Addio a «Letture» – Cosa ci si aspetta da una rivista letteraria? (2)

Proseguono le interviste sull’ultimo numero di Letture per rispondere alla domanda: cosa ci si aspetta da una rivista letteraria?

Giulio Mozzi si definisce «doganiere» – ma gli sfugge un più esplicito «Caronte» – perché traghetta nuovi autori nel mondo non proprio aperto dell’editoria. Mozzi, tra le altre cose, ha alle spalle l’esperienza del bollettino informatico Vibrisse, cominciato come una mail inviata ad alcuni amici, evolutasi poi in un blog (vibrisse.wordpress.com) da cui ha prenso il via la casa editrice in rete Vibrisselibri.

Il motto di vibrisselibri è “La carta non è tutto (ma aiuta)”. E per quanto riguarda le riviste culturali? hanno ancora ragione d’essere su carta?
«Non solo hanno ragione di essere, ma sono fondamentali, perché la capacità d’influenza delle riviste in rete è ancora molto modesta e risente dell’essere confinata. Perché, mentre chi opera nella rete è molto attento alle pubblicazioni su carta, non si può ancora dire che avvenga  il contrario. Per adesso fare cultura sulla rete consiste soprattutto in un lavoro di contorno, cioè di commento e di approfondimento alle notizie presentate per lo più attraverso cioè che è pubblicato. Il prodotto su carta è più forte, più convincente, più autorevole per il fatto stesso di essere stampato e quindi di sostenuto economicamente. Al momento – almeno per quanto riguarda l’Italia – non vedo alternative reali: bisogna prenderne atto. La differenza effettiva tra le pubblicazione su carta e quelle in rete, è che quest’ultime – se ben gestite – riescono a riunire una sorta di comunità, della quale è difficile valutare la consistenza, la tensione, la forma… ma che comunque è una comunità, capace di reagisce e in grado di farsi ascoltare. Essendo, nel nostro Paese, ancora marginale il lavoro in rete, credo che esista anche lo spazio commerciale per riviste di cultura e in particolare di letteratura. Uno spazio che si è tentato di riempire tante volte senza riuscirvi; solo L’Indice dei libri del mese è riuscito ad affermarsi stabilmente. E si è affermata come “rivista di servizio”, che contiene cioè notizie e recensioni utili, fatte con sempre con uno stesso stile riconoscibile. Una rivista che prende delle posizioni chiare. Queste due caratteristiche, io penso, rendono forte una rivista culturale».

Quali contributi può dare il web allo sviluppo di “laboratori culturali”? Il bollettino vibrisse che hai diretto dal 2000 ha registrato forti effervescenze e alcune sue firme si sono affermate negli anni seguenti…
«Quello del laboratorio è un aspetto proprio soltanto di alcune esperienze in rete. Ce l’ha Nazione Indiana (www.nazioneindiana.com), ad esempio, ma non ce l’ha per nulla Il Primo Amore (www.ilprimoamore.com): elabora pensieri, ma non cerca attivamente forze nuove per le letterature. Viceversa, Nazione Indiana ha una maggiore apertura e un maggiore ricambio, subisce l’effetto di una progressiva perdita d’identità, ma ha il grandissimo pregio di permettere la pubblicazione a persone che sono ancora, in quel momento, dei perfetti ignoti; e questo è bello e importante».

Qual è quel qualcosa in più che ci si aspetta dalla rivista, rispetto alle pagine culturali dei quotidiani?
«Non dimentichiamo che le così dette pagine culturali dei giornali sono poche e spesso piuttosto casuali. Il Corriere della Sera, ad esempio, presenta diversi libri al giorno, ma non è affatto chiaro secondo quale logica vengono scelti alcuni titoli piuttosto che altri. Una rivista, invece, ha bisogno di una continuità: un inserto settimanale come Tuttolibri non si rende riconoscibile e identificabile, se non per alcuni servizi di apertura sbarazzini. Molto più interessante La talpa libri all’interno di Alias, dove chiaramente una linea c’è e la si riconosce: si capisce con chi si ha a che fare, e quindi se interessa o no. Ha un gusto che non condivido, ma è ben fatta. Chelibri mi sembra del tutto casuale. La Repubblica parla solo di chi è già famoso e dimostra scarsa innovazione. Il Giornale ha diverse cose interessanti, anche se, forse, costruite un po’ sull’esigenza di distinguersi. Il Foglio, invece, esprime una forte identità anche attraverso l’aspetto quantitativo, ossia la lunghezza degli articoli – come pure i paginoni del Manifesto. Perché se vuoi fare un discorso servono articoli abbondanti, non ritagli o notiziole in minigonna. Come servono pure interviste ampie, dialoganti, non promozionali o limitate al domanda-risposta. Questo per quanto riguarda le pagine culturali. Delle riviste vere e proprie, invece, consiglio L’Indice dei libri del mese, The New York review of books, Il Caffè; Chelibri va visto nonostante tutto; e, dopo queste, si passa a riviste accademiche come Lingua e stile. Delle riviste in rete, oltre a quelle di cui abbiamo parlato – Nazione Indiana, Il Primo Amore, Vibrisse – vorrei nominare anche Zibaldoni e altre meraviglie (zibaldoni.it). E poi ce ne sono una tale miriade che faccio fatica a seguirle».

Trovi qualche differenza significativa tra il nostro panorama delle riviste e quello all’estero?
«In Francia ci sono alcune pubblicazioni molto lette che sono editate da grandi firme del giornalismo culturale stampato – gli equivalenti di un D’Orrico, ad esempio. Rispetto al campo anglosassone, ci manca completamente quella cosa meravigliosa che è la rete delle riviste letterarie universitarie. Prendiamo ad esempio le riviste letterarie dell’Università di Chicago o di Minneapolis: sono interessanti, leggibili, palestre dove scrivono studenti, dottorandi, ex-allievi, professori… Veri laboratori, insomma, la cui validità è riconosciuta all’esterno: alcune case editrici anglosassoni non prendono in considerazione un autore se non ha già pubblicato su almeno tre di queste riviste. Pensiamo che all’incirca la metà della saggistica tradotta da Einaudi proviene da testi editati dalle university press. In Italia tutto questo non avviene perché mancano case editrici proprie, interne alle università. Così che abbiamo moltissimi editori privati, anche di scarsa qualità, che si occupano di pubblicare i libri per conto delle università e li vendono a prezzi proibitivi. E perché non sono le università stesse a pubblicare, ad esempio, i libri per la preparazioni dei propri esami, invece di affidarli a terzi? Se le università italiane disponessero di case editrici proprie, avrebbero una fonte di guadagno da utilizzare, certificherebbero la qualità dei testi, e sicuramente questo li renderebbe più autorevoli e quindi di influenti».

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