Letteratura: servizio, fantasia, mistero

I Convegni organizzati dall’Associazione Pietre di scarto sembrano avere una vocazione precisa: toccare i nervi sensibili della letteratura, compiere sondaggi e perlustrazioni in terre poco frequentate, quelle delle grandi domande, delle questioni di fondo: la gente si chiede quale libro leggere e gli amici di Pietre di scarto si chiedono a che cosa serve la letteratura; la gente crede che la letteratura sia un pianeta fantastico distante dall avita ordinaria e reale e loro dicono che la fantasia è un modo di rapportarsi alla realtà; la gente crede al mestiere della letteratura e ai suoi prodotti best-sellers e loro parlano del mistero della letteratura.
Ma andiamo con ordine, riprendendo le fila di un discorso tutto in evoluzione dinamica e che non mancherà di riservare sorprese. Comincerò raccontandovi un’esperienza.

È il 1940: quindicimila ufficiali polacchi vengono imprigionati dai russi in campi di concentramento. Joseph Czapski è tra questi. Nato a Praga da una famiglia aristocratica polacca nel 1896, egli fu pittore, critico d’arte, grande lettore e conversatore brillante, vigoroso enfant terribile. Dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche egli è fatto prigioniero dai russi il 29 settembre 1939 per poi essere liberato nel ’41. Assieme ad altri 450 ufficiali scampò per caso all’orribile e gigantesco massacro di Katyn, perpetrato dalla polizia sovietica. L’esperienza della prigionia fu drammatica: promiscuità, fame, malattie.
A Czapski e ai suoi compagni non restavano altro che la memoria e la ricchezza della cultura che essi portavano nel loro intimo come roccaforte inespugnabile di umanità: scienza, arte, architettura, letteratura, storia. Molti di loro decisero così di lottare contro il degrado spirituale e il decadimento fisico in una maniera singolare: avrebbero tenuto delle conferenze sulle loro rispettive passioni culturali per far trionfare la forza della vita.
In particolare, Czapski fece rivivere per i compagni di prigionia la sua lettura personale de Alla ricerca del tempo perduto, il capolavoro torrenziale di Marcel Proust. Il testo del suo intervento fu dettato e messo per iscritto perché doveva essere sottoposto alla censura del campo. Quando lasciò la Russia, l’autore lo portò con sé. Per questo anche noi oggi possiamo leggerlo (J. CZAPSKI, La morte indifferente. Proust nel gulag, Napoli, L’Ancora del Mediteraneo, 2005.).
Immaginate cosa poteva rappresentare la rievocazione del raffinato mondo dei salotti del faubourg Saint-Germain della fine del diciannovesimo secolo nel contesto di un campo di prigionia. La lettura dell’ufficiale polacco entra nelle vene del testo. Esso custodisce un significato profondo: l’arte aiuta a vivere e, in particolare, permette di salvare l’umanità e il gusto dell’essere interiormente liberi, anche sotto la tirannia più aspra. È la lezione della grande letteratura. Così commenta l’autore: «La gioia di poter partecipare a un’impresa intellettuale in grado di dimostrarci che eravamo ancora capaci di pensare e reagire a realtà dello spirito che non avevano niente in comune con la nostra condizione di allora, trasfigurava ai nostri occhi quelle ore passate nel grande refettorio dell’ex convento, questa strana scuola clandestina dove rivivevamo un mondo che ci sembrava perduto per sempre» (p. 18).
In realtà in questa esperienza è in ballo qualcosa di decisivo: il senso della lettura e della critica letteraria. Il critico è un uomo che «professa» la lettura. Czapski ci offre un modello. Egli parla di un libro che non ha sotto mano, ricordiamolo. Non può citarlo alla perfezione, né indicarne pagine e volumi. Deve affidarsi alla memoria. Scava dunque nelle profondità di sé per recuperare immagini, situazioni, eventi, fidandosi del proprio rapporto col testo. L’opera vive in lui e il suo significato prende corpo in un contesto di disumanità. Proprio questa «inabitazione» o «incarnazione» dell’opera genera il gesto critico. Se l’opera non vive nella coscienza di chi la legge, il commento critico resta qualcosa di esteriore o addirittura di superfluo, futile. Leggendo la Recherche, Czapski legge se stesso, colloca l’opera all’interno di un rapporto singolare e la attualizza nel contesto, per sé assurdo, di un campo di concentramento. Czapski ci fa capire che se la letteratura non vive nel territorio della vita e dei suoi significati, essa è destinata a svanire.

