Cinquanta pagine

Andrew Rutt: Nude Truth at the Biblioteca Angelica

Andrew Rutt: Nude Truth at the Biblioteca Angelica

Qualche settimana fa, in un mercatino del libro usato, mi sono trovato davanti agli occhi una bella edizione Einaudi de L’urlo e il furore (titolo originale The Sound and the Fury) dello statunitense William Faulkner e non mi sono fatto sfuggire l’occasione. Il libro mi era stato calorosamente raccomandato da almeno cinque persone diverse, tutti lettori duri del cui giudizio tendo a fidarmi.
Mi sono accostato alla lettura concedendo ampio credito a quello che mi si presentava come un classico a botta sicura. Pagina dopo pagina, però, il credito è andato consumandosi fino a esaurirsi del tutto. Il libro non mi ha coinvolto in alcun modo: non uno spunto narrativo di interesse, non una descrizione memorabile, non un personaggio a cui affezionarmi. Continuavo ad imbattermi nelle voci dei fratelli Compson, Benjy, Quentin, Caddy e Dilsey, senza riuscire a distinguerli e in ogni foglio era come incontrarli per la prima volta.
Morale: a pagina cinquanta ho mollato il libro. Solo un paio di anni fa l’autorevolezza del grande classico mi avrebbe trascinato in fondo al romanzo, il senso di colpa circa la mia inadeguatezza come lettore avrebbe prevalso sulla totale assenza di interesse… ma oggi non più. Cinquanta pagine è il mio limite: se in cinquanta pagine il libro non mi ha agganciato in alcun modo, passo al successivo. È una tara che ho voluto fissare anche per rispetto verso tutti gli altri libri del mondo che stanno lì fuori ad aspettare.
Sbaglio? Corro un alto rischio di perdermi qualcosa di bello o cinquanta pagine sono un numero sufficiente per elaborare un giudizio attendibile?

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  1. Paolo Pegoraro ha detto:

    Curioso… pensavo al tuo post contro la letteratura elettronica teso a salvare il peculiare “clima” della lettura. Di fatto, però, tutti ci scontriamo con la ristrettezza dei tempi di lettura, ma questa stessa ristrettezza non ci è imposta da parametri di vita sempre più informatizzati?

    Non si può perdere tempo con qualunque pubblicazione, d’accordo, ma ci sono libri con i quali bisogna ingaggiare battaglia. Alcuni autori prima li maledici, poi li ami. Un testo che mi resiste è l’unico che può introdurmi in una esperienza di lettura del tutto inedita. Piacevole o spiacevole, ma per me del tutto nuova.

  2. Emanuela Scicchitano ha detto:

    Perché bisognerebbe imporsi di leggere un libro che induce noia fino al punto di abbandonarlo dopo 50 pagine? Non è necessario ricordare le riflessioni di Eco per concordare sul fatto che è nei diritti del lettore adottare, abbandonare, far decantare una lettura secondo i propri istinti e gusti letterari. L’incontro con un libro segue le stesse modalità relazionali fra le persone: perché dunque nella brevità dell’esistere “ingaggiare battaglia” per farci piacere un libro? e cosa ci garantisce che esso possa introdurci in una esperienza inedita? solo il fatto che esso sia per me “nuovo”? o perché è un classico? la novità non è sempre latrice di positività; la classicità è spesso latrice di noia come ci dimostra l’imposizione a scuola di romanzi (il caso dei “Promessi sposi” è emblematico) che spesso vengono odiati solo perché sentiti come “necessari” e non come “piacevoli”. D’Annunzio rivendicava che è nel piacere e nella gioia che risiede la più autentica forma di conoscenza: vale per i libri e per le persone.

