Il male senza parole: Stefano Jacomuzzi

All’inizio del 2004, anno che si è rivelato di particolare fortuna per la narrativa breve (1) , è uscita postuma anche un’agile raccolta di racconti di Stefano Jacomuzzi, Il male senza parole e altri racconti per i tipi della Joker, e a cura di Franco Pappalardo La Rosa. L’autore, meglio conosciuto come insigne italianista, negli ultimi anni di vita (è scomparso nel 1996) si è cimentato anche come narratore, pubblicando i romanzi Un vento sottile (1988), Le storie dell’ultimo giorno (1993), e Cominciò in Galilea (1995). Il male senza parole raccoglie sei brevi racconti, non inediti, poiché già tutti pubblicati su diversi quotidiani nell’arco di tempo corrispondente a quello di pubblicazione dei tre romanzi. Scrive Pappalardo La Rosa nella preziosa introduzione che «se nulla aggiungono (ma ne siamo sicuri?) allo Jacomuzzi romanziere, questi racconti ne integrano e ne arricchiscono, almeno, la poliedrica complessità». (2) In questo senso può leggersi innanzi tutto l’ultimo, Il trono e la croce, in cui rivivono le suggestioni, le speranze e le ansie della Palestina dei tempi di Gesù. La chiamata degli apostoli Giacomo e Giovanni viene rievocata con le parole e pensieri di Zebedeo, loro padre, che attraversano l’attesa per il ritorno dei figli a continuare il suo mestiere di pescatore di lago. È un’attesa che lo stesso Zebedeo intuisce vana, e tuttavia la delusione, mai palesemente espressa, che serpeggia nei suoi pensieri non sfoga in apprezzamenti critici sulla scelta dei figli, e neanche sullo strano rabbi che glieli ha portati via. Sulla riva del lago mentre cala la sera, Zebedeo medita sul destino dei figli, che indovina imperscrutabilmente legato a quello del maestro, anche se il senso di tutto ciò che ha visto accadere sotto i suoi occhi gli sfugge. Riesce solo ad intuire una misteriosa grandezza in un destino che l’intelligenza non comprende:

«Non ho fame quest’oggi, moglie. Togli il pesce dal fuoco e getta sulle braci foglie di menta e di aniceto, perché il profumo arrivi fino a Gerusalemme. Sento che hanno eletto un re, quest’oggi. Ma non riesco a vedere su che trono lo hanno innalzato» (3).

È l’attenzione, intensa ma vana, di chi non è stato chiamato, e tenta con i suoi poveri mezzi la decifrazione del mistero dell’incarnazione. Ne resta al di qua, come tanti del suo tempo, ma non c’è dubbio alcuno sul suo essere uomo di buona volontà. Molte e singolari sono le contiguità, e non solo tematiche (peraltro le più immediatamente evidenti), con l’ultimo romanzo di Jacomuzzi, Cominciò in Galilea, tanto da far pensare al racconto come a materiale non utilizzato per la stesura del romanzo e rielaborato in narrazione autonoma (4). La tecnica narrativa, anche se semplificata, appare, infatti, molto simile. Nel romanzo gli stessi episodi sono sistematicamente raccontati da due diversi io narranti, con conseguenti divergenze di focalizzazione e spostamenti di punto di vista, l’uno proprio dell’apostolo Andrea, l’altro dello stesso Gesù. Due «prime persone» molto diverse: da un lato il tentativo umano di capire l’inconoscibile, dall’altro il miracolo della progressiva rivelazione al Cristo stesso della propria natura divina. In Andrea s’incarna una fede pertinace ed ingenua, privilegiata dall’ascolto diretto dell’annuncio del mondo nuovo, irrobustita dalla concretezza dei fatti di cui l’apostolo è quotidianamente testimone, ed aliena da simbolismi ed interpretazioni metaforiche che rischieranno di inquinare la fede dei secoli a venire. Nella prima persona di Gesù è il desiderio più audace (fino a sfiorare il sacrilegio) e più umanamente comprensibile di ogni uomo religioso, quello di capire ab intimo, di penetrare i misteri dell’incarnazione, della passione e della risurrezione, in una condizione spirituale sempre pencolante tra il peccato di superbia intellettuale e la nostalgia suprema di una fede assoluta. La prima persona di Zebedeo è simile a quella di Andrea, ma rimane al di qua della fede: troppo tenui sono per lui le tracce per seguire il rabbi. I suoi figli l’hanno fatto, e ciò è per lui sufficiente per accordare umana fiducia a quell’uomo, ma il senso del trascendente che da lui promana lo sfiora soltanto:

