Carne, la materia di cui sono fatti gli uomini

muscoli

Presente, in carne e ossa! L’uomo è tutto qua? In effetti ci sono anche il sangue, i nervi, i capelli, le unghie e la pelle! Ma per dire uomo in effetti già basterebbe dire “carne”. La carne dice la verità dell’uomo, è la sua definizione più autentica: se diciamo che uomo è di pietra, o di plastica e un altro invece è di carne, stiamo dicendo che solo quest’ultimo è un vero uomo.
Ma la carne, che cos’è? Meglio, visto che quest’anno il tema delle Officine di BombaCarta è Materiali, la domanda allora è: “ma la carne è un materiale?“.
Di fronte a questa domanda qualcuno si potrebbe offendere, non siamo solo questo ammasso di muscoli e basta, giusto? Anche se io posso dire, di mio figlio, “sei carne della mia carne”, mi rendo conto che c’è qualcosa di più, qualcosa che si insinua sotto, dentro, oltre la materia. E qui spunta fuori l’ospite sgradito: lo spirito. L’uomo in fondo, lo dicono tutti, forse anche i non credenti, è senz’altro carne ma anche spirito, è uno spirito incarnato, è anima ma anche corpo, è materia, ma non solo. Mi chiedo se esistano ancora i materialisti puri. Forse sì, e alcuni stanno pure dentro BombaCarta. Gli stessi cristiani, a sentire il teologo Romano Guardini, devono esserlo, visto che “il cristianesimo è la religione più materialista di tutte”. È interessante notare che lo spirito che soffia dentro BombaCarta, da 16 anni a questa parte, è uno spirito per lo più anti-spiritualista, contro ogni astrattezza in nome della concretezza: il ring entro cui da 16 combattiamo con le nostre “officine” mensili (maneggiando e quindi sporcandoci con l’olio e il grasso della letteratura e delle arti) è il ring della fisica più che della metafisica, del “corpo a corpo” con i testi, accogliendo la sfida di entrare fin nel midollo e nei nervi delle opere e degli artisti, lì dove c’è il punto di rottura (per lo più il nostro punto di rottura… come si esce distrutti e storditi da un incontro di Officina, vero?). Non ci piace tanto a noi bombers il mondo delle idee, siamo più aristotelici che platonici, più fisici che metafisici, in questo senso la scelta di un anno sul tema “materiali” è stata la cronaca di una scelta annunciata. Di Platone ci piace il nome, che poi è il soprannome: “spalle larghe”. Uno pensa alla boxe, antico e nobile sport, così pieno di carne. I pugili sono valutati a peso, a libbre, come i bovini, da qui le categorie: mosca, gallo, leggeri, welter, medi, mediomassimi, massimi.. Tutti a questo punto ricordano Rocky Balboa che prende a cazzotti i quarti di bue appesi a testa in giù nella grande cella frigorifera di Philadelphia, proprio come il campione Joe Frazier, che in quella città da ragazzo era apprendista macellaio prima di trovare la fortuna sul ring.

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La carne quindi il peso, la muscolatura (in fondo cos’è la carne se non i nostri muscoli?), la forza. Ma carne è anche simbolo di debolezza, di fragilità. “Lo spirito è forte ma la carne è debole” ci avverte Cristo nel Vangelo e così diciamo pure noi quando confessiamo di essere “fatti di carne”. Pensiamo soltanto per un attimo ai “peccati della carne”, alla lussuria, alla gola (ma è la carne qui il problema? forse no..). Molto ambigua, la carne, così forte e debole.
E qui stiamo parlando solo dell’uomo, della sua carne. Ma l’uomo, che è di carne, si nutre anche di carne. La carne è cibo, la carne degli animali, dei bovino, dei suini, degli ovini, ma anche dei pesci (anche quella del pesce è carne, anche se spesso vengono contrapposti, carne e pesce), un cibo che l’uomo ha anche “coltivato”, per cui è diventato agricoltore, per tutto ciò che è frutta e verdura, ma anche cuoco. Cuoco, che bella parola, come diceva Totò in Miseria e Nobiltà.

