La poesia e la bellezza: intervista a Franco Loi

Si può parlare della bellezza? E cosa c’entra la letteratura?

Della bellezza è sempre difficile parlare. Anche quando si è innamorati non si riesce a parlare della bellezza. Si rimane statici di fronte alla bellezza. Si rimane colpiti, ma ci si sente diversi. E allora si resta zitti e nasce il silenzio. La poesia nasce proprio dal silenzio, la poesia è il tentativo di dire qualcosa che in realtà non si può dire. Quando Dante è davanti alla luce di Dio, dice: “Qui oltre non posso più parlare, qui alla parola manco possa, all’alta fantasia qui manco possa” ovvero qui manca la potenza, qui manca la possibilità. Io penso che anche davanti alle cose più semplici è difficile dire. Il dire è sempre condizionato dalla precarietà e dall’impossibilità della parola di dire esattamente ciò che sente. Quando sei innamorato, infatti, tenti invano di dire. Come fai a dire la potenza e la bellezza di ciò che provi e, nello stesso tempo, far sentire la tua presenza all’altro? Dici una parola banale come “ti amo”, ma è una parola che non dice tutto ciò che hai dentro. È sufficiente all’altro per capire la tua emozione a seconda di come lo dici. È la tonalità della voce che dice “ti amo” che fa intendere all’altro qualcosa di ciò che senti, ma dire davvero ciò che senti è difficile. Allora di fronte la bellezza si sta zitti. Certo oggi non si guarda la bellezza, è questo il guaio. La gente non guarda, non ascolta, non è abituata a vivere con l’attenzione che la vita vorrebbe, perché se tu vivi in quanto sei attento alla vita, in quanto guardi vedi senti. La vita è fatta di questo, se tu non ascolti è come se in parte dormissi o sei un po’ morto. La gente un po’ è diventata massa. Non guarda, non sente e quello che dice è ripetizione di qualcosa che ha sentito alla televisione, da quelli che pensa siano più colti di lui… In passato l’uomo che lavorava con le sue mani aveva un atteggiamento di conoscenza straordinario perché lavorando imparava il rapporto con la natura, con se stesso e, quindi, sapeva dire cose eccezionali, sapeva trasmettere la bellezza anche se non la sapeva dire. Invece oggi la gente dorme e allora è come se fosse un pochino morta. C’è in Dante un passaggio in cui c’è uno che sta dentro la pece e un altro dei dannati viene fuori e dice:”Non parlare con questo qui perché la sua anima è gia qui ma lui è ancora giù che cammina, sembra vivo ma non lo è”.

Questa insensibilità alla bellezza non nasce anche da un eccesso di pensiero, razionalità, astrazioni nel modo con cui siamo soliti conoscere e descrivere la realtà?

Il mistero non è astratto. C’hanno insegnato, per esempio, che un fiore nasce da un seme e che il seme è formato in un certo modo e oggi siamo capaci di una minuziosa analisi di cosa è un atomo, fino all’estremo. Ma come diceva Einstein, è vero che più andremo avanti ad esaminare più troveremo qualcosa di sottile, ma la realtà rimane lo stesso misteriosa. E’ la realtà, è la concretezza che è misteriosa. Einstein dice anche che la teoria è un punto di partenza, non è mai un punto di arrivo mentre la gente crede che sia un punto di arrivo. La parola della letteratura nasce dal rapporto col mistero delle cose. Più si ha un rapporto stretto e concreto con le cose con le persone e con la natura, più noi scopriamo il mistero. E più è facile che ci stupiamo di fronte ad ogni cosa e di fronte ad ogni persona. Le arti – la poesia, la musica, la pittura – hanno questa funzione importante di trasmettere la cultura a tutti i livelli in modo semplice, piano, un modo che tutti capiscono, anche l’ignorante o una persona semplice che magari non ha mai letto un libro di filosofia e magari non è mai andata a scuola a sua volta, ma capisce, intuisce, quando vede un affresco o un bel quadro o sente la musica o legge una poesia. Questa è la funzione dell’arte ed è per questo che le cosiddette avanguardie sono degli imbrogli, imbrogli culturali che nascono dall’individualismo e dalla pretesa del potere di rendere difficile ala gente il rapporto con la cultura. Un po’come l’Azzeccagarbugli del Manzoni: parla latino perché la gente pensi che lui è una persona importante. Parla una lingua che non conosce e non capisce e la stessa cosa fa l’avanguardia, rende astruso il semplice parlare, il semplice dire. La prima avanguardia, dal 1898 al 1905, nasce per reazione al neo classico che aveva reso retorico il parlare. E allora ecco che si distruggono le frasi, si va a capo, si inventano cose sempre più astruse e impossibili per distruggere questo atteggiamento retorico della lingua. Succede così anche nella musica, è un momento di grandi cambiamenti ma all’interno poi di questi movimenti ci sono poi dei grandi poeti, musicisti e dei grandi pittori i quali usufruiscono di questa rottura con il neo classico per rendere di nuovo semplice e accessibile il neoclassico. Oggi è assurdo l’esistenza di una neoavanguardia, oggi c’è proprio bisogno di colpire la gente e smuoverla da una situazione di sonno, di non ascolto della vita, delle cose, richiamarla al senso di se.