«Non riesco però a provare rancore, anche se è venuto a portarmi via i figli. Non riesco a pensarlo come uno dei folli predicatori, che appaiono di tanto in tanto e annunciano fiamme dal cielo, rovina e punizione. Avevo letto sulla sua faccia come un presagio di cose gravi, ma anche pace e letizia, e una promessa di semplicità e dolcezza. Forse anch’io, se avessi avuto l’età dei miei figli…» (5).

Come per Andrea, il suo racconto in prima persona è anche il limite su cui si attesta la sua conoscibilità delle cose. Narra solo ciò che è manifesto ai suoi sensi, ma ne ricava incertezze, contrariamente a quanto si aspetta, confinato dentro il recinto dell’intelligenza umana che da sola può smorzare le inquietudini, ma difficilmente riesce ad estinguerle. E tuttavia, come nei pensieri di Andrea (che ha già la fede), anche in quelli di Zebedeo (uomo in ricerca, senza fede compiuta) non c’ è angoscia: al massimo un accontentarsi della modestia delle proprie possibilità, una pacata accettazione della propria piccolezza nei confronti del mistero su cui si affacciano.
La scena centrale del racconto è presente anche nel romanzo, dal quale Il trono e l’altare riprende uno dei temi su cui l’autore si è più intensamente esercitato. Il cuore del messaggio evangelico è per lui, infatti, nel privilegio accordato all’umiltà dello spirito, ad una semplicità che è attitudine esistenziale, salvezza per l’anima e al tempo stesso tramite per gioire appieno dell’intensità di questa nostra vita terrena. Di qui, per contro, la negatività attribuita al potere, al predominio dell’uomo sull’uomo, come ad un elemento spurio che offusca il modo più vero di essere vivi su questa terra. Dice, infatti, Gesù a Zebedeo:

«Tu non sai di potenza, Zebedeo, non sai di dominio, ma sai che se alla sera sopraggiunge il pianto, ecco, al mattino il tuo Dio farà nascere la gioia. E tu lo preghi per questo. Ma loro… Si contendono un posto nel mio regno e non conoscono il trono su cui devo salire. E quanti dopo di loro continueranno a contendersi nel mio nome un posto nei regni della terra! Io benedico la tua vita disarmata, Zebedeo» (6).