  3. Federico Cerminara ha detto:

    50 pagine,80, 100… Chissà, forse prendendo in considerazione il numero di pagine del libro, il numero di autori, l’anno di pubblicazione, la casa editrice, e mettendo su un bel sistema di m equazioni con n variabili … naaaa, non funziona. Io credo piuttosto che non esista una soglia ideale. Più interessante è il quesito che sta a monte, la domanda che ciascun lettore, credo, si è posto prima o poi. Esiste un qualche vincolo morale che mi impone di portare a termine un libro che non mi piace? Se lascio il romanzo in sospeso prima della parola fine, sto tradendo una qualche sorta di “onestà intellettuale”?
    Aldilà della filosofia, aldilà dei pareri imponenti e importanti di Eco o Pennac al riguardo, credo che sia e rimanga una scelta personale. Io ho scelto di arrivare fino in fondo. Ma non era certo la curiosità del finale, o la speranza di una ripresa improvvisa a spingermi verso la parola fine. È che quando penso ad un libro, non riesco a non immaginare tutto l’universo di storie, persone e situazioni che contiene e credo che impendendo a queste cose, persone, situazioni di attuarsi fino in fondo, impedirei alla magia del narrato, anche quello mediocre e non coinvolgente, di attuarsi nella sua completezza. Mi viene in mente l’incipit di una vecchia canzone dei CCCP, il titolo è “Mi ami?”, il testo, beh tu lo conosci …

  4. Sergio P. ha detto:

    Il libro mi è stato regalato un anno fa e dopo 5 pagine (pagina più pagina meno, non ricordo esattamente) l’ho mollato. Senza problemi.
    E non perchè non si debbano leggere certi libri. Il punto è un altro: leggerli nel momento giusto. A mio avviso il momento giusto è quando un contenuto (per es. di un libro) trova spazio nel bisogno di un lettore.
    Come il bisogno è un’esigenza personale, allo stesso modo anche il criterio di giustezza (50 pagine bastano? dici) è personale. Nessuno può dirmi quanto devo leggere. Perchè il punto non è la quantità delle pagine ma il senso che si sviluppa da quelle pagine nella testa di un lettore. Se nel lettore si sviluppa solo un’idea e cioè “che palle questo libro”, allora solo due cose: primo, chiudere il libro. Secondo chiedersi perchè quel libro non è piaciuto. Solo in questo modo un libro non bello, cioè che non ci è piaciuto al primo impatto, può tornare ad essere interessante per noi.

  5. Florinda Realacci ha detto:

    Il lettore è protagonista indiscusso di ciò che offre in pasto alla propria mente.

    Scegliere è libertà e dunque è capacità di sfuggire ai vincoli: si è liberi di scegliere cosa leggere nonché di scegliere se continuare a leggere.

    Con il passare del tempo può accadere che cambino gli interessi ed il modo di vedere le cose: tempo fa non avrei esitato un attimo a lasciare incompleta la lettura di un libro qualora esso non avesse catturato la mia attenzione, sia che di questo mi fossi resa conto alla pagina 20, 30, 40, 50 o addirittura a meno 30 pagine dalla fine. Attualmente, invece, mi impongo di andare aventi lo stesso: se il libro, al termine, non mi sarà piaciuto esso comunque mi avrà arricchita. Come? Offrendomi lo spunto per parlarne e per capire attraverso l’altro e con l’altro perché la lettura a me è risultata noiosa, incomprensibile, sgradita, faticosa… È da qui che parto per trasformare la mia critica al libro in autocritica: sono stata io a non averlo compreso e perché? Per disattenzione, per limitate conoscenze personali, per mancanza di sensibilità verso l’argomento trattato? E sempre constato che il libro ‘negativo’ per me è il libro più ‘riflettuto’ da me, quello che, più del libro ‘positivo’ ed accattivante, mi porta a considerare non in maniera semplicistica; tanto più che ‘il libro che non mi è piaciuto’ esso diventa ‘il libro che mi è piaciuto poco ma che ho molto ponderato’. Nell’impormene la lettura è normale che essa mi divenga ancora più noiosa, ma riesco a vincere la noia solo perché spinta dalla curiosità, mista a paura, di scoprirmi non all’altezza di essa, perché spinta dalla voglia e dalla necessità, se la paura si rivelasse fondata, di adeguare me stessa. Il libro ‘no’ diventa il libro da non consigliare per quei 10, 20, 30 ‘perché’… che puntualmente sono in gran numero superiori rispetto ai ‘perché’ che in genere mi portano a consigliare il libro che mi è piaciuto e questo accade semplicemente perché quest’ultimo, appagandomi, mi acquieta mentre il libro noioso accende il dibattito che presto si trasforma nel mio processo a quel determinato libro del quale tutto si può dire, tranne che mi sia rimasto indifferente.

