Su Cesare Pavese

di Giuseppe Oddone
A cent’anni dalla nascita di Cesare Pavese ci interessa riproporre qualche pista per comprendere la ricerca religiosa dello scrittore piemontese, le sue intuizioni, i suoi dubbi, la sua sofferta esperienza, sia perché il messaggio delle sue opere rimane un tesoro per tutti, credenti, non credenti, agnostici e scettici, sia per illuminare il dramma della sua vita e soprattutto della sua morte.
L’indagine di questa componente interiore ed ineliminabile dallo spirito umano, che ha sempre affascinato tutti i grandi poeti e pensatori, sollecitando una risposta, si svolge per Pavese in diverse direzioni.

La ricerca religiosa mitico-pagana dei Dialoghi con Leucò

La realtà dell’uomo appare a Pavese, influenzato dagli studi sul mito e dalla cultura classica greca, un groviglio inestricabile, magmatico, di divino e di umano, di immortale e di mortale, di libertà e di destino, di felicità e di dolore, di sogno e di incubo: in altre parole, di bene e di male. Egli non cerca una risposta a questo problema, almeno direttamente, nei testi cristiani, ma nelle tragedie greche, negli studi sul mito, nelle figure di Edipo, e dei giovani eroi come Endimione, Achille, Patroclo, Meleagro, segnati dal destino che grava su di loro, dal sangue, dalla morte, dal sesso, dal ”timore, dall’orrore perenne di compiere proprio la cosa saputa”(1).
Il destino fa emergere cose mostruose, perché il mondo dell’uomo è popolato non solo di ninfe, dei e semidei ma anche di terribili mostri e la nostra vita ne è segnata, il nostro sangue ne è impastato e certe azioni, certi impulsi di violenza e di morte, di sangue e di sesso, di autodistruzione esplodono improvvisi, perché siamo determinati da essi fin nel midollo del nostro essere, sin dagli albori della nostra vita: sulle colline dell’infanzia “fummo fatti quel che siamo”(2).
Influenzato soprattutto dalla tragedia greca, anche Pavese si dibatte tra la libertà, aspirazione tipica dell’uomo, ed il destino imposto dalla mano più forte degli dei. La soluzione al problema religioso è data in questa opera in una prospettiva pagana, immanente, naturalistica: il divino è proiezione di forze istintuali, positive e negative, e la donna ne è per così dire l’epifania: come Artemide – “la sua dolcezza è come l’alba, è terra e cielo rivelati. Ed è divina. Ma per altri, per le cose e le belve, lei la selvaggia ha un riso breve, un comando che annienta”(3) – e come Demetra – “per loro io sono un monte selvoso e feroce, sono nuvola e grotta, sono signora dei leoni, delle biade e dei tori, delle rocche murate, la culla e la tomba, la madre di Core”(4) – la donna esemplifica la forza immanente ed incontrastabile di una natura seduttiva e nello stesso tempo selvaggia e violenta, è realtà che dà vita e che dà morte, ora madre ed ora belva, ora furia distruttrice, ora collina, vigna, frutto della terra, polla d’acqua e schiuma d’onda.
In un caso le valenze positive del mondo, il pane e la vigna, vengono collegate al mito di Demetra e Dioniso, ai misteri eleusini, ma rilette in una prospettiva cristiana, come un’anticipazione mitica del più grande mistero cristiano, l’Eucarestia.
Allora gli uomini non sapranno il destino e saranno immortali….una volta che il grano e la vigna avranno il senso della vita eterna, sai che gli uomini vedranno nel pane e nel vino? Carne e sangue, come adesso, come sempre. E carne e sangue gronderanno, non più per placare la morte, ma per raggiungere l’eterno che li aspetta”(5).
Nei Dialoghi con Leucò Pavese ha davvero espresso il suo mondo interiore, segnato di divino e di terribile, di paure, di incubi e di desiderio di una vita libera serena, in un comunione quasi mistica con la bellezza della natura. In questa ricerca lo scrittore non ha trovato una soluzione positiva: siamo inesorabilmente segnati dal destino e dalla morte. O meglio se una soluzione c’è, se un riscatto è possibile, esso è dato solo dal rifugio nel mondo dell’arte, dalla contemplazione della bellezza di una natura divina e selvaggia, dalla magia di una prosa poetica colta, musicale, limpidissima.