L’arte è, quindi, un buon antidoto alla perdita di senso, al cedere alla tentazione del nulla?

Il perdersi è determinato soprattutto dalla non attenzione a se stessi. Ci si annulla dentro le cose e dentro ai rapporti. Non si sta attenti e quindi la nostra persona diventa quasi complemento oggetto delle relazioni che noi abbiamo con il mondo, ma non siamo soggetti. Non siamo in attesa, non in attenzione, non in comprensione di ciò che si muove dentro di noi mentre abbiamo un’esperienza. Viviamo qualcosa e non la viviamo. Allora questo perdersi è proprio perdere il rapporto con il nostro essere. Di solito noi ci diamo un’immagine di noi appena passata la prima infanzia. A volte neanche passata la prima infanzia ci diamo un’idea mentale di noi e ne siamo orgogliosi, ci sembra che il nostro Io sia quello lì e appena qualcuno ci dice qualcosa che mette in discussione il nostro Io ci arrabbiamo, rimaniamo male o abbiamo una reazione negativa e crediamo con questo di aver risolto il problema del nostro essere. In realtà io non lo so ancora adesso chi sono. Quando mi dicono poeta io rispondo sempre che io non lo so. Certo scrivo poesie ma scrivere poesie, come dicono i greci, è fare e il fare fa parte della mia vita, ma io chi sono, chi è che fa dentro di me? Allora l’attenzione, il riflettere, il pensare continuamente, nei nostri rapporti, la vita e quindi che reazione abbiamo, poco alla volta ci fa conoscere un poco di più chi siamo. Impariamo, per esempio, che quando Cristo dice “ama il tuo nemico”, dice una cosa straordinariamente vera perchè il tuo nemico è dentro di te. Ciò che fai di negativo, odioso, antipatico dentro di te lo rifletti sull’altro e ti costruisci nell’immagine dell’altro qualcosa che invece è dentro te perché noi abbiamo dentro tutto, tutti gli uomini. Allora per imparare questo bisogna imparare a stare attenti. Gramsci, comunista, diceva: “rispetta e poni attenzione al tuo nemico, perché hai qualcosa da imparare”. Lui aveva imparato in carcere il senso dell’attenzione, del continuo apprendistato che l’uomo fa nella vita. Siamo qui per imparare qualcosa di noi. E c’è qualcuno che impara fino in fondo cosa siamo. Io stamattina accennavo al fatto di quando si ascolta una musica: entriamo in un movimento di pensiero, emozioni, sentimenti, affetti e anche il corpo si muove. Tanto è vero che spesso quando ascoltiamo il jazz o il rock il corpo si muove da solo e non è che noi battiamo il corpo perché siamo stati attenti, ma istintivamente il corpo essendo colpito nei suoi centri nervosi reagisce e fa il movimento di battere il tempo. Quasi sempre è istintivo, non è che lo pensi, così si muove il corpo e così si muovono anche gli altri aspetti di noi, il pensiero inconscio, le nostre memorie sopite emergono e allora la poesia, la musica, l’arte hanno questa funzione di far uscire da te ciò che è nascosto a te stesso. E allora impari. Quindi non è impossibile, è possibile a tutti, solo che noi non abbiamo la pazienza di ascoltare, di stare attenti. Troppo spesso ci perdiamo, viviamo per abitudini, facciamo le cose senza rendercene conto. C’è un grande filosofo austriaco che affermava: “Io passavo tutti i giorni davanti alla foresta e però io questa foresta non l’avevo mai vista. Una sera al tramonto la guardo con vera attenzione, la guardo e la vedo. La vedo e la sento come persona viva tanto che mi sento uno con la foresta e, in quel momento, sento un ritmo dentro di me”. La afferma anche un poeta e un filosofo francese contemporaneo questa cosa che il ritmo che noi sentiamo è il ritmo che viene dalla nostra comunione con il mondo con l’universo. Noi diciamo che guardiamo, che vediamo, ma non è tanto vero. Vediamo l’immagine che siamo abituati a vedere ma non guardiamo davvero. Io mi ricordo che avevo 10 anni e ho provato la stessa cosa, tanto che non me lo sono più dimenticato: andavo e tornavo da scuola tutti i giorni, un percorso che avrò fatto centinaia di volte durante l’anno, e un mattino vedo un geranio sopra il davanzale della finestra, un semplice vaso di gerani. Ebbene, questo vaso di gerani era così vivo e così intenso che emanava un luce straordinaria e io ne sono rimasto tanto colpito che ho ancora dentro la memoria di questo fatto. Quando si scrive e quando si dipinge, si dice o si scrive o si dipinge un’immagine di ciò che è dentro di noi che abbiamo visto e che però magari non ce ne ricordiamo più perché non ne abbiamo più il ricordo. E’ bello il ricordo perché viene da un “ritornare con il cuore” e non con la mente. Se si capisce questo, cambia il nostro atteggiamento verso le realtà e verso la memoria. Nel profondo di noi c’è tutto, c’è la vita, c’è addirittura il nostro passato. Io ho una memoria incredibile sotto questo aspetto. Un giorno, negli anni tra il 1974 e il 1975 ho fatto un disegno a mia madre di un appartamento con tutta la disposizione dei mobili, di dove erano le stanze, quella di mia madre e dove c’era la mia culla, ai piedi di letto in un angolo, il lettone, i due comodini e anche i disegni con dei cammelli, delle palme sulle lampade, sui paralumi. L’ho fatto vedere e mia madre che ha detto:”Questa è la casa dove sei nato e dove sei stato solo fino a otto mesi”. Ecco dove può arrivare la memoria. Io