Ecco allora che appare più chiara la prima domanda che i nostri amici di Pietre di Scarto hanno posto con i loro convegni: A che cosa «serve» la letteratura? Molti al solo sentir parlare di un «servizio» della letteratura, pensano a una «letteratura di servizio» o, peggio ancora a una letteratura «a servizio» di qualcosa e dunque asservita. In realtà, il rapporto tra la vita e la letteratura – lo abbiamo compreso grazie anche all’esperienza di Czapski – è inquieto e complesso. Ma lo comprendiamo anche grazie alla nostra stessa esperienza, che pure non si svolge dentro un campo di concentramento (almeno in senso stretto…).
Sembra, a volte, che la letteratura sostituisca la vita o che almeno riesca a rimpiazzare momenti vuoti, di noia, trasformandoli in minuti, ore, giorni di pura avventura. In realtà la letteratura non serve a sostituire la vita. Semmai è vero che ci sono aspetti della vita che spesso noi conosciamo solamente nella lettura. Ma come? Una immagine molo bella che è stata richiamata nel primo convegno è quella del laboratorio fotografico. L’opera letteraria, ha scritto Proust, è «una sorta di strumento ottico», che consente al lettore di «sviluppare» ciò che forse, senza il libro, non avrebbe osservato dentro di sé. Il ruolo della lettura è fotografico: gli uomini spesso non vedono la loro vita e così il loro passato diviene ingombro di tante lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha «sviluppate». Ecco dunque a cosa «serve» fondamentalmente la letteratura: a sviluppare le immagini della vita, a salvare la nostra esistenza dall’incomprensibilità.
Sarebbe riduttivo intendere la lettura di Czapski, ad esempio, come una «evasione». No: è molto di più. Ogni poesia, ogni racconto, ogni romanzo è un atto critico nei confronti della vita. La letteratura offre a una vita ridotta al suo puro «senso letterale», un punto di apertura. La letteratura non è dunque «fuga» dal mondo, dalle cose, in un’interiorità tanto ricca, quanto vaga. Se lo fosse, essa sarebbe una «evasione» inutile e vana. La verità della letteratura è sempre una verità di fatti, di cose e di relazioni tra cose e persone. «Niente idee se non nelle cose (No Ideas but in Things)», scriveva Williams Carlos Williams.
Se questo è vero per il lettore lo è ancora di più per lo scrittore. Lo era per Proust come per qualunque altro scrittore. La letteratura dischiude il mondo nel quale si vive e fa scoprire la sua ricchezza. Se Czapski può salvare la propria umanità grazie alla pagina di un romanzo è perché la fantasia di Proust (come quella di ogni scrittore autentico) non è evasiva, ma intensiva. La fantasia del poeta è alta grazie al fatto che egli osserva la realtà in maniera particolarmente intensa. Lì sta tutta l’energia.

Allora ecco la seconda domanda che i nostri amici di Pietre di scarto si sono posti l’anno scorso: cosa rende tale la fantasia rispetto alla realtà? Non il reale stesso appunto, ma la logica col quale lo si guarda e lo si considera; i nessi che questa logica crea e sviluppa. La fantasia è un modo di porsi davanti alla realtà, un’esperienza conoscitiva ricca e complessa, che segue una logica diversa da quella ordinaria. Insomma, possiamo affermare che senza il reale non esisterebbero neanche la fantasia e l’immaginazione. La realtà è più ricca della fantasia perché è il seme che, in potenza, contiene tutto il suo sviluppo fantastico. La fantasia è una prospettiva ampliata sul mondo e su ogni piccolo suo dettaglio, come secondo i celebri versi di William Blake (1757-1827): Vedere un mondo in un granello di sabbia,/ e un cielo in un fiore selvaggio./ Chiudere l’infinito in un palmo di mano/ e l’eternità in un’ora (Auguries of Innocence).
Il lettore di una poesia o di una narrazione non è chiamato a una sorta di fuga mundi, a un’evasione dal reale per rifugiarsi nel mondo delle immagini irreali. Ogni viaggio fantastico nel «Paese delle meraviglie» o nella «Terra di mezzo» o al centro della terra o negli spazi interstellari dei racconti di fantascienza, ogni sguardo poetico su un dettaglio o l’altro del mondo è per ogni artista un modo per vedere meglio la realtà e la storia, per cogliere in maniera estesa e densa la ricchezza dei loro significati. Si può dire, con le dovute distinzioni, che per analogia la parola poetica partecipa di ciò che i cristiani ritengono essere parola di Dio così come ce la presenta la Lettera agli Ebrei. Per i cristiani la Parola è Dio, e tutte le parole umane vivono una intrinseca nostalgia di Dio, tendono a quella Parola. Essa, infatti, è «è vivente (zòn: è viva, brulicante; è, come scrisse Thoreau, così vera e forte da schiudersi come gemma a primavera) ed energica (energhès: non è «atto» ma «potenza», energia); più tagliente di ogni spada a doppio taglio e penetrante fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla; capace di scrutare (criticòs: la parola poetica è il vero critico! Se la parola è poetica essa stessa ha una funzione critica nei confronti della mia vita.) i sentimenti e i pensieri. Non c’è creatura invisibile (afanès: la parola poetica vede il mondo, vede tutto, non oscura, ma illumina anche il dettaglio più apparentemente trascurabile; il suo sguardo è aperto) davanti ad essa, ma tutto è nudo e scoperto ai suoi occhi…» (Eb. 4, 12-13). È tutto vero della parola poetica ciò che di essa ha scritto Baldovino di Canterbury: «Quando parla questa parola, le sue parole trapassano il cuore, come gli acuti dardi, scagliati da un eroe. Entrano in profondità come chiodi battuti con forza e penetrano tanto dentro, da raggiungere le intimità segrete dell’anima. Infatti questa parola è più penetrante di qualunque spada a doppio taglio, perché il suo potere d`incisione supera quello della lama più temprata e la sua acutezza quella di qualsiasi ingegno. Nessuna saggezza umana e nessun prodotto d’intelligenza è fine sottile al pari di essa. È più appuntita di qualunque sottigliezza della sapienza umana e dei più ingegnosi raziocini» (PL 204, 452-453).

