Alla ricerca del lupo

copertina lupoDall’Introduzione: Lo scrittore è una terminazione nervosa scoperta a contatto col mondo: sentendo, fa sentire tutti. Non spiega. Sente e fa sentire. Trasforma la sua esperienza del reale in narrazione, le persone che incontra o immagina in personaggi, la vita in un racconto. Lo scrittore è un nervo scoperto, capace di sintonizzarsi sul reale per trasfigurarlo sulla pagina. Un autore che non corrispondesse a questa immagine, infatti, potrebbe essere solamente o un ideologo (nel senso che saprebbe trasformare l’esperienza in idea) oppure un sentimentalista (capace di ascoltare non il mondo, ma solo le proprie viscere).

Il problema a questo punto si pone quando la letteratura diventa discussione sul mondo o quando lo scrittore resta talmente avvinto al mondo presente, da essere incapace di parlare di esso. Se gli scrittori non riescono a trasformare la loro esperienza in scrittura, allora semplicemente essi scrivono, senza essere «scrittori». Mentre lo scrittore racconta storie in grado di spremere la vita e di metterla sotto torchio. Che cosa fa sì allora che una fiction sia di valore? A mio parere l’esatto contrario di ciò che scriveva Montale nel suo celebre verso Non domandarci la formula che mondi possa aprirti. Il romanzo di valore possiede in se stesso la formula capace di aprire un mondo, il che significa «spremere» la realtà cogliendone la sostanza (in senso letterale: ciò che sta sotto, a suo fondamento), ma anche assistere alla sua espansione, alla sua «dichiarazione», per usare ancora un termine di Montale. Se un romanzo non dichiara un mondo e non lo spalanca davanti al lettore –  non importa se in modo realista, o surrealista – non fa compiere al lettore una vera esperienza, non fa conoscere nulla: è vuoto e noia.

Ecco invece il rischio: che l’immaginario venga plasmato più dalle idee sul reale che da una robusta invenzione della realtà. Il romanzo, come la poesia, del resto, chiede ai nostri sensi di riattivarsi per penetrare capillarmente ciò che ci circonda. Se questa riattivazione non avviene, si finisce solo per raccontare idee e non storie. Per nobilitare il prodotto allora non basta solamente esaltare il romanzo come esperimento linguistico, come fanno alcuni scrittori. Questa è la vera morte del romanzo: la riduzione a ideologia o a esperimento linguistico.

Occorre dunque «inventare» il reale. Ciò non significa meditare una pura evasione: significa invece ricreare il mondo in termini di scrittura. Ma per far ciò occorre partire proprio dal reale perché, come scriveva Flannery O’Connor, «la caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose». Tutto dunque è questione di sguardo.

Il critico allora è chiamato, innanzitutto, a discutere con l’autore il suo rapporto con la scrittura, la natura della sua condizione di scrittore, la sua idea di realtà. Allora il critico svolge un «lavoro umano», che impegna, che costa fatica e sudore, che compromette chi lo esercita al livello dei significati profondi dell’esistenza e dell’anima umana. La critica, come ha scritto il critico Emanuele Trevi, diviene una «questione di lupi»: il «lupo» è il nostro destino, la verità della nostra vita, che spesso ci fa paura. La critica, dunque, dovrebbe abitare su un discrimine incerto, su una zona di confini sempre mutevoli. Liberandosi dalle spire stringenti della linguistica e della semiologia, degli approcci metodologici e settoriali, la critica letteraria può diventare un «esercizio spirituale dalle possibilità immense».

Per uno scrittore non basta fare dei buoni libri, e così per un critico non basta costruire analisi. Occorre instaurare un rapporto diverso con la realtà e non finire per essere troppo attenti al carpe diem, poco attenti invece alla verità della vita, totalità indivisibile di bellezza, dolore, morte, segreto, ironia, sentimentalità, smarrimento: «i libri si leggono con la saggezza oppure con il batticuore», non ci sono alternative.