Lo stesso episodio narrano in Cominciò in Galilea le due voci di Gesù e di Andrea. Su di esso convergono i punti di vista di Andrea (narratologicamente “esterno”, e in qualche misura “voce” dei fedeli, anche di quelli che verranno) e di Gesù stesso, che dice:
«Ho portato il peccato di molti e ho offerto me stesso in espiazione. Il Padre mi ha dato in premio le moltitudini, perché in Sion mi concedo alla morte e sono annoverato tra gli empi. Questo è il mio regno, Giuda, non quello che tu attendi. E voi non conoscete ancora il trono su cui devo salire» (7).
Identica nei due brani riportati è quindi l’espressione che suggella il senso dell’intero discorso di Cristo, («il trono su cui devo salire»), la cui centralità nel racconto è rivelata anche nel titolo. È nell’immediatezza del paradosso del trono e nella drammaticità della sua antitesi, la croce, che s’incentra la forza evocativa di Il trono e la croce. Ma è la semplicità di un «vivere disarmato» che rende vivibile la vita, lontano da bramosie di potere e aneliti di gloria mondana, ed il Gesù narrante di Cominciò in Galilea lo conferma, quasi con le stesse parole udite dallo Zebedeo del racconto:
«Il vecchio Zebedeo guarda in giro, stupito per l’improvviso silenzio. Nel suo cuore c’è l’allegria per il buon pesce, la ciotola di vino che conserva ancora qualche sorso. Ed è felice per i figli che si trova attorno e per gli amici dei suoi figli. Nulla sa di potenza e di dominio, ma sa che se alla sera sopraggiunge il pianto, ecco, al mattino, il suo Dio farà nascere la gioia. E per questo lo prega. Mi guarda per capire. Non dico nulla, ma benedico la sua vita disarmata» (8).
Le povere possibilità umane a malapena consentono di lambire la verità sul mistero che pervade l’esistenza, ma questo non è di per sé ragione di affanno. Lo sguardo dei protagonisti di Jacomuzzi, se non riesce a penetrare gli abissi, coglie tuttavia con affetto le cose della vita di tutti e di tutti i giorni e le colma di meraviglia e di amore:

«Io guardavo Gesù e mi ero accorto che i suoi occhi erano diventati tristi. Nel mio cuore c’era molta allegria per la cena, per la ciotola di vino che conservava ancora qualche sorso. E per i miei figli che mi trovavo intorno, e per gli amici dei miei figli» (9).

Così Zebedeo nel racconto. Non esiste soltanto, dunque, la dimensione escatologica, nella fede dei cristiani, e Jacomuzzi sottolinea che il Regno si compie già adesso, nel tempo della storia, in un al di qua che è anche gioia per i doni che ci sono offerti, elargiti a chi vive la pienezza di «una vita disarmata». Si conferma anche qui dunque quella lettura dell’evangelo in certa misura «francescana», in cui i valori massimi si concretano nella semplicità di intenti e nella letizia da essa derivante, che innerva la particolare tenerezza verso ogni manifestazione della vita, così caratteristica nello Jacomuzzi autore di romanzi. La stessa tenerezza pervade, infatti, Natali, che narra di un viaggio tra Spagna e Portogallo compiuto da due amici alla vigilia di Natale. Il protagonista rievoca nella sua memoria di agnostico antichi versi di una preghiera in latino, che attraversava i suoi Natali nell’età dorata dell’infanzia. Il soccorso prestato ad una partoriente trasportata al più vicino ospedale rende più concreto, più carnale ancora il racconto che sta rievocando mentalmente, tentando di ricostruire l’antica preghiera:

«Cerca di non pensare a quello che sta succedendo dietro di lui. Di fronte a una nascita si è sempre sentito a disagio, come di fronte a un mistero troppo semplice e troppo profondo. Un mistero incomprensibile e alto, anche se fatto di terra e di viscere… Viscera! Ma sì ecco che ritorna il canto, ritornano le parole!
Castae parentis viscera
Coelestis intrat gratia…
Mio Dio, la coincidenza! Proprio lì si era arrestata la sua memoria, proprio lì doveva riprendere la sua foga!» (10).

Non ci sarà conversione o ritorno alla fede, alla fine, per l’uomo (Jacomuzzi rifugge dal troppo ovvio), ma un’attenzione non più distratta per la storia raccontata nel canto di fede, che

«non raccontava, una accanto all’altra, una dopo l’altra, vicende terrene, ma attraversava la terra come una ferita; non ne raccontava una delle tante vicende, ma pretendeva di racchiuderne il destino eterno» (11).

