Gravity, un inno alla vita

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I dwell in possibility”, Io abito nella possibilità, cantava Emily Dickinson. Questi versi mi vengono in mente al termine della visione del film Gravity di Alfonso Cuaròn, con George Clooney e Sandra Bullock. Come inseguendo l’arcata di un ponte, questo film si apre e si chiude all’insegna di questi versi: sulle prime immagini del film campeggia una serie di scritte che si conclude con la frase “nello spazio la vita è impossibile”, mentre tutta la sequenza finale mostra l’arrivo sulla terra di Sandra Bullock (nei panni dell’astronauta Ryan Stone) che prima sprofonda con la sua sonda sott’acqua, poi si libera da tutti gli impacci e finalmente riemerge in un piccolo laghetto popolato da alghe e rane, a segnalare quella vita che qui, sulla terra, è possibile. Il finale è pieno di immagini simboliche, che lo fanno assomigliare ad una nascita, una sorta di “genesi” dell’uomo: la protagonista si libera e si libra nell’acqua per raggiungere la luce, come un bambino nel momento del parto, fuoriesce e poi si accascia sulla sabbia della spiaggia, stringendo con le mani, quasi baciandola, la terra argillosa (il fango con cui Dio ha creato l’uomo), poi, faticosamente, si alza, ecco l’homo erectus, che cammina in posizione verticale, e che alfine riesce a contemplare il cielo. Perchè il cielo è bello da osservare dal basso, con i piedi per terra, uno spettacolo sublime da vedere è il cielo, sublime perchè umano, semplicemente umano. Non vediamo il volto della donna in questa sequenza, la vediamo di spalle, nel gesto lento di elevarsi in tutta la sua statura, è la prima volta che possiamo guardarla stare in piedi, verticale anziché orizzontale, come invece l’abbiamo vista per tutto il film, sempre ripiegata su se stessa, in posizione quasi “fetale”.

Il titolo del film ne indica dunque il senso: la vita degli uomini è sottoposta alla forza di gravità, al di fuori di essa non c’è vita e non c’è umanità, se vivere da uomini vuol dire alzarsi in piedi e guardare il cielo. Per il 95% il film si svolge invece in un mondo senza “gravity”, un mondo in cui gli uomini ancora non sono. Guardiamo i due astronauti viaggiare nello spazio per tutto il film e il loro essere raggomitolati su se stessi, in posizione orizzontale, fluttuanti in quel “liquido” che è lo spazio senz’aria, tenuti in vita da quei “cordoni ombelicali” che sono i cavi che li tengono uniti tra loro e tra loro e l’astronave, non può non far pensare al feto, al bambino prima della nascita: Gravity è un film sulla vita come possibilità, che in quello strano “limbo” in cui si trovano i due protagonisti (si trovano nello spazio ma in realtà non molto distanti dalla terra, che possono contemplare in tutta la sua bellezza ad occhio nudo) è ancora mera potenzialità, fino a quando ritorneranno effettivamente a casa, quel posto che possono dire di “abitare”. “Dove metti la tua tenda?” chiede a Sandra Bullock il simpatico, sornione e saggio George Clooney (nei panni dell’esperto astronauta Matt Kowalsky alla sua ultima missione), perchè vuole sapere qualcosa di più di questa giovane sua collega, ma è interessante l’espressione che usa per dire “dove abiti?”, domanda importante per chi è costretto a non stare fermo ma a girare in tondo intorno al suo pianeta: “mettere le tende” è il verbo usato, nell’originale greco, dal Prologo del Vangelo secondo San Giovanni, per dire il mistero dell’incarnazione, “E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi”. Finchè fluttuano nello spazio (e il film, anche grazie allo splendido 3D riesce a trasmettere in modo molto efficace questo movimento continuo, al punto che ho avuto un forte mal di stomaco e nausea, al termine della visione), i due personaggi non sono ancora pienamente uomini, non sono ancora “incarnati” ma semplici potenzialità di cui però si intuiscono già alcune importanti caratteristiche, ad esempio i due sono capaci di meraviglia. Più volte Kowalsky-Clooney si ferma a contemplare lo spettacolo del proprio pianeta e lo fa notare alla sua collega: è un inno alla vita questo film, alla bellezza di quel piccolo puntino dell’universo, l’unico posto dove la vita è possibile. Ma l’esperto astronauta, ancora capace di meraviglia, nell’ultima sequenza in cui appare, come una sorta di angelo o di spirito-guida (alcuni lo hanno paragonato al personaggio di Clarence ne La vita è meravigliosa di Frank Capra) dà alla sua amica il consiglio migliore che si possa dare rispetto alla vita: viverla. E’ bello stare tra le stelle ad ammirare lo spettacolo, le dice, ma può essere una fuga, una droga, un rifiutare il dono più grande, la vita stessa; la cosa migliore è quindi scendere, abbassarsi, ritoccare il fondo, ricominciare da capo.

155px-Guardian_angel_clarencePer far questo bisogna attraversare i “detriti” della storia. I due protagonisti del film si trovano ad essere travolti da una massa enorme di detriti che viaggiano alla deriva nello spazio, per questo rimangono danneggiati e apparentemente impossibilitati a tornare a casa. Il dramma peggiore è rappresentato dal fatto che questi detriti compiono un giro, orbitando attorno alla terra, per cui ogni 90 minuti (la durata esatta del film), ritornano aggiogati a questo ciclo ripetitivo, cieco, infernale. Il male è ciclico, sferico, è l’eterno ritorno dell’identico. A questo male si deve far fronte, cercando di attraversandolo perchè come ricordava Cesare Pavese “Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”: i due astronauti dovranno imprimere una direzione lineare, verso un orizzonte preciso, alla loro esistenza, altrimenti condannata a girare a vuoto, nel vuoto, un vuoto splendido ma ingannatore, degno di un sogno sempre pronto a trasformarsi in incubo.

Nel finale del film i due riusciranno nella loro missione, solo grazie al fatto di essere in due, al loro gioco di squadra (nel momento più toccante la donna gridando e piangendo ammetterà: “avrei sempre voluto pregare, ma nessuno me lo ha insegnato”), una missione che a questo punto è diventata una soltanto: vivere, cioè abitare nella possibilità.  

Leggi i 4 commenti a questo articolo
  1. michela ha detto:

    Grazie per il bellissimo commento. Alla fine resta un’impressione di grande bellezza, anche se la trama è molto drammatica e piena di suspence. Mi è piaciuta molto l’immagine finale, che anche a me ha fatto pensare alla Genesi, e alla comparsa del’uomo sulla Terra.
    il 3d aveva senso, ma anche io ho avuto nausea e mal di stomaco…

  2. Andrea Monda ha detto:

    forse il migliore 3d che ho visto…stavo vomitando! quella impressione di bellezza che resta non è però “vaghezza” ma qualcosa di più solido, come la terra argillosa che la protagonista afferra una volta scaraventata sul pianeta, la Madre Terra. Non è solo un bello spettacolo insomma… altrimenti non staremmo qui a parlarne.

  3. michela ha detto:

    concordo totalmente

  4. Roberta ha detto:

    ..non è proprio adatto a chi, come me soffre di vertigini, costretta in alcune scene a chiudere gli occhi…però è uno dei film più belli in 3d che ho visto. La bellezza di trovarsi nello spazio e sentirsi completamente parte di esso, e la “speranza” che anche se avvolti nel buio della solitudine….non siamo mai soli….

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