  6. Paolo Pegoraro ha detto:

    @ Emanuela: quindi sei d’accordo con Rondoni?
    http://www.controlaletteratura.it/

    Ammetto che non mi riferivo alla scuola, ma a percorsi di lettura maturi come quelli di Maurizio, resi ancora più consapevoli dall’esperienza della scrittura. Per me i migliori maestri (insegnanti, amici, critici, altri scrittori) sono quelli che riescono a comunicare che “vale la pena” leggere certe opere… dicendo chiaro e tondo che c’è da “penare”, perché una dimensione di ciò che leggo non è immediatamente fruibile. Ma dicendo altrettanto chiaro che questa pena mi portato a gustare qualcosa di “valore”…

    Con il tempo ho imparato a ingaggiare le mie battaglie (e non a subirle, come a scuola) e ad aprirmi anche a ciò che non era nelle mie corde. Magari ha continuato a non piacermi, ma per lo più mi ha aperto orizzonti nuovi.

  7. Sergio P. ha detto:

    @ Florinda: e non pensi che dal momento in cui sei entrata in non-sintonia con il libro (insomma dal momento in cui hai evidenza che il libro ti annoia) fino al momento della sua fine sia tempo che puoi mettere a frutto leggendo qualcosa di bello?
    Arrivare comunque in fondo lo considero un atto che ha più a che fare con una dimostrazione di rispetto verso l’oggetto libro o il lavoro dello scrittore che non verso il valore della lettura in sè.
    Sono d’accordo quando parli di critica al libro e di autocritica, e d’altronde un libro che non apre quegli spazi non è un libro che vale la pena di leggere. Non sono d’accordo quando dici che il giudizio negativo apre un maggiore spazio di riflessione di un giudizio positivo. Se differenza c’è è legata al fatto che è più facile parlare di ciò che non ci piace rispetto a ciò che ci piace (non parlo solo dei libri). Perchè ciò che ci piace in fondo ci parla di noi (come quando si dice “sembra scritto per me”, oppure “non avrei potuto dirlo meglio” ecc.) ed è terribilmente difficile parlare di noi. Più facile parlare di ciò che non siamo e che consideriamo altro da noi. Un’altra cosa su cui ho dei dubbi è quando dici che il libro che piace produce un effetto di appagamento-acquietante. Il libro bello è un libro che appaga nel momento stesso in cui apre e mette in luce delle mancanze che sentiamo nostre. O almeno credo.

  8. Florinda Realacci ha detto:

    @Sergio: Potrei mettere a frutto il tempo che dedico al libro che mi annoia in altro modo, certo, ma non è nella mia indole esprimere un pensiero negativo su un qualcosa che non ho terminato, sarebbe una critica incompleta, una critica di una parte del tutto e di conseguenza la lettura parziale non mi consentirebbe di capire dove ‘ho mancato’ io come lettrice e mi condannerei in partenza in quanto ‘lettrice che si è persa per strada’, non vado avanti per rispetto verso il libro e l’autore ma per la curiosità, mista a paura, di cui ho parlato, di scoprirmi ‘inadatta’ a quella lettura e dunque spinta dal desiderio di migliorare me e colmare la carenza, semmai vado avanti per rispetto verso me stessa in quanto lettrice. Il libro ‘negativo’ mi porta verso una riflessione più ampia proprio perchè vado oltre: alle considerazioni sull’oggetto della lettura si aggiungono le considerazioni sul soggetto che legge (me stessa). E poi un libro è bello nella misura in cui lo sentiamo nostro: o perchè ci riempie o perchè ci svuota. Il libro bello mi riduce al silenzio proprio per quel senso di condivisione che mi sazia.

