Musica in nero. A colloquio con Davide Sparti

Davide Sparti, professore associato all’Università degli studi di Siena, ha appena pubblicato due libri (bellissimi) sul jazz: “Musica in nero. Il campo discorsivo del jazz” (Bollati Boringhieri) e “Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz” (Il Mulino). Abbiamo posto al professor Sparti alcune domande scaturite dalla lettura dei suoi testi.

In che modo il jazz, come arte performance-based, è penetrato nei “codici” americani? Una certa insofferenza nei confronti del linguaggio “alto”, il prediligere l’oralità, il ricercare una lingua scritta molto vicina al parlato, il plurilinguismo: questi aspetti della cultura americana possono essere ricondotti ad una matrice jazz e all’agire afro-disaporico?

È una buona domanda, anche se è difficile rispondere, anche considerando che una cultura è sempre determinata da una pluralità di fattori. Sottolineerei in ogni caso quanto segue: gli Stati uniti sono stati, almeno storicamente, un paese di immigrazione, e se questa circostanza comporta plurilinguismo e ibridazione culturale, comporta anche un ampio ricorso all’oralità ed al linguaggio parlato (piuttosto che scritto), se non altro per intendersi reciprocamente.

Quanto il linguaggio del jazz ha influenzato, ad esempio, la pratica dei revival religiosi? Quanto è penetrato nel protestantesimo popolare, nel suo modo di fare proselitismo?

Una cultura prevalentemente puritana come quella americana ha sempre avuto bisogno di recuperare fonti di ritualità e partecipazione, che non sono immanente alla religione protestante. Di qui il debito (anche inconsapevole) nei confronti dell’agire performativo, afro-diasporico in particolare, di qui anche il revival religioso. Attenzione però, nel caso delle pratiche religiose afroamericane, il rito aveva spesso un fine, oltre che espressivo, liberatorio, in quanto momento che permetteva di affrancarsi temporaneamente da una società razzista. E poi la funzione della musica nera non può ridursi a quella di «redimere» bianchi immalinconiti, persino nei casi in cui questi ultimi rendono indirettamente testimonianza ed omaggio nei confronti di chi ha inventato il medium che permette loro esprimersi.

Anche il rock, e i suoi rituali, hanno una radice comune con il jazz? Quanto la cultura e l’estetica (bianca) del rock sono debitrici di quella afro-americana? Tra il corpo sonoro del rock e quello del jazz ci sono punti di contatto?

In effetti ci sono vari punti e momenti di contatto. Menziono due esempi fra i molti. Le White Panthers, costellazione di gruppi, fra cui molti suonatori di rock, esplicitamente ispirati dalle pantere nere. E Steve Stollman, fratello di Bernard Stollman, fondatore nel 1964 della casa discografica del free jazz, la Esp disk. Ebbene, Steve organizzerà concerti di free jazz e di rock sperimentale a Londra, ricorrendo all’etichetta Spontaneous Underground). Tanto nel jazz quanto in certe forme del rock la musica è non prodotto ma attività nella quale sono coinvolti corpi sonori. In entrambi i casi domina l’elemento performativo. Il jazz ha ereditato l’impulso all’esibizione che gli viene dalla necessità culturale degli schiavi di non solo sopravvivere ma di essere visti, notati, riconosciuti, come se i movimenti, le grida, i suoni, rivelassero una sorta di performativo biologico, legato alla pretesa alla vita, o comunque un momento in cui i due assi dell’espressività, quello biologico e culturale, si intrecciassero. Resta però una differenza cruciale. Nel jazz, ma non nel rock, è centrale la pratica dell’improvvisazione, la capacità di generare il nuovo, il guizzo inatteso di cui parla Calvino in Lezioni americane (capitolo Leggerezza). Il rock resta musica composta per essere ripetuta, ed è rivolta ad un pubblico che vuole riascoltare, non ascoltare, qualcosa di già noto.

In che modo il “rito performativo” può costituire una “dimora”? in che modo la natalità può esprimersi nel rito performativo?

