Viaggio attraverso l’Eneide VIII

È Turno che, al principio del libro, sintetizza in sé l’esplodere del conflitto. Basta che egli porti l’insegna di guerra fuori dalla rocca di Laurento; tutto ciò che accade di seguito sembra scivolare, con naturalezza, da questo primo gesto: i cavalli vengono ferrati, le armi impugnate, tutto il Lazio stringe patti d’alleanza.
L’immagine di Messapo, Ufente e Mezenzio, impegnati a radunare truppe, evocano sulla pagina di Virgilio un’altra immagine, tristemente nota al poeta delle Bucoliche, quella dei campi devastati dai soldati, prima ancora che la guerra infuri.
Mentre affilano le armi contro di lui, Enea ci appare corroso dal dubbio. Ancora una volta Virgilio non ci mostra il suo eroe impavido e adiaforo, bensì perduto nei meandri della propria coscienza: egli è inflessibile nel condurre a compimento il suo destino, eppure, proprio perché avverte la profondità e l’importanza del ruolo che gli è dato vestire, non c’è momento del poema in cui Enea non viva con intensa problematicità la sua sorte. Il poeta afferma esplicitamente che Enea era “tristi turbatus pectora bello”, cioè turbato in cuore dall’amara guerra (v. 29). L’eroe troiano reca in sé l’impronta di un sentimento che Virgilio, che ogni Romano poteva sentire come proprio, una profonda avversione alla guerra, la quale trae sostanza dalla piena coscienza di ciò che la guerra è, di quanto nefaste siano le sue conseguenze.
Il lettore contemporaneo di Virgilio doveva sentire come proprio questo dolore, cagionato da un conflitto che bussa alle porte delle case, come erano state le guerre civili, che a lungo, fino a qualche anno prima, avevano dilaniato Roma.
A sostenere Enea, come sempre nel momento del dubbio, è una divinità. Il dio Tevere, comparendogli in sogno, gli assicura che è giunto in luoghi che gli offriranno una sicura dimora (“hic tibi certa domus”, v. 39), lo rassicura sull’esito della guerra che si sta preparando, gli profetizza la fondazione di Alba Longa da parte di Ascanio e ribadisce che è ineluttabile che tutto ciò che gli è stato promesso si realizzi (“haud incerta cano”, v. 49). Infine, dopo avergli ordinato di piegare l’ira di Giunone con sacrifici e preghiere, il fiume scompare.

Enea si desta e rivolge alle Ninfe e al padre Tevere un’accorata preghiera di ringraziamento, “accipite Aenean et tandem arcete periclis”, accogliete Enea e tenetelo lontano dai pericoli (v. 73).
Dunque prepara due biremi, arma i compagni e, dopo avere sacrificato a Giunone, come il Tevere gli aveva raccomandato, salpa.

I Troiani risalgono il Tevere e giungono a un povero stato, la futura Roma, retta da Evandro, di origine arcade. Il legame di questi con la penisola ellenica non è, secondo i commentatori di Virgilio, un omaggio alla cultura greca e al contributo che essa ha dato alla cultura latina; piuttosto in questo personaggio, originario dell’Arcadia, mitica progenitrice di pastori e cantori, il poeta avrebbe voluto alludere a un’essenza profonda di Roma, votata alla pace.
Evandro, insieme al figlio Pallante e ad altri concittadini, ci appare intento a svolgere riti in onore di Ercole. Quando vedono le navi procedere lungo il fiume, Evandro e i suoi si fermano preoccupati.
Pallante vieta che il rito sia interrotto e, imbracciate le armi, si dirige verso la nave, chiedendo agli stranieri chi siano, quale è la loro patria e, soprattutto, se vengano a portare pace o guerra. Gli risponde Enea, “Troiugenas ac tela vides inimica Latinis, / quos illi bello profugos egere superbo, / Euandrum petimus”, vedi uomini di stirpe troiana e armi nemiche ai Latini, / che esuli ci respinsero con una guerra sprezzante, / cerchiamo Evandro (vv. 117-119). Il condottiero teucro chiarisce subito di essere venuto a cercare un’alleanza militare.
Il giovane figlio di Evandro è colpito dall’importanza dei nuovi ospiti e, offrendogli la destra, li invita a seguirlo e a parlare personalmente al padre.

Rivolgendosi al re, Enea fa leva su due concetti, la comune origine da Atlante e i comuni nemici latini. Questi sono i presupposti sui quali gli chiede di costruire una solida alleanza.
Evandro dapprima lo scruta, quindi erompe in parole di stima e di affetto, ricorda la giovanile amicizia con Anchise, che il volto di Enea gli rammenta. L’alleanza, che adesso il figlio di quell’antico sodale è venuto a chiedergli, è per lui già stretta da lungo tempo. Invita, quindi, Enea e i suoi uomini a partecipare alla mensa, cui si apprestavano.