La ricerca religiosa in prospettiva storico-cristiana ne La casa in collina

Più ricca e più documentabile è la ricerca religiosa, tesa ad approfondire il messaggio cristiano. Per diversi mesi, tra il 1943 e il 1945 Pavese trovò rifugio nel Collegio Trevisio diretto dai Padri Somaschi, “una scuola di preti”: il contatto con una comunità religiosa impegnata nell’educazione dei ragazzi, ma anche nell’aiuto a militari sbandati, l’amicizia con un giovane prete il P. Giovanni Baravalle, che diverrà il P. Felice de La casa in collina (capp. XVII – XIX), i piccoli episodi della vita con i ragazzi e gli assistenti in un ambiente cristiano spinsero Pavese a meditare sulla religione, a ragionare “come fossi credente”(6).
Religione è prima di tutto attenzione agli altri, fino a compromettere in tale scelta la propria vita: in questa ottica è fede anche non credere in Dio, purché uno si impegni per gli altri: Cate, la protagonista femminile del romanzo, atea ma impegnata con tutta se stessa nella lotta di liberazione e forte di questa fede, ricorda il principio che “la vita ha valore solo se si vive per qualcosa o per qualcuno”(7), che nella vita conta quello che si fa, non quello che si dice.
La fede, nel suo aspetto di liturgia cattolica, è anche un’accettazione della vita della natura, della sua ripetitività, una forma di protezione contro i mali della storia: “Nel giro dell’anno si riassume la vita. La campagna è monotona, le stagioni ritornano sempre. La liturgia cattolica, accompagna l’annata e riflette i lavori dei campi….. Quel vecchio mondo del culto e dei simboli, della vigna e del grano…. dava un senso ai miei giorni” (8).
Una tale concezione della fede cristiana è decisamente insufficiente, perché per avere con sé Dio “bisogna essere pronti a spargere sangue”, a sacrificare la propria vita, come hanno fatto i martiri di cui si legge nel breviario dei preti. “Si vuole che chi legge non dimentichi quanto costa la fede”(9).
Il cristiano quindi deve fare anche scelte coraggiose nei momenti critici della storia, forte della sua identità cristiana. Per il credente l’odio in nome di un’ideologia, sia essa fascista o socialista, è un peccato: “non lo sapete ch’è peccato?”(10) e di fronte alle sofferenze delle persone, senza distinzione, egli deve impegnarsi a rimediare, a lenire le sofferenze degli altri, nonostante le colpe degli uomini: “comunque sia andata, tocca a noialtri rimediare”(11).
Le atrocità della guerra vengono lette nell’ultima parte del romanzo in un’ottica cristiana, proiettate sul mistero della passione e della Redenzione di Cristo: il soldato repubblichino caduto nell’imboscata “irrigidito ginocchioni contro il fil di ferro, pareva vivo, colava sangue dagli occhi e dalla bocca, ragazzo di cera coronato di spine”(12). Anche se non lo dice espressamente, lo scrittore sa che Cristo sparge il proprio sangue per tutti, redime e dà una voce, un senso di dignità e di fraternità – al di là di ogni schieramento ed ideologia – al sangue sparso da tanti uomini, vincitori e vinti, in quella spietata “guerra civile”.
La conclusione del romanzo è una pagina che può scrivere solo uno che ragiona da cristiano: essa richiama alla mente analoghe riflessioni scritte dal Manzoni sui drammi della storia e della guerra: “Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso…. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione”(13).
L’esperienza personale cristiana e le riflessioni religiose ne Il mestiere di vivere

