Chiaro e scuro, chiaro?

chiaro?Il pazzo non è colui che ha perso la ragione, ma colui che ha perso tutto tranne la ragione“. La frase di Chesterton, citata spesso nelle ultime Officine, mi rimbalza nella mente, ora che mi trovo davanti questo tema così complesso, il rapporto tra chiaro e scuro. Un rapporto molto poco chiaro, già infatti mi viene da estendere i termini e dire: chiaro e o-scuro, chiarezza e oscurità.

La chiarezza noi (occidentali), anche per colpa dell’Illuminismo, la associamo alla lucidità più che alla lucentezza, alla ragione più che allo splendore; e la ragione, come ricorda Chesterton, è cosa buona e bella ma solo se è in compagnia, collegata con le altre dimensioni della vita della persona umana (affettività, gioco, materia, sentimento, volontà, immaginazione, fede…), altrimenti si riduce e si rovescia nel suo opposto, in una follia disumana. In effetti i pazzi spesso sono molto lucidi, per loro è tutto chiaro. Rispetto al pazzo risulta molto più sano il poeta: “Non è l’immaginazione che produce la pazzia; è la ragione. I giocatori di scacchi diventano pazzi, non i poeti; i matematici, i cassieri possono diventare pazzi, non gli artisti che creano […] la paternità artistica è un fenomeno di sanità come la paternità fisica […] i critici sono assai più pazzi dei poeti.”

In effetti l’essenza stessa della poesia è, come dice Borges, il cogliere le cose come strane, intuirne la stranezza, il contrario, da un certo punto di vista, della chiarezza; meglio: poesia non come conoscere le cose, ma l’umile riconoscere la difficoltà dell’uomo a comprenderle, il cogliere l’eccedenza della e nella realtà, la sua irriducibile indecifrabilità.

In mezzo a cose strane, l’uomo si sente straniero come nota sempre Chesterton: “La più semplice verità sull’uomo è che egli è un essere veramente strano: strano quasi nel senso che che è straniero a questa terra”. Anche per C.S.Lewis, la realtà è tutt’altra che chiara, semplice, familiare: “Secondo la mia esperienza, la realtà, oltre ad essere complicata, è generalmente strana; non è chiara, non è ovvia non è quella che noi ci aspetteremmo […] Di solito, infatti, la realtà è qualcosa che non si sarebbe mai potuta immaginare. Questa è una delle ragioni per cui credo nel cristianesimo […] non è niente che qualcuno abbia potuto inventare e presenta quelle strane contraddizioni che sono proprie delle cose vere“.

Se la realtà è, nella sua essenza, indecifrabile, “straniera”, come si fa allora a dirla? Le parole e il linguaggio appaiono da questo punto di vista uno strumento necessario quanto inadeguato come ammonisce un grande scrittore come Robert Musil: “Restiamo in silenzio! La parola può grandi cose, ma vi sono cose ancor più grandi! La verità vera tra due esseri umani è inesprimibile. Appena ci mettiamo a parlare le porte si chiudono: la parola serve piuttosto a comunicare fatti irreali, si parla nelle ore in cui si vive”.

Avrete capito quanto in questa mia riflessione io sia “partigiano”, tutto a favore dell’oscurità e contrario alla chiarezza. In realtà io sono a favore del “chiaroscuro”, come condizione esistenziale di ogni uomo. Siamo qui, sulla terra, come viandanti per le polverose strade del mondo, in via di purificazione, un po’ come Gandalf, il Grigio Pellegrino creato dalla fantasia di Tolkien. Siamo qui, davanti a uno specchio oscuro come ci ricorda Paolo di Tarso nell’Inno alla Carità: “Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia” (questo versetto ha “generato” molto nella storia dell’arte, mi vengono in mente il film di I.Bergman Come in uno specchio e il romanzo di P.Dick Un oscuro scrutare).

gandalfQuesta situazione di oscurità forse può generare disperazione ma può anche essere vista come una condizione per la libertà. Piuttosto che “oscurità” meglio chiamarla “penombra”, come sembra alludere Pascal quando dice che: “In tutte le verità della fede c’è tanto di luce per rendere l’atto di fede razionale e vi è tanto di oscurità per renderlo meritorio alla libera volontà aiutata dalla grazia“. È sempre Pascal che osserva come sia “molto più bello sapere qualcosa di tutto, che tutto di una cosa“, l’ignoranza può essere “beata”, paradossale presupposto della felicità. Su questo paradosso si concentra il lieto e breve saggio di Lucia Cosmetico Elogio dell’insicurezza (Emi) centrato sulla bellezza, non solo socratica, del “non so”.

Nella chiarezza, nella sicurezza, nella certezza, così come nel “sapere tutto” insomma non c’è spazio per una vera felicità umana. Se “tutto è illuminato”, il rischio è infatti quello dello schiacciamento della libertà. Dovremmo allora forse rivedere e allargare il nostro concetto di chiarezza che, secondo Goethe, è “una giusta distribuzione di ombre e di luci“.

Ecco qua, spero di essere stato chiaro, e spero anche di ricevere delle smentite all’Officina del 13 aprile, nel senso di ascoltare delle buone e convincenti difese della “chiarezza”, ma adesso la palla passa voi, per dirla chiaramente.

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. depaolimMarco ha detto:

    … mi vengono in mente i “bright” (“luminosi”, “brillanti”) http://www.the-brights.net/

  2. Alfonso ha detto:

    Il Taijitu è un simbolo che racchiude tutto questo ed è antico più o meno come la religione cattolica. Il mondo intero è costantemente metà in luce e metà in ombra, ma anche l’ombra non è mai costantemente sugli stessi oggetti o dalla stessa parte. Gli estremi si equivalgono: in un mondo tutto luce o tutto oscurità le ombre non sono possibili. Ma in questo nostro mondo ti assicuro che c’è pure chi pensa di essere tutto luce: buon per lui, o poveraccio, a seconda di come si guarda questa patologia. Ciao.

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