  9. Emanuela Scicchitano ha detto:

    Caro Paolo,
    il saggio di Rondoni “Contro la letteratura” ha il merito, anche per l’acceso dibattito che ha suscitato e che ha visto protagonista sul fronte opposto Andrea Cortellessa, di aver acceso i riflettori su un problema autentico: la ricezione dei classici oggi, fra i lettori e gli studenti. Voglio recepire il suo saggio in chiave provocatoria: una sfida ad accendere di novità, a vivificare la parola letteraria, a sottrarla alla patina spesso polverosa, con cui la scuola l’ha ricoperta. Ecco perché credo che la battaglia da ingaggiare “in auctores” sia, nel campo della scuola, quella dell’insegnante e non dell’alunno, a cui dire che leggere è soprattutto un piacere da esercitare con gusto prima a livello estetico e poi intellettuale; e non per costrizione o senso del dovere o per una vaga promessa di crescita spirituale, che solo un lettore “professionale”, come puoi essere tu, può interiorizzare, concretare e far defluire verso la propria scrittura. Tu parli di orizzonti e mi fai risuonare in mente i versi della lirica “Di luglio” da “Sentimento del tempo” di Ungaretti, che ritrae la stagione estiva mentre “sparge spazio, acceca mete”. Una descrizione che io ho sempre sentito vicina alla letteratura che dilata la nostra percezione del reale e folgora i nostri confini; ai quei confini vorrei che i miei lettori in erba si avvicinassero ma so anche che questo approssimarsi deve essere graduale e avvertito come una spinta interiore, cogente come quella del piacere.

  10. Sergio P. ha detto:

    @Florinda: e se ipotizzassi nel tuo caso, senza offesa, una sorta di complesso di inferiorità nei confronti del libro? Come se in tutti i libri ci fosse una bellezza che deve essere colta e centrata. Pena l’inadeguatezza del lettore. Ma la bellezza quella autentica è un atto libero. Nelle tue parole traspare un’esigenza di tipo morale (non a caso parli di paura) che faccio fatica a mettere in relazione con il piacere di una lettura.
    E poi perchè privarsi del piacere che sta nel chiedersi il perchè di un libro bello?

  11. Florinda Realacci ha detto:

    Non è senso di inferiorità quanto eccessiva critica verso me stessa, quella si … Il dire ‘questo libro è bello’ ovvero’questo libro è brutto’ è esprimere un giudizio… Non posso dire a priori che il libro è bello o brutto. Per dirlo devo terminarlo, anche se nel frattempo mi sta annoiando… chi mi dice che non possa stupirmi verso la fine? Un libro potrebbe quasi accostarsi all’esistenza umana: solo quando lo hai terminato puoi dire se ne è valsa o meno la pena… Perchè dovrei nutrirmi delle sole letture belle? Il mio spirito critico ne risentirebbe e, come tutte le cose che se non nutrite muoiono, scomparirebbe da me…

  12. Luca Miele ha detto:

    è vero, a tratti è una lettura faticosa, ostica (e scoragginate). Ma , per fare un esempio, le pagine del dialogo “in presa diretta” tra Caddy e Quentin (mi sembra) dove salta ogni punteggiatura, ogni segno grafico, sono folgoranti, con un ritmo assolutamente unico….Per chi come me ha amato molto i libri di Yehoshua (soprattutto i primi) è stato emozionante ritrovare la stessa tecnica narrativa…