La ricerca religiosa si nutre di riflessioni, di indagini razionali sui motivi di credibilità, di esperienze personali: ritroviamo questi temi nel suo diario Il mestiere di vivere, soprattutto nel periodo in cui Pavese visse in un ambiente educativo cristiano, al Collegio Trevisio di Casale, sia pure come un anonimo e nascosto rifugiato politico. Infatti la maggior parte delle pagine religiose appartiene al periodo che va dal gennaio del 1944 all’aprile del 1945.
Egli abbozza una sua prova razionale dell’esistenza di Dio:
5 aprile 1945
…Si valuta una realtà, soltanto filtrandola attraverso un’altra. Soltanto quando trapassa in un’altra….. Ecco perché ‘essenza della poesia è l’immagine’. Di qui potrebbe dedursi che il mondo, la vita in generale si valorizzano unicamente avendo l’animo ad un’altra realtà, oltremondana. Diciamo, avendo l’animo a Dio. Possibile?
6 aprile
Affermi così l’esistenza di Dio in quanto premetti e postuli il valore del mondo e della vita. Ma è appunto questo valore che va dimostrato. Questo valore esiste. Tant’è vero che lo senti, e che cos’è un valore altro che una qualità che si sente? Che cosa significherebbe un valore oggettivo, ma non sentito?
”(14).
Dunque come la bellezza dell’immagine che avvince il poeta trapassa in un’altra realtà più autentica e lo rimanda ad essa, così il valore del mondo e della vita, percepiti dal soggetto come dati oggettivi, lo rimandano ad una realtà più alta, a Dio.
L’intuizione di Dio è legata alla percezione dei valori positivi del mondo e della vita. Non stupisce perciò che la fede in Dio arricchisca la vita dello scrittore:
9 gennaio 1945
Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio….Potrebbe essere la più importante annata della vita che hai vissuto. Se perseveri in Dio, certo. (Non è da dimenticare che Dio significa pure cataclisma tecnico – simbolismo preparato da anni di spiragli)
”(15).
L’idea di Dio illumina di un contenuto infinito tutto il travaglio del poeta verso il simbolo, tutti i pensieri che emergono dal subcosciente.
Qualche pagina di Diario accenna ad un’esperienza personale di Dio, anche se segnata dal dubbio ed dalle perplessità della mente e del cuore:
29 gennaio 1944
Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di divinità. E questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele. Una rinuncia a tutto, una sommersione nel mare di amore, un mancamento al barlume di questa possibilità.. Forse è tutto qui: in questo tremito del ‘se fosse vero’. Se davvero fosse vero….
1 febbraio
Lo sgorgo della divinità lo si sente quando il dolore ci ha fatto inginocchiare. Al punto che la prima avvisaglia di dolore ci dà un moto di gioia, di gratitudine, di aspettazione.. Si arriva a d augurarsi il dolore
”(16).
Questo è davvero il Dio cristiano che si manifesta a chi si fa piccolo, a chi chiede perdono e si inginocchia davanti a Lui. Anche il dolore umano sembra cambiare tonalità, illuminato da questo “sgorgo di divinità”.
Negli anni successivi l’esperienza religiosa appare affievolita e quasi dimenticata. Pavese è per così dire travolto dalle sue fatiche editoriali, dal lavoro creativo di scrittore, dal suo impegno politico, dalle sue illusioni e delusioni sentimentali, dalle personali angosce esistenziali. La religione non è più in relazione con il valore della vita e del mondo, affermato nelle riflessioni dell’aprile del 45, ma con la morte. Scrive quasi tre anni dopo, il 5 febbraio del 1948:
In religione non si guarda alla vita, ma alla morte, perché le cose della vita ricevono il loro valore dall’essere vedute dentro l’eternità, e cioè sopra ed oltre la morte”(17).
Già precedentemente, l’8 novembre 1947, aveva con un atteggiamento scettico preso le distanze dalla fede cristiana, pur ponendosi interrogativi religiosi e discutendo di abbandono a Dio e di grazia, ed inoltre il 21 novembre dello stesso anno aveva scritto sotto il peso della propria solitudine:
Il credente è sano, anche carnalmente – sa che qualcuno lo attende, il suo Dio. Tu sei celibe – non credi in Dio”(18).