mi ricordo anche di quella casa e mia madre che era una donna semplice ha aggiunto: “però hai sbagliato la porta della cucina e la porta del bagno perché la cucina era qui e il bagno qui mentre tu hai invertito le due cose”. Io mi ricordo anche che camminavo gattoni e mi ricordo il disegno delle losanghe del pavimento disegnate sul pavimento blu e rosse. Camminavo gattoni e vedevo queste cose e a un certo punto vedo da un buco grande entrare scrosci d’acqua, questa era l’impressione.Dopo ci ho pensato, era la luce del sole e io per la prima volta me ne stavo li a guardare statico questa luce che mi inondava tutto, ma io credevo che fosse acqua che mi bagnava, tanto è vero che quando poi ho riflettuto da grande e avevo letto da uno scienziato dire che la luce è a onde, si propaga ad onde, proprio come l’acqua, come le onde del mare e io l’avevo preso come onde, era la luce. Allora la memoria e la conoscenza vanno coltivate, ci fanno penetrare di più in noi. Cominciamo a vedere quali sono i nostri difetti, come siamo capaci anche noi di non amare, di odiare, di avere antipatie, come siamo capaci anche di avere paura. La paura principale è di perdersi ma anche la paura di tutte le cose. La paura è una cosa strana perché è più mentale che non vera costitutiva del nostro essere. Tanto è vero che mi ricordo nel 1954 quando c’è stata a Milano una manifestazione politica contro la Nato ed era venuto il generale comandante in capo delle truppe Nato e allora il Partito Comunista aveva mobilitato tutti per manifestazioni in tutte le parti d’Italia. A Milano ero responsabile politico di due sezioni e quindi ho organizzato i miei compagni e ci siamo detti: “Sentite ragazzi, qui di solito andiamo in piazza e andiamo a cantare ‘datemele datemele’ perché noi giriamo e giriamo e poi la Polizia ce le suona, allora noi dividiamoci in gruppi, quando la Polizia si schiera io darò l’ordine e noi a gruppi di quattro ci lanciamo verso la Polizia. Durante tutto il tragitto però, per strada durante il corteo, in corso Venezia e corso Vittorio Emanuele, mi ricordo che io avevo una paura terribile. Avevo paura perché dicevo “ho parlato con i ragazzi ma se affronto la Polizia ci va di mezzo il lavoro, vado a finire in galera. Avevo paura, e più volte sono stato tentato di uscire e tornarmene a casa, ma l’orgoglio dei compagni che io avevo preparato ad attaccare mi ha trattenuto. Allora siamo andati in piazza della Scala a manifestare davanti al Comune e, ad un certo momento, ci troviamo circondati dalla Polizia. Allora per orgoglio, non perché era andata via la paura, io dico “Compagni all’assalto!” e andiamo all’assalto in quattro, io, un altro compagno che era a capo di un altro gruppo e una ragazza che era a capo di un altro gruppo, noi quattro andiamo all’assalto. Ebbene, da quel momento in cui ho detto compagni all’assalto, io non mi ricordo più niente. Lì ho capito l’errore, cioè che mi è andata via la memoria. Se penso come siamo andati a
l di là del gruppo di poliziotti, bardati da guerra, con gli zaini, gli elmetti, gli sfollagente e i calci dei moschetti, io non me lo ricordo come ho fatto a passare. Probabilmente si sono aperti e ci hanno lasciati passare, hanno visto questi matti che sono andati all’assalto da soli e si sono allargati e ci hanno lasciato passare, probabilmente, ma io non me lo ricordo, la mia memoria non ricorda niente di quei dieci metri che ho fatto. Poi mi ricordo che io, Sergio e Rosanna, tutti e tre ad un certo punto sentiamo gridare dietro di noi “Vigliacchi, assassini”. Allora ci fermiamo sia io che Sergio sul marciapiede, come mi fermo sento due braccia intorno alla vita, guardo con la coda dell’occhio ed erano i poliziotti che gridavano, noi tutti e due pensavamo saranno i compagni che si sono ripresi finalmente, invece no erano i poliziotti che ci inseguivano e gridavano a noi. Io mi fermo e vigliaccamente ho dato un calcio dietro e quello la è rotolato per terra, mi ha mollato, io ho fatto due salti sono andato sull’altro marciapiede e ho tirato fuori l’espresso che allora era un giornale e mi sono messo li a leggere. Il mio amico invece, più leale di me, gli ha dato dei pugni sulla testa e l’ho visto che era là, preso anche lui, dava dei pugni ma quello là non lo ha mollato e si è fatto la bellezza di nove mesi a san Vittore per ribellione alla forza pubblica. La ragazza è corsa avanti e in fondo alla via c’era il questore che le ha detto “signorina, dove sta andando cosi di corsa?” e hanno preso anche lei. Però lei se l’è cavata perché la Teresa Noce le ha tirate fori, portando le suore al comando di Polizia. Allora la paura cosa è? La paura è un fatto meccanico. Più pensavo, più avevo paura, ma nel momento dell’azione la paura non c’era più. Allora abbiamo paura di tutto ciò che la nostra mente immagina. Noi immaginiamo che siamo poveri, che non abbiamo niente, abbiamo paura che ci manchi anche quel poco che ci serve per vivere. Se poi siamo ricchi abbiamo ancora più paura, tanto è vero che i ricchi hanno le guardie del corpo, le case con gli allarmi, tutto per difendersi e per difendere la loro ricchezza, ma è un fatto mentale, nel momento in cui non pensassero più di dover difendere le loro ricchezze non avrebbero più paura.