  13. Sergio P. ha detto:

    @ Florinda: credo che i nostri punti di vista siano diversi, provo a spiegarmi ma non credo di riuscirci: tu parli del libro e del giudizio che il lettore può dare, avendo il libro come punto di riferimento, da qui il “comunque bisogna leggerlo tutto” insieme all’autocritica, anche feroce, come mezzo per migliorare il proprio gusto e le inclinazioni letterarie (per non correre il rischio di “assecondarsi” troppo); su questo sono d’accordo; il fatto è che personalmente, soprattutto da un pò di tempo a questa parte, trovo più interessante focalizzare cosa accade nella testa e nell’animo di un lettore (non distratto): per questo motivo smettere di leggere è un fatto che merita di essere compreso, soprattutto di fronte a una lettura “onesta”. E’ ovvio che dopo poche pagine nessuno può ritenersi in grado di dare un giudizio sensato ed esauriente, tuttavia le stesse poche pagine posso dire molto su cosa è accaduto nella testa, nei bisogni e nelle aspettative di un lettore. E poichè libro, lettore e giudizio costituiscono a mio avviso una struttura organizzata e non sono semplicemente tre dati diversi che occasionalmente si uniscono, accade che anche focalizzando uno solo dei componenti (cioè il lettore che ha letto poche pagine) comunque si dice qualcosa intorno al libro. Ripeto qualcosa che non ha nè può avere la pretesa di esaustività ma comunque qualcosa mette in luce. Il che cosa ancora non mi è chiaro ma non dispero…

  14. Florinda Realacci ha detto:

    @Sergio: sei riuscito a spiegare benissimo il tuo pensiero che in parte condivido, soprattutto quando dici che libro, lettore e giudizio costituiscono una struttura organizzata

  15. Sergio P. ha detto:

    @ Florinda: grazie, troppo buona. Mi piacerebbe poter avere il tempo e la testa e le capacità per poter esprimere il fatto che la lettura, intesa come attività “sensata” cioè dotata e portatrice di “senso” (qualunque cosa questa parola significhi) non è un ponte tra un soggetto e un oggetto ma rappresenta una totalità che oltre a comprendere le parti, le sostanzia per così dire. E nell’atto stesso in cui le pone, le fa essere diverse da quello che sono. Precisamente, qualcosa di “meglio” nel caso dei libri “belli”. Ora definire cosa sia “meglio” (per il lettore) o ” bello” (per il libro) significa entrare nel terreno minato ma affascinante del giudizio estetico.

  16. Florinda Realacci ha detto:

    @Sergio: non me ne vorrai, ma ora ti stai allontanando dal punto centrale della questione e rischio di non capirti più…

  17. Sergio P. ha detto:

    @ Florinda: non solo non te ne voglio, ma per certi versi il non capire mi tranquillizza. E non è una battuta. Il punto comunque è rimasto quello aperto da Maurizio: chiarire il sistema organizzato lettore-libro-giudizio.

  18. Maurizio ha detto:

    Sergio scrive “trovo più interessante focalizzare cosa accade nella testa e nell’animo di un lettore (non distratto)” e poi “E poichè libro, lettore e giudizio costituiscono a mio avviso una struttura organizzata e non sono semplicemente tre dati diversi che occasionalmente si uniscono, accade che anche focalizzando uno solo dei componenti (cioè il lettore che ha letto poche pagine) comunque si dice qualcosa intorno al libro.”
    Ma sta teorizzando il metodo del nostreo lab. di lettura O’Connor! bene…

  19. Florinda Realacci ha detto:

    @Sergio: Quello che non riesco a capire è solo quest’ultimo rigo: ‘Ora definire cosa sia “meglio” (per il lettore) o ” bello” (per il libro) significa entrare nel terreno minato ma affascinante del giudizio estetico’.Il resto è estremamente attinente al ‘sistema organizzato’ di cui parli. Circa quell’ultimo rigo, che non ho capito, mi è parso (ripeto, a me è parso)che ti stessi allontanando dal punto centrale del dibattito. Se vuoi illuminarmi sono ben lieta di raccogliere.

