Ancora sullo “sguardo fresco”

Sguardo o linguaggio?

Robinson Crusoe di Daniel DefoeIn un dibattito di qualche tempo fa, Antonio Spadaro parlava di uno sguardo fresco che ci “restituisca la realtà così com’è”, un po’ come quello di Robinson Crusoe che enumera le cose sfuggite al naufragio, e il solo nominarle le rende nuove e preziose; Leonardo Colombati reclamava invece il recupero della libertà totale del linguaggio che, senza relegare la letteratura in un mondo altro dalla vita, sia garante della “buona riuscita” di quello spettacolo che è la letteratura.
Questa discussione, utilissima, sembra a noi convergere verso un punto che ambedue le posizioni sottintendono o intuiscono senza nominare. Senza illuderci di fare sintesi, proviamo a spostare la dialettica altrove, come in una spirale.

C’è forse un motivo “altro” per cui la letteratura è comunque un “altro mondo” senza rinunciare a essere questo che è davanti ai nostri occhi. Partiamo dalle premesse.
I semiologi ci avvertono che quando leggiamo un testo il suo “sapore di verità” dipende dai nostri atteggiamenti proposizionali, cioè da quanto noi affermiamo che sia la realtà. In sostanza ogni nostro sguardo dipende dalle parole che lo esprimono, così come ogni nostra parola non può prescindere dallo sguardo su quel nostro mondo. Bene.
Poi però il romanzo deve cominciare a vivere, come un organismo qualsiasi.
E perché ciò accada non basta l’insieme delle cose che lo scrittore dissemina qua e là nel testo per rendercelo credibile, né è sufficiente la sim-patia umana che riesce a insufflare nei suoi personaggi.

Un testo che vive solo se c’è qualcuno che lo legge, comincia però ad esistere come parte autentica di realtà solo quando il lettore ci finisce dentro. Un po’ come accadeva nel capolavoro fantasy di Michael Ende, La Storia Infinita, dove il piccolo Bastiano salva, entrandoci, il mondo del suo libro, rischiando poi di divenirne dittatore disumano per poi imparare a sue spese come viverci e come uscirne.
Se io lettore, come Bastiano sono dentro un testo non solo accetto il viaggio che lo scrittore mi propone ma ne sottoscrivo tutte le possibilità, e, ovviamente i rischi. Faccio cioè esperienza di una realtà nuova che non posso incontrare come nulla fosse. Ho stipulato un contratto e sono parte dello spettacolo, accettando la sua vita come parte della mia vita.
Quella condivisione allora alla fine comunque mi cambia, e lo farebbe anche se, paradossalmente, il testo che leggo fosse puro suono, senza valori.

Le parole del Requiem di Mozart non mi dicono nulla di nuovo perché uguali da secoli, ma l’architettura sonora di Mozart dice a me che vivo nell’ascolto del pezzo che c’è un’altra possibilità di concepire quel testo/mondo che prima non c’era: mi si offre come esperienza possibile e il mio viaggio vale il prezzo del biglietto.
Perché anche l’esperienza di un suono è un atto che fonda qualcosa di nuovo; non fosse altro perché testimonia, come dice Heaney a proposito del poeta russo Mandelstam del fatto che un essere umano ha dilatato per me il campo della possibilità della lingua, mi ha detto che un altro esperimento, un altro sguardo è possibile, che c’è una fetta di mondo che si può illuminare, vedere, abitare, sperimentare in modo nuovo e mi invita a provare.
Così la mia esperienza di vita è più ricca, lo spettacolo lascia un deposito da qualche parte del mio essere (anima, spirito, circuiti cerebrali, fate voi…), l’arte ha avuto la sua verifica nella vita, perché un suo sedimento è diventato realmente parte della mia stessa vita. Questa e solo questa è la realtà di un’opera d’arte, quando essa vive e si trasforma in mille maniere in colui che ne è un portatore, e che mai come in questo caso si può definire sano.

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