls spinge la O’Connor anche ad affermare che la mente che sa apprezzare meglio un romanzo non sarà la più istruita, ma quella disposta «ad approfondire il senso del mistero attraverso il contatto con la realtà, e il proprio senso della realtà attraverso il contatto con il mistero (to have its sense of mystery deepened by contact with reality, and its sense of reality deepened by contact with mistery)» .
Nel saggio Novelist and Believer («Narratore e credente»), il vizio della cultura che ha eliminato il mistero e ha addomesticato la disperazione, non è affatto l’ateismo di uno Steinbeck, quanto piuttosto è reso concreto da coloro che ammettono l’esistenza di un essere divino che non ha niente a che fare con la materia e con la storia, che dunque non può essere conosciuto analogicamente o ricevuto sacramentalmente. Allora davvero l’uomo sarebbe costretto a vagare cercando di raggiungere un Dio che non può avvicinare, un Dio impotente ad avvicinarlo. Il campo semantico della parola «mistero» per la O’Connor non è affatto quello che comprende anche termini come vago, indistinto, impreciso, indeterminato…

Il dramma della libertà
Il terzo livello è l’infinito come dramma della libertà. L’argomento principale della narrativa della O’Connor è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo (the action of grace in territory held largely by the devil)» . È il dramma a far «funzionare (to work)» le storie. Il dramma qui essenzialmente è quello dell’accettazione o del rifiuto della grazia: c’è un momento, in una buona narrazione, nel quale si può avvertire la presenza della grazia come in attesa di essere accettata o rifiutata, anche se il lettore può non coglierlo. La scrittrice riconosce che i propri racconti parlano «dell’azione che la grazia esercita su un personaggio poco disposto ad assecondarla (about the action of grace on a character who is not very willing to support it)». I suoi personaggi spesso conducono una vita misurata, nella quale ogni cosa è al suo posto. Essi hanno costruito delle barriere di difesa che solo la violenza può demolire. La grazia non ha i tratti candidi e amorevoli che le si attribuiscono normalmente, non sempre è gentile. Per agire «in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo», a volte, essa deve essere violenta. Scrive la O’Connor in una lettera del 4 febbraio 1960: «Sono giunta al punto di pensare intensamente circa il modo di presentare l’amore e la carità, o sarebbe meglio ancora dire la grazia; l’amore suggerisce tenerezza, mentre la grazia può essere violenta o potrebbe dover competere con il tipo di male che io posso concretamente compiere».
Insomma la grazia non è «graziosa», e gli effetti della sua presenza sembrano essere non un miglioramento della bontà delle persone, ma paradossalmente perfino un deterioramento. Spesso i personaggi della O’Connor hanno davanti solo due strade: la profezia o il fallimento. E spesso la profezia si abbina, biblicamente, a una sorta di pazzia, a uno squilibrio fondamentale e fondante. Scrivendo a suor Mariella Gable il 4 maggio 1963, la scrittrice spiega la sua predilezione per predicatori fanatici e profeti selvatici (backwoods prophets): «Secondo molti protestanti che conosco, i monaci e le suore sono fanatici, e della peggior specie. E secondo molti monaci e suore che conosco, i miei profeti protestanti sono fanatici. A mio modo di vedere, l’unica differenza fra costoro è che se sei cattolico e credi con tanta intensità, entri in convento e nessuno sente più parlare di te; mentre se sei protestante e credi con altrettanta intensità, non puoi entrare in nessun convento e te ne vai in giro per il mondo a ficcarti in ogni sorta di guai, attirandoti sul capo le ire di chi non crede più a niente. È anche per questo che mi riesce meglio scrivere dei credenti protestanti che di quelli cattolici: perché esprimono la loro fede in varie forme drammatiche di un’evidenza per me abbastanza facile da cogliere».
Questo genera una narrativa che la O’Connor definisce strange e forse anche perverse: non offre nessun ritratto delle esperienze religiose a noi familiari, pur rimanendo sempre «cattolica». Così nell’ambito della visione anagogica esiste un significato della violenza che lo lega direttamente al mistero della grazia. Infatti l’avvenimento della grazia non è estraneo alla natura, ma è pur sempre un irrompere nella vita dell’uomo di una realtà differente rispetto ai suoi criteri. La libertà che accetta la grazia implica un salto, un risveglio repentino o brusco. La violenza, per la O’Connor, rende possibile questo passaggio e prepara all’affermarsi della grazia.
La O’Connor dunque è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dell’incisività della grazia. I suoi personaggi sembrano a ogni istante sul punto di compiere qualunque azione. L’uomo del Novecento invece, figlio del determinismo storico e psicologico, si aspetta invece azioni coerenti: dal libertino azioni libertine, dal devoto azioni pie, dal filantropo azioni buone, e così dal cattivo azioni malvage. Nelle opere della O’Connor questo determinismo è infranto in radice, e i personaggi sono tutti allineati all’assoluto principio di tutte le loro possibilità. Così la salvezza può venire da un assassino o l’egoismo massimo scaturire dal filantropo umanista. A dare azione a questa dinamica è la presenza della grazia, appunto: per far «funzionare» un racconto quanto occorre è «un’azione assolutamente inattesa, eppure assolutamente credibile, e ho riscontrato che, nel mio caso, essa indica sempre l’offerta della grazia. E spesso è un’azione della quale il diavolo è stato strumento involontario di grazia». Per la O’Connor la scrittura è il terreno nel quale viene concepito il dramma della libertà e delle sue infinite possibilità che si confronta col mistero della grazia che è in-finito in quanto sempre in-atteso e im-prevedibile.