Ecco allora emergere il terso tema, quello che i nostri amici di Pietre di scarto si sono posti per l’anno prossimo: il mistero di scrivere. Mi chiedo: dove sta in origine questo mistero? qual è la fonte di una parola così densa? La mia risposta è in quella paroletta da tutti usata, ma quasi indefinibile: l’ispirazione. Qui si concentra la densità del mistero di scrivere, a mio avviso.
Che cos’è l’ispirazione poetica? Ogni artista, ogni musicista, ogni scrittore, si confronta esplicitamente o implicitamente con essa, a volte negandola e lodando la razionalità della mente, ma più spesso esaltandola, ricavandone una sensazione di stupore e di sorpresa. Non si contano le definizioni che sono state date nel corso dei secoli, all’interno delle estetiche e delle poetiche sviluppate da artisti e pensatori. L’ispirazione non è pura emozione, né puro sentimento, né pura astrazione, ma vera e propria forma di conoscenza attenta e ardente del mondo. Ma è una conoscenza che nasce da un momento di stupidità, come ha scritto Flannery O’Connor: «c’è un granello di stupidità del quale lo scrittore può difficilmente fare a meno: lo starsene a fissare senza andare subito al dunque. Più a lungo guardate un oggetto e più mondo ci vedrete dentro». È quel momento che ha vissuto Raymond Carver quando ha scritto una poesia tanto semplice quanto strardinaria:

My crow
Un corvo è volato sull’albero davanti alla mia finestra.
Non era il corvo di Ted Hughes né quello di Galway Kinnell.
Non era neanche quello di Frost, di Pasternak o di Lorca.
Non era uno dei corvi di Omero, sazi di sangue
dopo la battaglia. Era semplicemente un corvo.
Uno che in vita sua non è mai riuscito a trovare il suo posto
né a far niente che valga la pena di raccontare.
È rimasto appollaiato sul ramo qualche istante.
Poi si è levato in volo ed è uscito maestosamente
dalla mia vita

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  1. miriam ha detto:

    IL MISTERO DI SCRIVERE, IL MISTERO DELL’ARTE, DELL’ISPIRAZIONE, DELL’INTUIZIONE, UNA CREAZIONE…VITA!

    questo mistero in realtà è l’UOMO. l’uomo stesso!
    è l’uomo il mistero dei misteri: ogni arte, ogni intuizione, ogni creatività, nasce dal mistero che è l’uomo.
    ciò che sfugge al controllo, alla razionalità, alla strumentazione di ciò che in realtà si origina dentro, nel profondo più profondo di noi, un io quasi impercettibile, spesso sepolto, dimenticato, soffocato dalla vita, dal fare, dal progettare, dai ritmi nevrotici, dall’ansia…
    e l’ansia sta lì lì accanto all’immaginzaione, all’intuizione, compagna di stanza… potremmo dire!
    entrambe, l’ansia e la fertile immaginazione, stanno proprio in quel punto tanto profondo e misterioso dell’uomo che solo Dio può conoscere, toccare, comprendere, sconvolgere, amare, sostenere…

    l’uomo è questo mistero tanto fragile e che proprio da questa fragilità partorisce vita!

    se solo potessimo percepire la ricchezza che ogni uomo è, un tesoro grandioso…inesauribile!

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