Un po’ come la musica permette al giovane di “cambiare stanza”, così il jazz ha offerto un luogo dove entrare, e dove abitare creativamente, a molti afroamericani. Lo esprime bene John Coltrane: jazz “is a matter of being at home”. Lo ribadisce il pianista e band leader Sun Ra: “suonavo perché lo trovavo edificante e piacevole in un contesto, quello americano, in cui l’essere neri era tutt’altro che piacevole. Dovevo avere qualcosa, e quel qualcosa consisteva nel creare ciò che nessun altro avesse eccetto noi. Sono venuto così a disporre di una casa del tesoro musicale, una casa che nessun altro possiede”. E lo sottolinea infine il pianista sudafricano Abdullah Ibrahim: “Il vantaggio di essere un artista è che in ogni caso non sei mai veramente mandato via da casa” (lo stesso gruppo di Ibrahim si chiamava proprio Ekaja, ossia casa in lingua sudafricana). Consideriamo lo spettacolo totale di Sun Ra (ma potremmo prendere in esame anche all’Art Ensemble of Chicago). Si tratta di un vero e proprio rito messo in scena per intensificare la formazione di un’identità collettiva («cosmo drama» o «myth-ritual», lo chiama Sun Ra). Oltre al ricorso a strumenti insoliti, l’apparato scenico del rito comprende cantanti, ballerini, attori (che talvolta si limitano a camminare), declamazione di versi poetici, costumi, una sfera illuminata sospesa dal soffitto, giochi di specchio, diapositive, filmati proiettati sulle pareti, un mangiafuoco, pittori impegnati a dipingere sulla ribalta, uso di eventuali scenografie lasciate sul palco da spettacolo precedenti, marce e processioni verso ma anche con l’uditorio, dentro e fuori dallo spazio performativo. Tramite il ricorso a tali effetti scenici evocatori di situazioni passate (pre-schiavistiche) o future, situazioni in cui la collettività si sente solidale, si produce un’inflazione di quell’identità marginale, che così si conferma e rafforza. Pur circolando in un mondo basato sulle regole del mercato, la musica assume nuovamente una funzione rituale e cessa di essere solo merce e intrattenimento; diventa «esecuzione» culturale che sempre e di nuovo «realizza» (ancorché esteticamente) la comunità. Una comunità performativa, priva di sovranità, che però connette musicisti e uditorio in qualcosa che trascende i singoli individui (non vi si può assistere come ad un concerto, semplicemente stando a guardare: si viene risucchiati dentro l’aver luogo dell’evento), e che configura un altro modo di stare insieme, una diversa ipotesi di società. Rileva il batterista Elvin Jones, a proposito della scena musicale di Detroit negli anni Cinquanta: «Era incredibile, non si era mai visto nulla di simile: un’intera comunità che partecipa attivamente allo sviluppo della forma». Che questo rituale trasformi la musica in un «luogo», nonché in un veicolo per accedervi, è ribadito dalla seguente vicenda. Nel 1988, a Berlino Est, Sun Ra è stato (a quanto pare) rapito da un certo numero di uomini, i quali lo hanno portato al planetario e sottoposto ad un interrogatorio circa il programma spaziale nero: come intende trasportare la gente nello spazio? Che tipo di mezzo intende usare? Che tipo di carburante? Sun Ra rispose così: «Non usiamo benzina. Uso il suono. Non avete ancora raggiunto tale stadio di sviluppo su questo pianeta; non siete ancora in grado di usare il suono per alimentare navi, auto e il riscaldamento delle case. I vostri scienziati non ci sono ancora arrivati. Ma succederà; con il giusto tipo di musica, ovviamente». Il concetto di natalità, introdotto da Hannah Arendt, è un concetto difficile, che rimanda non tanto al fatto biologico della nascita, ossia all’introduzione di una discontinuità radicale, quanto alla capacità di rispondere a tale novità, avviando qualcosa di ulteriore. Cosa è, in fondo, che rende un atto un inizio? La circostanza che qualcuno, sul suo sfondo, avvia qualcosa, assumendolo come vettore di un agire ulteriore. Facendo cioè di quell’evento l’occasione per iniziare qualcosa di nuovo. “Nuovo”, allora, va collegato non tanto a quello che l’attore ha in mente, quanto al tessuto di interazioni in cui un’azione va ad inserirsi e contribuisce ad alimentare, suscitando una costellazione di reazioni dinamiche.Sotto questo profilo, e torno al jazz, la performance improvvisata non solo è una novità per chi la suona, ma può «liberare» delle risposte nell’uditorio, che si trova trascinato in situazioni inattese, a cui può rispondere in modi inattesi. Ecco il circuito generativo della natalità.

Quando Tom Waits distorce e agisce sulla sua voce o esplora il confine tra suono e rumore, quando Bruce Springsteen omaggiando Peter Seeger finisce per cantare i gospel, non è ancora una volta un modo di tornare alla radice afro-diaporica?

Certamente. La creazione della musica non codificata in partitura ha luogo nel sito più ovvio e più affascinante: il corpo umano, che viene reso parte della creazione artistica. Di qui la capacità di sfruttare la tensione fra l’esprimibile e l’inesprimibile, fra il linguistico e il biologico. Le tessiture sonore, il timbro (rauco o liquido), i piccoli scarti ritmici, sono tutte discrepanze (da dis-crepare, produrre un crepitio o suono differenziato) non analizzabili sintatticamente, che fanno dell’imprecisione una virtù, e rinviano al dominio del vocalico. Il problema di questo ritorno alle radici afro-diasporiche da parte di cantanti rock è che non sempre le fonti sono esplicitamente riconosciute, rischiando di trasformare un omaggio in una appropriazione indebita. Talvolta questa assume forme molto sottili: ad esempio, finché certe sonorità vengono generate dagli afroamericani, sono oggetto di riprovazione, se non semplicemente ignorate. Quando vengono riprese da una star del rock appaiono di colpo legittime, ed anzi coraggiosi esperimenti estetici. Un’altra distinzione è la seguente. In molti musicisti rock la performatività coincide con la messa in scena, magari anche rabbiosa. Ma nel caso del jazz la performance non è solo drammatizzazione; come detto sopra, si tratta di rivendicare uno spazio ed un tempo vitale. Live vuole dire non solo “dal vivo” ma anche che accade ora, nel presente, ed essere presenti nel presente è per un afro-americano precisamente ciò che gli è stato storicamente negato.

