Cioccolato, cavoli e patate. La frontiera dentro e dietro di noi: Kerouac e Tolkien

Jack Kerouac

Jack Kerouac

Mentre ascolto le note dell’ultimo, struggente (già dal titolo: Orphans) album di Tom Waits, goloso lettore di Kerouac, rifletto (e scrivo così, quasi di getto) su quanto ha detto Eraldo Affinati su Kerouac, nella tavola rotonda del 9 dicembre sul tema della frontiera nella letteratura americana. Affinati, tra l’altro, ha raccontato la fine di On the road, il famoso romanzo del suddetto scrittore. Pare che (io, lo confesso, non ho mai letto On the road) il protagonista del romanzo, dopo aver a lungo viaggiato, si ritrovi davanti alla propria casa a gridare come un matto finché qualcuno da sopra non lo invita a salire su a prendersi una tazza di cioccolato. Più o meno questo il finale.
Più o meno il finale de Il signore degli anelli.

Lì, alla tavola rotonda, mi è subito sovvenuto il paragone (non ne ho parlato in quanto semplice “moderatore”): Tolkien e Kerouac…già..non ci avevo mai pensato. Forse questo può spiegarmi il motivo delle mie insane passioni, gli Hobbit e Bob Dylan, forse. Cosa avranno in comune lo schivo professore di Oxford e il “padre”, alcolizzato, della beat generation? Beh, innanzitutto il cattolicesimo, e non mi sembra poco. Ma c’è qualcosa davvero in comune nei finali dei due corrispettivi capolavori? Anche qui, non poco.

Il finale del romanzo di Kerouac l’ho già accennato. Il protagonista torna a casa e beve del cioccolato. Nel romanzo di Tolkien vediamo Sam Gamgee (il vero protagonista del romanzo) che abbraccia la sua famiglia e dice: “Sono tornato”. Ecco le ultime righe della lunga saga tolkieniana:

“Ma per Sam la sera diventò buia, mentre si teneva in piedi sulla riva, e guardando il grigio mare vide soltanto un’ombra sulle acque che scomparve presto a occidente. Rimase a lungo lì immobile, udendo soltanto il sospiro e il mormorio delle onde sulle spiagge della terra di mezzo, e il rumore penetrò fino in fondo. Accanto a lui erano Merry e Pipino, immobili e silenziosi. […]

Ma Sam prese la via per Lungacque, e tornò al Colle e di nuovo il giorno stava finendo.

Egli vide una luce gialla e dei fuoco acceso: il pasto serale era pronto e lo stavano aspettando. Rosa lo accolse e lo fece accomodare, e gli mise la piccola Elanor sulle ginocchia. Egli trasse un profondo respiro. ‘Sono tornato’ disse”.

Non è sorprendente che sia Sam, all’inizio un personaggio “di contorno”, ad avere l’ultima battuta.

Anche perché la prima battuta, il primo discorso diretto del romanzo è proprio su Sam: a parlare è il padre di Sam, Hamfast Gamgee, è lui che, proprio in apertura dei romanzo, realizza un piccolo ritratto di Sam e contemporaneamente quasi un piccolo manifesto dell’intera opera:

“Mio figlio Sam ne saprà più di me, va e viene da Casa Baggins. È pazzo per le storie dei vecchi tempi e sta ore ed ore ad ascoltare il signor Bilbo che le racconta. Il padrone gli ha anche Insegnato a leggere e scrivere, senza cattive intenzioni, beninteso, e spero che non ne verrà niente di male. “Elfi e Draghi!” Gli dico. Cavoli e patate soli fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi”.

Tutti noi sappiamo il resto della storia: Sam si impiccia degli affari dei suoi superiori, in questo caso di Frodo, anzi si mette addirittura ad origliare alla finestra i discorsi degli stregoni e per lui saranno veramente guai a non finire. L’aspetto avvincente della faccenda è che Sam, come e più degli altri Hobbit si rivelerà all’altezza dei guai che dovrà affrontare. Dico più degli altri perché il suo punto di partenza è senz’altro il più basso di tutti. All’inizio del viaggio ci viene infatti riferito che: “Sam conosceva bene il paese nel giro di 30 miglia da Hobbiville, ma quello era il limite delle sue conoscenze geografiche”.