Ercole e Caco di Michelangelo

Ercole e Caco di Michelangelo

Saziata la fame Evandro stesso spiega l’origine dei riti, celebrati in onore di Ercole. Indica all’ospite una spelonca, lì viveva il terribile Caco, figlio di Vulcano, terrore dei viandanti e degli abitanti di quelle terre. Lo spazio dinnanzi alla sua grotta era sempre sporco di sangue recente e teste imputridite facevano mostra di sé dinnanzi all’entrata.
Un giorno si trovò a passare di lì l’Alcide, reduce dall’uccisione del gigante tricorpore Gerione, portava con sé una mandria. Caco – che Dante metterà nell’Inferno quale custode dei ladri – riuscendo a eludere la sorveglianza dell’eroe, rubò alcuni tori e alcune giovenche, badando a non lasciare tracce, che potessero accusarlo. Bastò, tuttavia, che una delle mucche della mandria muggisse e un’altra, nascosta da Caco rispondesse, perché l’Alcide si avventasse contro il mostro.
Questi, terrorizzato, si rifugiò nella spelonca, chiudendola con un enorme masso. Neppure questo servì a fermare Ercole: dopo avere percorso in lungo e in largo l’Aventino, scorse una roccia gigantesca, con la forza che la sua fama gli conosceva, la sradicò e aprì alla luce del sole l’antro. Caco non rinunciò a difendersi ma, sputando fuoco e fumo dalle fauci, cercò di tenere lontano l’eroe. Nulla valse contro la sua ira, gettatosi tra le fiamme, senza esitazione, uccise Caco con le nude mani e ne trascinò il cadavere fuori dalla spelonca, tra la gioia degli abitanti del luogo.

Allora tutti gli astanti si cingono le tempie con il pioppo, sacro ad Ercole che, cinto dalle fronde di questo albero, era sceso negli inferi, e due semicori, costituiti uno di anziani e l’altro di giovani, narrano le imprese dell’eroe, come Enea di origine divina e inviso a Giunone.

Terminato il rito, tutti si dirigono verso la rocca. Enea ammira quei luoghi e Evandro, in una sorta di passaggio di consegne, racconta all’eroe troiano le loro origini mitiche.
Un tempo abitavano quelle terre Fauni e Ninfe, creature forti ma prive di civiltà, finché dall’Olimpo giunse Saturno, che gli diede leggi e il nome Lazio, reggendole in quella che fu l’età dell’oro. Poi, il desiderio di potere e di ricchezza produsse la guerra e i tempi subirono un’orribile corruzione, aggravata dall’arrivo, a fianco dei Latini, di Ausoni e Sicani.
Anche Evandro rivela di essere giunto in quella terra spinto dal fato, attraverso gli oracoli della ninfa Carmenta e di Apollo.
Virgilio ci mostra, attraverso gli occhi di Enea, la Roma che verrà tra i monumenti di questo povero stato: la Porta Carmentale, il Lupercale, il Campidoglio, il Foro. Ciò che importa non è l’infondatezza storica di questa ricostruzione, che ha un valore fortemente simbolico: Enea è costantemente in bilico tra il passato e il futuro di Roma, in ogni momento del suo viaggio; è il suo stesso ruolo, di eroe fondatore e capostipite della gens Iulia, che ne fa un tramite, che sintetizza in lui il senso della storia a venire. Il viaggio di Enea è quello di Roma, che, mediante i versi del poeta, non tanto celebra ma ricerca, si appresta a rinvenire, nel proprio passato e tra i propri miti, l’essenza che ha perduto in decenni di guerre intestine.

La notte cade su Enea, che Evandro ha accolto nella sua umile casa, la madre Venere è tuttavia turbata. Si rivolge, dunque, allo sposo Vulcano, ricordandogli che mai, nel corso della guerra di Troia, aveva chiesto armi per il figlio, ben sapendo che sarebbe stato inutile, poiché il destino di Ilio era segnato. Eppure ora che Enea combatte lontano, per volere dello stesso Giove, gli chiede delle armi, che, forgiate dal Dio, possano sostenerlo in battaglia. Venere, usando gli strumenti della seduzione, riesce a piegare il marito, aeterno devictus amore, il quale promette che quanto la sua arte potrà realizzare, con ferro ed elettro, sarà posto a disposizione di Enea.

A metà della notte Vulcano inizia la sua opera. Si reca nella sua fucina, tra le isole Eolie. Qui i Ciclopi, Bronte, Sterope e Piracmone sono intenti a forgiare le armi degli dei. C’è chi leviga i fulmini di Giove, chi attende al carro di Marte, chi si occupa dell’egida di Pallade.
Vulcano irrompe e chiama tutti a una nuova opera: “Tollite cuncta – inquit – coeptosque auferte labores, / Aetnaei Cyclopes, et huc advertite mentem / arma acri facienda viro” , lasciate ogni cosa – disse – e mettete da parte i lavori iniziati, / Ciclopi dell’Etna, ascoltemi / c’è bisogno di forgiare le armi per un uomo vigoroso (vv. 439-441).
Virgilio ci trascina entro l’antro dei Ciclopi, perdendoci nel vortice dei mantici, tra l’alternarsi ritmico delle braccia, il fluire del ferro e dell’oro.