Quanto rimane oggi dei tentativi di un Jack Kerouac o di Pollok di applicare canoni jazzistici al loro modo di fare arte? Anche gli artisti post-human, nel momento in cui tentano un superamento del corporeo, non fanno che puntare nuovamente la loro attenzione sul “corpo sonoro”? In che modo il jazz si è riversato nella letteratura nera americana? Il caso di Toni Morrison….

Di nuovo una domanda difficile, anche perché la risposta presuppone la capacità (che non ho) di prestabilire quale jazz e quale arte sarà rilevante domani. Non si può nemmeno escludere che il jazz abbia esaurito il suo potenziale generativo, e dunque non possa fare più da modello per le arti visive o la letteratura. Concordo comunque con lei: finché resteremo corpo senziente ed espressivo, dotati di canali carnali e sensibili di accesso al mondo, il confine del corpo resterà invalicabile. Quanto ai nomi, non mancano. In Musica e nero e in Il corpo sonoro mi soffermo soprattutto su Kerouac, Pollock ma pure su Cortazar e Kurt Schwitters. Nel campo delle arti visive potremmo aggiungere fare i nomi di deKooning, Larry Rivers e Kline, che seguivano tutti attivamente il jazz. Fra gli afroamericani ricordo invece Roman Bearden, pittore e collagista, cresciuto a Harlem, frequentatore di molti jazzisti. In campo letterario, insieme a Thomas Pynchon, l’esempio principale è proprio Toni Morrison. Il jazz è presente non solo tematicamente ma soprattutto stilisticamente. Potremmo tracciare un parallelo fra il romanzo intitolato proprio Jazz, con la sua relativizzazione della distinzione fra protagonista (o voce narrante) e figure collaterali ed un brano come Nefertiti, scritto da Wayne Shorter ed inciso dal quintetto di Miles Davis nel 1967 su un disco dal titolo omonimo. Esso consiste in un tema suonato e risuonato tredici volte (la prima volta dal sassofono, il secondo con la tromba aggiunta, la terza, quarta e quinta i fiati suonano all’unisono, le restanti suona solo la ritmica, ad eccezione della decima, undicesima e dell’ultima, in cui i fiati rispuntano in modo ora rotto, ora echeggiante, ora sincrono).E tuttavia il brano implica di volta in volta sottilissimi scarti, variazioni, giochi di contrasto (ritmici, accordali, sonori), e si rivela di alternanze fra momenti di tensione e momenti di rilassamento nella propulsione, sfumature nel tessuto e nel volume sonoro, che si addensa e si assottiglia. Non solo. Con un’inversione della distinzione canonica fra accompagnamento e solista, l’improvvisazione è delegata alla sezione ritmica, non alle due voci soliste. In altre parole, Nefertiti è privo di assolo, o meglio: è tutto un assolo, un lungo assolo in cui e da cui i diversi musicisti entrano ed escono. Ecco, questo andamento fluido ed imprevedibile, in cui la suddivisione dei ruoli è sovvertita, vale anche per molto romanzi di Toni Morrison.

Leggi i 5 commenti a questo articolo
  1. Tonino Pintacuda ha detto:

    Ottimo pezzo, Luca…
    Per chi non lo sapesse, Luca è autore del bellissimo “Oltre il confine – Miti e visioni d’America nelle canzoni di Bruce Springsteen”.
    Tutte le info qui: http://www.pardesedizioni.it/SchedaLibro.asp?IDLibro=53

    E qui la prefazione del nostro Spadaro: http://www.pardesedizioni.it/SchedaEstratto.asp?IDLibro=53&IDEstratto=40

  2. Antonio Cracas ha detto:

    Cosa c’entro io?
    Vorrei, sapere come mai sono stato menzionato.

    Grazie.

    Antonio Cracas

  3. Antonio Cracas ha detto:

    Cosa c’entro io?
    Vorrei sapere come mai sono stato menzionato.

    Grazie.

    Antonio Cracas

  4. Cristiano Maria Gaston ha detto:

    Il suo nome compare nel trackback inserito nel primo commento: vuol dire che è stato nominato in un post di un altro blog che a sua volta cita il nostro pezzo.

    Se segue il link di quel commento troverà il post che la menziona e potrà eventualmente chiedere lì.

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