Per un disguido tecnico, alla tavola rotonda sul tema della frontiera, non ho avuto il modo di mostrare una scena tratta dal film che Peter Jackson e la scena era proprio relativa a questo particolare, al fatto che Sam non era mai andato oltre il limite delle 30 miglia da casa, una scena molto ben realizzata nel primo episodio della trilogia cinematografica. Oltrepassare il limite, varcare la soglia, percorrere la frontiera…Il penultimo capitolo de Il signore degli anelli si intitola Percorrendo la Contea, che sarebbe poi la patria di Sam e degli altri Hobbit protagonisti del romanzo. Sembra allora, alla luce di quanto sopra detto, che tutto il viaggio sia a ritroso, e che la frontiera sia quella di casa, non quella posta davanti ma quello dietro (o dentro) di noi. Sembra che tutto il viaggio di Sam sia un andare verso gli Elfi e i Draghi di cui parla, pauroso, il padre Ham, ma che tutto questo andare a conoscere Elfi e Draghi serva solo ad uno scopo: a conoscere e a vedere, in un’altra luce (e magari apprezzare) i cavoli e le patate. I cavoli e le patate, “fatti per gente come noi”, non si possono amare davvero senza aver prima incontrato Elfi e Draghi, così come i Elfi e Draghi non li incontra chi non ama pure i cavoli e le patate (e non si rende conto che questi ultimi sono anche più pericolosi dei secondi). Solo quando siamo usciti da noi e dalla “comoda Contea” del nostro io, superando questa frontiera, e abbiamo visto gli Elfi, allora sì che i cavoli le patate avranno senso per noi, saranno una sorpresa, una magia, più grande di qualsiasi incantesimo. Solo se percorriamo la frontiera dentro di noi, quella che ci porta non “altrove” ma “lontano, dentro di noi”, alle nostre radici, allora il viaggio sarà un ritorno a casa, con tanto di cioccolato, altrimenti rischiamo di perderci in un labirinto affascinante quanto vuoto… il bello di Sam è nel suo nome, Samwise (Sam il saggio) e ancor più nel suo cognome, Gamgee, figlio di Hamfast Gamgee, il “profeta” del romanzo, colui che, senza saperlo (né volerlo) ha capito tutto della storia di Tolkien: un lungo viaggio attra-verso le mitiche avventure con gli Elfi e i Draghi, ma verso qualcosa di molto concreto e quindi di non meno avventuroso: i cavoli e le patate (e il cioccolato).

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  1. Stas' ha detto:

    C’è un “libro di viaggio” a cui sono molto legato. Lo tengo in bella evidenza con la copertina che mi guarda su un ripiano della libreria. Si intitola “Una volta” e contiene fotografie e appunti che Wim Wenders ha scattato in giro per il mondo. Soprattutto negli Stati Uniti dove il regista tedesco ha vissuto compiendo diversi viaggi “on the road”, stimolato dagli spazi immensi, dai fantasmagorici insediamenti umani nei deserti e nelle pianure della provincia americana, affascinato dai racconti di Sam Shepard (sceneggiatore di “Paris Texas”). Ebbene, tutte queste fotografie, questi lunghi anni di viaggio trovano la loro ragione profonda solo nel RITORNO a casa. Leggete qua, cosa dice il regista: “Mi ci è voluta una lunga deviazione, fondamentalmente i sette-otto anni passati in America, per comprendere che il luogo da cui ho sempre cercato di fuggire, la Germania, era in effetti il luogo a cui appartenevo. Solo dopo aver trascorso molto tempo nel Paese che nei miei sogni aveva sostituito la patria ho accettato la Germania, la lingua tedesca, il popolo tedesco”.

  2. paolo pegoraro ha detto:

    Mi chiedo se, raccontando la storia del giovane figlio che lascia la casa paterna per un paese lontano dopo aver riscosso la sua parte di eredità, il Poeta non intendesse anche tutto questo. Lì l’aspetto mangereccio del movimento andata/ritorno – il contatto con la sostanza nutriente della realtà, insomma – è ancora più accentuato: si passa dalle carrube mangiate dai maiali al pane dai servi, per poi concludere con il vitello del padre. Un vitello che, senza l’incertezza del viaggio, sarebbe rimasto a ingrassare insospettabilmente nella propria stalla; perché chi non esce di casa non sospetta neppure di avere un capretto.

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