Dunque il critico letterario non può limitarsi a costruire analisi: «i libri si leggono con la saggezza oppure con il batticuore», non ci sono alternative. Il critico, soprattutto quello militante, attento alle «novità», allora dovrebbe stare attento al «mondo», attribuendo, con il lavoro di discernimento critico, parole e «dignità culturale» alla saggezza o al batticuore. La soggettività viva del critico – che è e rimane innanzitutto un lettore e a questa «categoria» essenzialmente appartiene – deve per necessità essere attraversata e coinvolta.

Ci ritroviamo nel territorio dell’«esercizio spirituale». La grande tradizione spirituale infatti è stata sempre attenta nell’esperienza del leggere la «saggezza» e il «batticuore». Un esempio efficace è rappresentato dalla esperienza della lettura vissuta da Ignazio di Loyola, esperienza che ha alla radice della propria valutazione la verifica di ciò che si prova dopo aver chiuso il libro, l’analisi di quali movimenti affettivi (piacere, stanchezza, aridità, tristezza, consolazione, contentezza, allegria) registra la vita di chi legge. Occorre in questo senso far memoria delle parole che Carlo Cassola scriveva nel ‘73: «il criterio per giudicare un’opera letteraria è molto semplice, anche se irrimediabilmente soggettivo. Se leggendola, se dopo aver finito la lettura, sentiamo un accrescimento del tono vitale; se ci sentiamo più attaccati alla vita: allora vuol dire che in quell’opera c’era la vita, c’era cioè la poesia. Se al contrario una lettura ci lascia diminuiti, depressi, svuotati, nauseati, allora vuol dire che la poesia non c’era, che la vita non c’era»9.

Questo legame tra vita e letteratura è aperto sul passato sia dal punto di vista del lettore sia da quello del critico: la lettura – che è sempre lettura di ciò che è «già» stato scritto – è la base per la narrazione e con la lettura lo è anche la coscienza di essere immersi in un ambito di tradizioni linguistiche e di stile che vanno considerate con cura, in atteggiamento di dialogo e confronto. Con la coscienza della tradizione e l’immersione nel presente è possibile avere delle prospettive progettuali, non appiattite sull’attuale, ma anche antitetiche nei confronti della stessa contemporaneità. Si tratta della capacità di porsi di fronte alla scrittura come «laboratorio», dove il lavoro sulle «sudate carte» compromette chi lo esercita al livello dei significati profondi dell’esistenza. Il compito di una critica illuminata, disposta a mettere in gioco le cose che scrive, consiste dunque in un attento lavoro di discernimento. Poste queste fondamenta, il critico militante non può perdersi dietro a problemi quali il peso del plot o la modernità della lingua. La letteratura è «atto di senso». Anche per questo compare in queste pagine la figura di un autore di canzoni, Chris Cappell: la sua esperienza biografica racconta quanto la vita abbia bisogno di storie che la raccontino, sebbene contenute nel breve spazio di un testo per la musica.

Allora una forma adeguata di critica militante è costituita dall’elaborazione di «percorsi di lettura»: si tratta di una modalità fortemente propositiva e progettuale in quanto, nella ricognizione critica il «paesaggio» letterario, costruisce ipotesi che seguono l’avventura dei libri come tasselli di un mosaico. Il critico infatti non può e non deve fare a meno dello sguardo globale, delle prospettive ampie, grandangolari sul panorama letterario; non può esimersi dalla necessità di guardare nell’ottica del «paesaggio», della mappa geografica. Essa è da intendersi come «spazio critico», ed è dunque qualcosa di più di un itinerario: c’è il rapporto ad una totalità, ad una globalità. La via criticamente rilevante dei «percorsi» rende ragione della sensibilità e della temperatura delle scritture contemporanee, rintracciando e segnalando in questo modo, in un contesto ermeneutico preciso, quelle che si ritengono maggiormente valide. In tal modo si presenta implicitamente come una buona alternativa agli usuali «premi letterari» che spesso puzzano di salotto e di polemiche inutili. Occorre soprattutto ricordare che fissarsi sullo scoop e su ciò che fa tendenza, valutare solo ciò che fa più rumore significa avere della realtà una visione parziale ed effimera.