***

Ecco quindi le tre modalità nelle quali la O’Connor concepisce l’infinito nella sua narrativa: come infinita trama del finito, come mistero espansivo del mondo, come dramma della libertà e delle sue infinte possibilità che si confrontano con l’imprevedibilità della grazia. Esiste un modello preciso, un modello in cui l’assoluto è stato reso concreto: la Bibbia. Anzi, la scrittrice è convinta che nulla garantirà il futuro della narrativa cattolica quanto la rinascita della tradizione biblica. La nostra «reazione nei confronti della vita (response to life)» sarà ben diversa, insomma, «se ci hanno inoculato soltanto una definizione della fede o se abbiamo tremato insieme ad Abramo che levava il coltello su Isacco (if we have been taught only a definition of faith than if we have tremule with Abraham as he held the knife over Isaac)». Soltanto il racconto biblico può arricchire l’immaginazione e far crescere in capacità di intuizione profetica. Purtroppo, lamenta la O’Connor, nonostante la lettura nella liturgia e in altre occasioni, non siamo «completamente subordinati (totally dependent)» alla Sacra Scrittura ed essa «non ha fatto breccia nel profondo della nostra coscienza, né condizionato le nostre reazioni all’esperienza (it has not penetrated very far into our consciousness nor conditioned our reactions to experience)». Nel testo biblico troviamo non soltanto le forti tensioni che sono alla base della narrativa della grande scrittrice americana, ma anche quella visionarietà insieme ricca e sobria che è una delle caratteristiche più evidenti della sua prosa. Ma innanzitutto la Bibbia fa ciò che dovrebbe fare, a giudizio della O’Connor, ogni scrittore: rendere concreto l’assoluto e approfondirne il mistero, come è incarnato nella vita umana.

Leggi i 3 commenti a questo articolo
  1. manuela ha detto:

    Su quali basi la Ragione opera nel racconto?

    Su Bombacarta nel commento,ringraziano tutti, ,lo faccio anch’io Antonio di tutto cuore quello che hai scritto è una traccia preziosa per capire sul mistero di scrivere, su ciò che afferma Flannery O’ Connor “nel territorio del diavolo”:

    ” Molta della mia narrativa trae il suo carattere da un uso ragionevole dell’irragionevole, sebbene la ragionevolezza del mio uso possa non risultare sempre evidente; tuttavia gli assunti posti a fondamento sono quelli dei principipali misteri cristiani.
    Mi sono sempe chiesta cosa faccia funzionare e tenga insieme un racconto e sono giunta alla conclusione che probabilmente si tratta di qualche azione, di qualche gesto che segnala dove pulsa il cuore del racconto.
    Un gesto che trascenda qualunque allegoria esistente, almeno nell’intenzione, e qualunque scontata categoria morale alla portata del lettore.
    Dovrebbe essere un gesto che in qualche modo stabilisca il contatto con il mistero”

    Correggimi se sbaglio, sono qui per imparare.
    Grazie

  2. Annamaria ha detto:

    Per antonio Spadaro: Scusa fin d’ora se la domanda suonerà ingenua: Che cos’é il diavolo? E in particolare in Flannery O’Connor “il territorio del diavolo”? Ho bisogno di una una risposta esaustiva e comprensibile anche per non cattolici. E’ possibile?

  3. Carlo ha detto:

    Grazie Antonio, testo stupendo e illuminante!

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