Perché scrivi poesie in dialetto?

Perché mi è capitato. Io scrivevo racconti, scrivevo tutte cose che non avevano niente a che vedere con la poesia. Studiavo filosofia, scienza, religione e poi mi è capitato tra le mani il Belli che mi ha colpito molto. Mi sono detto: “come è straordinario che questo qui può dire tante cose, io cerco sempre di scrivere un grande romanzo e invece si può dire tutto con pochi versi e con poche parole”. Scrivevo in italiano perché pensavo che l’italiano fosse la mia lingua e invece, essendoci nel mio romanzo due personaggi che erano un impiccato giovane operaio che avevo visto durante la guerra e poi i fucilati i morti che avevo visto durante la guerra buttati sui marciapiedi e, nello stesso tempo, parlare di un giovane soldato che andava a bussare alla porta di un casino. Ho detto “sono due popolani giovani, non posso farli parlare in italiano o parlare di loro in italiano” e così mi sono messo a scrivere in milanese. Come ho cominciato a scrivere in milanese ho scoperto due cose: da una parte che avevo il milanese dentro e non sapevo di averlo, di conoscerlo così bene. E dall’altra ho scoperto la poesia perché io non seguivo più la testa nello scrivere, ma mi lasciavo dire, come dice Dante Io mi son che quando amor mi ispira noto ovvero che quando l’amore soffia noto e a quel modo che ei ditta dentro che lui detta dentro io vo significando io vado riempiendo di significati. Significati di cultura e di lingua. Che poi il milanese sia concreto e sia fatto di cose molto più dell’italiano questo si sa tanto è vero che tutta la narrativa italiana scrive mettendo un dialetto all’interno della lingua italiana: Verga il siciliano, Svevo il triestino, Tozzi il suo toscano popolare, Pavese il piemontese. E certamente è un arricchimento forte della lingua quello dell’immissione della lingua parlata, della lingua orale che porta dentro il calore, la forza del proprio rapporto con le cose.

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