Le mappe danno il gusto dei percorsi in biblioteca, percorsi guidati, ovviamente, e qui emerge il vero ruolo del critico: non quello del giudice, appunto, ma quello della guida (Caronte o Virgilio che sia), dell’accompagnatore o, se vogliamo della talpa che scava il terreno e costruisce strade sotterranee. Questo non significa «etichettare», ma offrire delle rotte costruendo un «paesaggio».

In quest’ambito critico-progettuale è possibile indagare l’idea di realtà che muta. Per cui, il critico che cosa chiede allo scrittore? Vorrebbe, innanzitutto, discutere con lui il suo progetto di letteratura, il suo rapporto con la scrittura, la natura della sua condizione di scrittore, la sua idea di realtà, rispettando l’individualità del suo percorso. È necessario capire l’orizzonte da cui nasce un testo, perché nasce in quel modo, quali sono le sue radici. Da qui sarà possibile tracciare le mappe e i percorsi, fatti anche di ascendenze, modelli, radici e, senza dubbio, anche di rami e di nuovi sentieri.

Se si accetta questa linea critica, occorre assumere l’abito della pazienza, che consiste nell’aspettare che il romanzo scompaia dalla scena della chiacchiera dell’oggi. Solo con la mediazione del tempo si potrà dire se un romanzo sia «attuale» o è solo un gioco combinatorio. Questo non significa evitare il giudizio e la compromissione. Un critico militante ha il dovere di emettere giudizi complessivi, negativi o positivi e deve avere il coraggio di scegliere, e di dichiarare le proprie scelte. Tuttavia l’emettere un giudizio non è la causa finale vera e propria del lavoro critico, ma è al più un dato che emerge quasi spontaneamente, anche se in modo non definitivo, dal lavoro di confronto e di discernimento sulle radici e l’orizzonte di un’esperienza letteraria che si avverte come riuscita o meno. Il primo compito del critico è quello di essere interprete e dunque «accompagnatore», non innanzitutto giudice.

E questo è il senso delle pagine che seguono: una stanza con quattro pareti sulle quali sono appesi «quadri» di differente valore e dimensione: a volte offro la narrazione di una storia, altre volte appendo alla stessa parete più quadri di uno stesso autore, presentandoli come una unità organica […]

Feltrinelli

Leggi i 4 commenti a questo articolo
  1. marco ha detto:

    Sono parole molto dense, che andrebbero masticate a fondo e collocate su quell’orizzonte aperto e misterioso che è l’esperienza della lettura, a tutti i livelli (a contatto con il mondo, noi ci rapportiamo alla vita leggendola – leggere un libro è un po’ come simbolizzare e ogni volta cercare le radici di questo fatto).

    La dimensione sapienziale della vita e della lettura sono strettamente collegate. La fede cristiana ha espresso nell’icona dei “due libri” (la creazione e la Bibbia) questa verità. Ma è un’esperienza che ha le sue radici nell’invenzione stessa della scrittura.

    Purtroppo non si capisce quali sono le fondi che Antonio cita: ci sono i numeri ma non il rimando. Chi ha detto: “un esercizio spirituale dalle possibilità immense”? E’ una frase veramente bella.

    Grazie.

  2. andrea monda ha detto:

    domanda: ma la saggezza e il batticuore di cui si parla solo alternativi tra loro? sembra di sì visto che li divide la parola “oppure”.. e quindi: che differenza c’è? la saggezza è l’intellettualismo che inaridisce il testo della sua forza vitale? (al contrario del batticuore?), o il batticuore è quel sentimentalismo che non permette di comprendere la vera forza “multi-level” del testo? spero di essere stato chiaro.. e attendo risposta.

  3. chiara ha detto:

    io leggo saggezza e batticuore come i nostri due mondi interni, uno più di testa e uno appunto di cuore, viscere o pancia che sia; due parole per aprire due mondi, magari possono essercene altri, due che abbiamo sempre grossomodo riconosciuto al nostro interno.Allora per forza non c’è opposizione nell’oppure, saggezze e/o altro, arguzie e emozioni; è già tanto se riusciamo a distinguere, penso, vedendo quello che è dentro di noi sempre tanto mischiato. ch

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