L’alba finalmente sorge sulle povere case di Evandro. Il re ed Enea, accompagnati da Pallante e Acate, si incontrano di prima mattina, per discutere della nuova alleanza e della guerra imminente.
Evandro sa di non avere grandi risorse da offrire ai Troiani, ma ciò che si appresta a dischiudere a Enea è ben più prezioso. La città di Agilla, non lontano di lì, abitata da popolazioni Etrusche, è da poco insorta contro Mezenzio, che la governava da tiranno con crudeltà e ferocia. Questi è riuscito a salvarsi presso Turno ma contro di loro tutta l’Etruria si è unita. Le truppe pronte all’attacco sono state fermate da uno strano oracolo: non dovranno muovere guerra se non al seguito di un condottiero che non sia di stirpe italica. Gli Etruschi avevano chiesto allo stesso Evandro di guidare l’esercito ma egli aveva esitato, data la non più giovane età, e lo stesso Pallante, nato da una madre Sabina, non sembrava l’uomo richiesto dall’oracolo: ora era chiaro che Enea era l’uomo atteso dai Fati, a lui senza dubbio si riferiva l’oracolo.
Inoltre Evandro promette di porre a suo fianco Pallante, alla guida di un gruppo scelto di cavalieri arcadi.

Ancora una volta Enea è nel dubbio, ancora una volta un prodigio gli conferma che gli Dei vogliono che la sua impresa si compia. Un fulmine e un tuono attraversano il cielo, seguiti da uno squillo di tromba. Tutti i presenti levano lo sguardo verso il cielo e lì, tra le nubi, risplendono le armi, nate dalle mani dei Ciclopi. Il condottiero troiano comprende immediatamente: “ego poscor Olympo”, sono richiesto dall’Olimpo (v. 533).

Si levano al cielo sacrifici e preghiere. Ogni cosa viene preparata per la partenza; Enea e i suoi sono muniti di cavalli. Le madri atterrite fanno voti agli Dei. Lo stesso Evandro, stringendo la destra del figlio, in procinto di andare, invoca Giove che lo conservi incolume.
Stant pavidae in muris matris oculisque secuntur / pulveream nubem et fulgentis aere catervas”, le madri stanno atterrite sulle mura e seguono con gli occhi / la nuvola di polvere e le truppe splendenti di bronzo (vv. 592-593).

Giunti a un bosco sacro a Silvano, non lontano da dove Tarconte e gli Etruschi hanno posto il loro accampamento, Enea e i suoi si fermano per rifocillare i cavalli. Qui, vedendo il figlio solitario, in disparte, Venere si fece avanti, per porre tra le mani di Enea i doni che erano stati annunciati.
La dea si manifesta al figlio e deposte le armi sotto una quercia, cerca il suo abbraccio.
L’eroe rimane abbagliato dalla vista delle armi, rigira tra le mani l’elmo, la spada, la corazza, l’asta, gli schinieri di oro ed elettro, ma soprattutto rimane incantato dallo scudo. Qui Vulcano, che conosceva i vaticini, aveva effigiato la storia di Roma: la lupa che allatta i due gemelli, il ratto delle Sabine, Tarquinio il Superbo, cacciato dai Romani, e Porsenna, che aveva osato fornirgli rifugio. Trovavano spazio nello scudo possente anche i terribili Galli, che erano riusciti a penetrare fino al Campidoglio. Da un’altra parte erano rappresentati anche i riti dei Salii e dei Luperci. Persino Catilina, tormentato dalle Furie nell’Averno.
La battaglia di Azio campeggia maestosa, da un lato Ottaviano, con a fianco Marte, che difende i patrii Penati, dall’altra Marco Antonio, schiavo della sposa egizia Cleopatra. Da una parte Anubi e le altre divinità del pantheon egizio, dall’altra Minerva, Apollo, Venere, Nettuno, come se tutte le divinità dell’Olimpo non avessero avuto reticenze sulla guerra legittima di Ottaviano.
Vulcano aveva inciso chiaramente il trionfo di Cesare Augusto, e tutti i popoli pronti a recargli omaggio e a riconoscerne il potere.
Ancora una volta Enea si trova sulla soglia del Fato, avvinto da un futuro che ignora ma che è lì, gli si offre tra le mani. Egli ne è lo strumento via via sempre più consapevole. La sua consapevolezza, i suoi dubbi ne fanno un eroe che sceglie di essere tale, che costantemente dice di sì al destino, voluto per lui ma a cui ha sempre scelto di non sottrarsi. Questo fa di Enea un eroe particolare, in lotta non tanto con gli altri quanto con sé stesso, alla ricerca costante del proprio destino.
Pur non capendole, si delizia di quelle immagini, che Vulcano ha creato per lui e, quando solleva lo scudo sul braccio, solleva in esso il Fato dei suoi discendenti, “attollens umero famanque et fata nepotum” (v. 731).

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. valentina ha detto:

    ragazzi qst riassunti sn fatti benissimo,grazie

  2. chiara ha detto:

    uaoooooooooooooooooooooo e il meglio del meglio tank you

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