Totò-in-Miseria-e-nobiltàL’uomo, carnivoro, non sbrana, non mangia la carne a brani, ma la gusta con grande piacere anche perchè prima l’ha cucinata, con grande fatica e perizia. L’uomo cuoce la carne, essendo passato, in ere immemorabili, dal crudo al cotto. L’uomo è cultura, non solo natura. Rispunta fuori lo spirito. Niente da fare, la carne vuole compagnia, da sola non può stare. Quando Dio se ne rende conto, praticamente subito, corre ai ripari e provvede come tutti sanno: “Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:«Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa”. Dal petto, all’altezza del cuore, Dio plasma la donna. Non dai piedi o dalla testa, ma dalla carne e dalle ossa del torace. L’eguaglianza tra gli uomini è originaria, radicale, e la sua dignità è sacra, intoccabile. Quando trattiamo gli uomini mettendoli più in alto o più in basso di noi ecco che qualcosa si guasta: l’idolatria (sotto forma delle tirannidi politiche, per cui anche il “corpo” del re è sacralizzato) e la reificazione degli uomini sono errori opposti e uguali, che spesso si ripetono nella storia. A volte la carne diventa davvero “materiale”, come in occasione delle guerre che si trasformano, subito, in “carneficina”. Gli uomini trasformati in “carne da cannone”. Il fronte francese della Prima Guerra Mondiale, Verdun… fu ribattezzato “il carnaio di Europa”. Da questo carnaio è nata la grande letteratura del ‘900, l’arte scaturisce dalla carne perchè in fondo contrapporre carne e spirito è qualcosa che facciamo noi uomini quando cediamo alla pigrizia.
L’arte (carne+spirito) risorgendo dalle ceneri dell’odio, si è presa l’amara rivincita rispetto a quella sconfitta di tutti che è la guerra. Ed è tangibile (la poesia è sempre sensuale) allora quanta “carne” ci sia in questa celebre poesia che nasce proprio da quella ferita, quella cicatrice che ancora sanguina nel cuore dell’Europa:

Un’intera nottatabuttato vicino
a un compagno massacrato
con la sua bocca digrignata
volta al plenilunio
con la congestione delle sue mani
penetrata nel mio silenzio
ho scritto lettere piene d’amore
Non sono mai stato tanto
attaccato alla vita

(Veglia, di G.Ungaretti)

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. viki ha detto:

    Gent.mo prof.,

    dopo qualche giorno, di lettura e rilettura del suo intrigante editoriale , cercherò di rispondere alla domanda: ma noi di cosa siamo fatti?
    Credo che tutti, nel momento della creazione, siamo generati col materiale di mamma e papà, quindi fatti della materia che tutti ne siamo a conoscenza, la cosa che ci sfugge al tatto è secondo me, la scintilla di divino in ciascuno di noi, che si palesa poi con la parola tramite lo spirito che dà vita all’arte in ogni sua manifestazione artistica.

    Di seguito riporto un pensiero di Walt Whitman sul dualismo di anima e corpo. In cui noto che il sublime coinvolge all’unisono in una catena senza fine, l’impronta del Creatore.

    “Senti, m’informò l’anima,
    Scriviamo per il corpo (siamo infatti una cosa), versi tali,
    che, dopo morte, dovessi invisibile tornare,
    O, più tardi, più tardi, in altre sfere,
    A un gruppo di compagni i miei canti riprendere,
    In accordo con suono, alberi, venti della terra, tumulto delle onde),
    Possa con soddisfatto sorriso continuare,
    A sempre riconoscere miei questi versi- come, qui ed ora, per la prima volta,
    Firmando per anima e corpo, il nome mio v’appongo”.

  2. alessia ha detto:

    condivido la citazione di Ungaretti… Veglia è una delle poesie che amo di più perché c’è il senso della vita, della concretezza materiale della vita, che emerge dal dramma della guerra, del dolore, della morte. “La congestione delle sue mani” scrive il poeta: sembra di vederle quelle mani ormai immobili, ma immobilizzate in un movimento, in uno spasmo vitale. Immobilità della morte che richiama il poeta alla vita, all’amore. Davanti alla morte, in mezzo alla guerra, scrive lettere d’amore. Poco materiali e molto umane, molto vive, molto trasparenti di quell’attaccamento all’esistenza che nasce dal guardare in faccia la morte e dal chiedersi qual è il senso della vita. Una poesia splendida, per me anche un ricordo personale speciale, un inno alla vita che ci ricorda di cosa siamo fatti e che siamo sempre chiamati ad andare oltre.

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