In una delle prove narrative dove più è trattenuta l’effusione emotiva, la tenerezza di Jacomuzzi per il mondo è tutta interna, non proclamata; è invece sostanza della storia raccontata. È una memoria dell’infanzia che riporta al protagonista la storia della natività, e ne innesca la successiva riflessione. Per lui ha risalto non il contenuto, ma la nostalgia per il riecheggiare di suoni dal significato strano, che solo più tardi avrebbe decifrato, con l’atmosfera di fiaba e d’attesa che in anni lontani ricollegava a quei suoni:

«Ha chiuso gli occhi e ascolta con trepidazione venire alla superficie, quasi un piccolo miracolo, non solo le parole, ma anche quel senso di gioioso infantile smarrimento che ne aveva accompagnato nell’infanzia la scoperta» (12).

La cordialità dello sguardo dell’autore sulle cose del mondo si traduce altrove in sorridenti apologhi, in cui la prima persona pare sorreggere storie autenticamente autobiografiche. Si tratta spesso di divagazioni su un nucleo narrativo minimo, come nel caso in cui un sogno evoca circostanze anche troppo precise, e non molto edificanti, della situazione politica del paese (Ma al mattin il ver si sogna?), o un manifesto di un’agenzia di viaggi suggerisce un modo opposto e più consapevole di viaggiare rispetto alla ricerca dell’esotico a tutti i costi, tramite l’insegnamento – ed il filo del paradosso è felicemente tirato all’eccesso – del più esotico dei classici, Robert L. Stevenson (Via dai soliti Mari del Sud). In un’altra occasione, si rievocano i primi decisivi incontri con i libri nell’epoca dell’adolescenza, spensierata ma non troppo se il ritrovare alcuni decenni più tardi un libro di Puškin, gli fa ricordare, – quasi una personalissima madeleine proustiana, – l’ultima volta che lo aveva scorso: il giorno della dichiarazione di guerra, l’inizio della seconda guerra mondiale. E, a posteriori, riesce ad individuare una funzione della letteratura che nessuna nequizia può far venir meno:

«Rimasi per qualche istante immobile, poi guardai il libro dove pure doveva esserci lotta e sangue e morte e non riuscii più a raccapezzarmi. Era un’ondata a cui non ero ancora preparato. Ma sentivo, oscuramente sentivo, che quei libri, proprio quelli sopra tutto, in file verdi e arancione, avrebbero finito per farmi da diga, per restituirmi quando che sia la bussola. Il che è avvenuto e vivo ancora adesso di quel credito» (13).

Occultata in un bozzetto autobiografico, la sobria, quasi scarna, dichiarazione di fede è tuttavia assoluta: la letteratura come «diga» alla disumanità del mondo, che non si esaurisce in una funzione meramente consolatoria, ma plasma, «restituisce la bussola», rende all’uomo ciò che vivendo può perdere.
Di gran lunga più significativo appare il primo dei racconti della raccolta, Il male senza parole, piccolo gioiello narrativo che in una cornice fiabesca e surreale sigilla insieme un’inconsueta densità tematica e un’intensa moralità. Un generale alla vigilia dell’attacco decisivo alla città nemica che sta assediando da tempo, nell’accingersi a scrivere le disposizioni per il suo stato maggiore, si accorge con stupore di non riuscire più ad articolare le parole attinenti alla guerra.

«Pensò di incominciare con un preambolo solenne, quasi un impegno con se stesso: “Sono fermamente deciso a far sì che questa giornata sia quella che ponga fine alla…” Non riuscì ad andare avanti. Non gli veniva in mente la parola pronunciata migliaia di volte» (14).

Nemmeno sul vocabolario sono più presenti:

«Ci doveva essere un’altra parola, anzi molte altre, tutte più o meno della stessa specie, tra guarnire e gufo. Ne era più che sicuro, diamine! Una parola così comune…
Guardò con rabbia il vocabolario e gli parve che fosse diverso da quello usato solitamente. Eppure la copertina, l’autore erano quelli… Ah, ecco! Era molto più sottile, come se fossero scomparse delle pagine. Eppure l’impaginazione era esatta, e nelle pagine non si vedeva alcun vuoto, mentre le sfogliava rapidamente con rabbia e con un’ansia dentro che cresceva» (15).