  20. Sergio P. ha detto:

    @ Maurizio: il mio caso è un chiaro esempio di teorizzazione del tutto inconsapevole!
    @ Florinda: quando Maurizio conclude il post con “Corro un alto rischio di perdermi qualcosa di bello o cinquanta pagine sono un numero sufficiente per elaborare un giudizio attendibile?” sta focalizzando l’attenzione su due questioni tra loro connesse (poichè bello è un giudizio, un particolare tipo di giudizio cioè quello estetico): il bello e il giudizio. Io non ho fatto molto di più che richiamare queste due questioni aggiungendo il concetto di “meglio” riferendomi al lettore perchè penso, e qui la faccenda nella mia testa si complica e non poco, che quando accade il bello (per opera del lettore nel senso che ne è il responsabile ma non l’artefice per così dire), accade qualcosa che ha meno a che fare con il “piacevole” ma più con la dimensione etica. Qualcosa cioè che richiama il concetto di valore (e di conseguenza il “meglio”). Banalizzo all’estremo: si diventa migliori quando si prova il bello. Non so se sia così o perchè sia così, ma sento che le cose stanno in questi termini.

  21. Maurizio ha detto:

    a proposito di “ingaggiare battaglia” con un libro, ecco cosa mi scrive Graziano Dell’Anna: Per L’urlo e il furore, purtroppo o per fortuna, 50 pp. non sono sufficienti. Il romanzo è costruito a strati, e la pienezza della trama e la profondità dei personaggi emerge solo più in là. La prima parte, poi, insieme alla seconda è la più ostic…a. Dopo di ché il romanzo va in discesa e, chiuso il libro, senti salire in bocca il gusto del capolavoro. Io ho avuto il romanzo per due anni sul comodino, e credo di averlo abbandonato almeno due volte. Lo stesso – ho letto una volta in un’intervista – ha fatto Lagioia, che certo non è lettore dalla rétina delicata. Io, dopo aver abbandonato L’urlo e il furore, per caso sono incappato in Mentre morivo, più lieve e accessibile ma non meno strepitoso, che è stato propriamente la mia porta di accesso allo scrittore americano, poi ho provato Palme selvagge, e quindi la droga pesante che riesce a diventare Faulkner non mi ha più abbandonato: ho letto Assalonne Assalonne, Luce d’agosto, e solo allora ho preso in considerazione la possibilità di riprendere in mano L’urlo e il furore, e adesso eccomi qui, col sudore sparso per tutto il corpo e i crampi allo stomaco che dà la crisi di astinenza da Faulkner. Ciao Maurizio!

  22. Pietro ha detto:

    ” I concetti creano gli idoli, lo stupore la conoscenza “. San Gregorio di Nissa docet !!!
    L’altro dà senso alla mia vita! Quando è chiuso in se stesso, cerco di entrare nel suo cuore. Se me lo
    permette! Ma pur nella brevità e precarietà di vita, tempo e spazio, non riesco a non provare a cercare
    di iniziare un dialogo di comunicazione che, piacendo a Dio, diventa Comunione. Nel libro, ma anche nel creato c’è tutto l’Amore divino e umano. Nei misteri si entra in punta di piedi, in religioso Silenzio!!!
    Pieni di stupore, di Grazia, umiltà, fervore e creatività che il Signore all’uomo dona in grande quantità e qualità. Mi pare che siamo tutti innamorati di Gesù e Maria. Dunque…educhiamoci alla vita buona del Vangelo. L’ Anno della fede ci chiama tutti all’impegno missionario della Nuova evangelizzazione.
    Ciascuno porti il suo mattone, senza esaurirsi in elucubrazioni mentali. Il Tempo è Amore!!!

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