Il Generale capisce che quell’impotenza espressiva non si annida nella sua immaginazione, né è prodotta da qualche misteriosa afasia o amnesia subitanea, ma che sta avvenendo un fenomeno molto strano, che non coinvolge solo le parole, ma anche i concetti e le azioni che le parole rappresentano:

«Erano scomparse parole, gruppi di parole, e con la loro scomparsa a poco a poco anche i concetti finivano per farsi incerti, svanire… Perché anche un concetto, un’immagine, un pensiero hanno bisogno di parole per nascere, nascono insieme con esse… […] [Ricordi, fatti, avvenimenti] gli venivano tutti chiari nella mente, con i nomi dei personaggi, dei luoghi, ricordi dell’infanzia, della scuola, degli amori, e tutti avevano le loro parole giuste, che si lasciavano pronunciare senza sforzo, tranquille, logiche, come le cose che uno adopera tutti i giorni, tutti i momenti ella propria vita. Ma d’improvviso, quando cercava di affacciarsi alle azioni e alle vicende che lo avevano portato fin là, a quel suo posto così in alto, così carico di potere, allora era come un franare nell’abisso, nel buio delle cose che non si possono dire, che non hanno mai trovato parole per esistere e che quindi non sono mai nate, o sono morte con la morte delle parole che le nominavano» (16).

Ma la circostanza autenticamente eversiva si evidenzia subito dopo, quando si scopre che la scomparsa della parte violenta del vocabolario non è un episodio soggettivo, una tutto sommato innocua forma di follia che ha inopinatamente colto il comandante, ma un fenomeno assai più generale.

«Gruppi di saggi, riuniti con estrema urgenza dai Governi qua e là nel mondo, avevano cominciato ad intravedere gli aspetti del fenomeno. Finché si parlava di cose semplici, di vita comune, dei problemi quotidiani, fino a che ci si confidavano sentimenti, pensieri, ricordi, tutto filava come sempre. Quando ci si imbatteva in qualcosa che riguardava violenza, lotta, sopraffazione, con tutti gli strumenti che l’uomo aveva scoperto durante i secoli per esercitare questo tipo di attività, allora erano guai. Non c’erano più le parole, non si poteva più combinare niente di concreto, e a poco a poco anche le idee legate a queste cose divenute innominabili sarebbero svanite, perdute» (17).

A tutto ciò non è data, ovviamente, alcuna razionale spiegazione, salvo che lo sia l’improvvisa visita al generale di tre strani personaggi che chiude il racconto.

«Parlavano tutti e tre insieme, ma al Generale le loro parole suonarono chiarissime.
“Generale… Stiamo seguendo da mesi una stella cometa, che è apparsa nelle nostre terre, molto lontane da qui. Ci siamo accorti che indicava questo luogo e ieri sera si è come fermata sulla città qui davanti. Le chiediamo il permesso di entrare in città, per vedere se sia successo qualcosa di nuovo”» (18).

Le chiare ascendenze buzzatiane (19) del testo non ne sminuiscono il valore, che si svela via via più evidente a mano a mano che se ne approfondiscono gli aspetti principali. Non ne intaccano anzitutto l’autonomia della narrazione, il cui esito in prospettiva cristiana determina la distanza rispetto al modello: i tre visitatori, trasparente richiamo ai re magi, paiono alludere ad una nuova epifania messianica (nuova? ma l’avvento di tempi nuovi non dovrebbe essere una rinnovazione senza fine?), dove la mitezza di cuore si rivela in un’inedita manifestazione di forza della parola. E mentre frequenta il surreale sulle orme di Buzzati, Jacomuzzi sviluppa il suo racconto in favola allegorica dalla costruzione perfettamente equilibrata. Il Generale non è il male, e neanche gli uomini che stanno per lanciarsi gli uni contro gli altri in un assalto che sarà feroce sono il male. Il male è altrove, il male è nelle parole che gli uomini hanno inventato per rappresentarlo, per produrlo in forme perennemente rinnovate e per infliggerselo vicendevolmente. Ma anche questa constatazione è ancora insufficiente, se non sorretta dall’intuizione che è il cuore del racconto, nonché la vera morale nascosta, dietro quella più evidente rinchiusa nel finale. L’idea e il segno che la rappresenta sono tanto inestricabilmente connessi, che laddove la rappresentazione non è possibile, sbiadisce anche il concetto rappresentato. Nella morale tutto sommato consolante della favola jacomuzziana, il significante inopinatamente prevale sul significato, e l’inesistenza di quello rivela l’inconsistenza di questo. Ne risulta rovesciata la prospettiva consueta su cui ci si adagia nella graduazione del male, di cui si sostiene che tanto più è smisurato, tanto più supera la capacità di essere raccontato. In questo racconto è paradossalmente l’opposto: se il male non si può dire, allora non esiste. D’altronde, da un punto di vista più strettamente narrativo, l’atto del descrivere non è più esterno al lacerto di vita che rappresenta, ma è parte di esso. La vita – tutto il male e tutto il bene che in essa si alternano – allora è anche nelle parole che la raccontano. In questa prospettiva può confermarsi anche nei racconti il senso di una delle cifre più proprie della narrativa di Jacomuzzi, consistente nella contemplazione affettuosa delle forme molteplici in cui la vita si esprime, di cui urge dar notizia con parole che ci confidano una sempre nuova meraviglia.

Luigi Preziosi

Da “Bollettino ‘900”, 2005, n. 1 – 2. (www. 3unibo.it/boll900/numeri/2005-i/)

NOTE
1. Si pensi soprattutto all’antologia La qualità dell’aria (Roma, Minimum Fax, 2004), a Ch. Raimo, Dov’eri tu quando le stelle del mattino gioivano in coro (Roma, Minimum Fax, 2004), a G. Conti, Un medico all’opera (Parma, Guanda, 2004), e, anche se a rigore ancora del 2003, a V. Parrella, Mosca più balena (Roma, Minimum fax, 2003), che ha tuttavia ottenuto definitiva consacrazione nel 2004.
2. F. Pappalardo La Rosa, Nota introduttiva a S. Jacomuzzi, Il Male senza parole e altri racconti, Novi Ligure, Joker, 2004, p. 10.
3. S. Jacomuzzi, Il Male senza parole ed altri racconti, cit., p. 82.
4. Anche le date di pubblicazione sembrano avvalorare questa ipotesi: il romanzo esce nel 1995, ed il racconto appare su «Avvenire» del 15 aprile 1995.
5. S. Jacomuzzi, Il Male senza parole ed altri racconti, cit., p. 78.
6. Ivi, p. 81.
7. S. Jacomuzzi, Cominciò in Galilea, Casale Monferrato, Piemme, 1995, p. 112.
8. Ivi, p. 114.
9. S. Jacomuzzi, Il Male senza parole ed altri racconti, cit., p. 80.
10. Ivi, pp. 33-34.
11. Ivi, p. 37.
12. Ivi, p. 29.
13. Ivi, pp. 61- 62.
14. Ivi, p. 16.
15. Ivi, p. 17.
16. Ivi, p. 20.
17. Ivi, p. 22.
18. Ivi, p. 24.
19. Di Buzzati, Jacomuzzi è stato profondo conoscitore e studioso appassionato, come dimostrano alcuni saggi, raccolti nel volume Sipari Ottocenteschi e altri studi (Torino, Tirrenia Stampatori 1987), nonché (sia consentita una testimonianza personale dell’autore di queste note) alcuni magistrali corsi universitari.

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