Sensibilità religiosa nella coscienza di Pavese davanti al dramma della sua morte.

Le due concezioni religiose, quella irrazionalistica, mitica e pagana e quella razionale, storica e cristiana si alternarono e si sovrapposero nell’animo dello scrittore e determinarono le sue scelte anche di fronte al dramma della morte.
E’ significativo che i Dialoghi con Leucò fossero sul suo comodino nelle ultime ore della sua vita. Il 25 agosto 1950 alla sera aveva scritto all’amico Davide Laiolo:
Se vuoi sapere chi sono adesso, rileggiti ‘La belva’ dei Dialoghi con Leucò: come sempre avevo previsto tutto cinque anni fa”(19).
Pavese si identifica nel mitico giovane Endimione, amato da Artemide (la luna), a cui la dea concesse come grazia (o castigo) un sonno perpetuo. Come la Luna si univa ogni notte ad Endimione sul monte Latmo, così Pavese ha sentito nella sua vita il fascino mistico di una natura dolcissima che gli ha dischiuso i prodigi divini di bellezza delle sue colline e di tante donne, ma che lo ha anche segnato in modo terribile e selvaggio nel profondo con una vocazione alla violenza autodistruttiva ed alla morte, ripetendogli continuamente:
Tu non dovrai svegliarti mai”(20).
Lo scrittore sembra prigioniero del mito stesso che ha ricreato.
La terra è tutta piena di divino e di terribile…. anche noi siamo un poco divini”(21).
Artemide è sì la divina che ti affascina, ma è anche la selvaggia, la solitaria, la madre delle belve, che ti attira nel sonno della morte:
Non sai che il divino ed il selvaggio cancellano l’uomo?”(22).
E così Pavese, quando la depressione si impadronì di lui e l’impulso di morte divenne ossessivo, interpretò questo mito, che era emerso anni prima dal suo inconscio ed era stato oggetto di creazione artistica e scelse in conformità ad esso anche il suo modo di morire. Con sedici bustine di sonniferi in una stanza d’albergo sprofondò nel sonno perpetuo della morte.
Ciascuno ha il sonno che gli tocca, Endimione. E il tuo sonno è infinito di voci, di grida, di terra e di giorni. Dormilo con coraggio, non avete altro bene. La solitudine selvaggia è tua”(23).
Parrebbe che una torbida religiosità irrazionale ed immanente, segnata dal destino e dalla spinta a fare, come Edipo, la cosa da sempre saputa e segretamente temuta si sia impadronita completamente dello scrittore.
Ma non è così.
Emerge anche nitidissima nella morte di Pavese la componente cristiana della sua ricerca religiosa. I “ Dialoghi con Leucò” aperti alla prima pagina contenevano anche l’ultimo messaggio dello scrittore:
Perdono tutti ed a tutti chiedo perdono”(24).
E’ un messaggio tipicamente evangelico, perché nella concezione irrazionalistica del mito e del destino, non c’è nulla da farsi perdonare da nessuno; qui c’è il desiderio di una piena, totale riconciliazione con gli uomini, uno dei più alti e profondi sentimenti cristiani., che prelude alla riconciliazione con Dio.
Inoltre nell’ultima pagina del diario, scritta il 18 agosto 1950, quando Pavese sente che gli mancano ormai le forze per resistere all’ossessione che lo opprime, la presenza del Dio trascendente e misericordioso balena limpidissima:
La cosa più segretamente temuta accade sempre. Scrivo: o Tu, abbi pietà! E poi?”(25).
Pavese ha scritto cose meravigliose e profonde su Dio, ha percepito nella sua anima lo sgorgo di divinità, la dolcezza del regno di Dio, ha persino desiderato l’esperienza del dolore per avvicinarsi a Lui, ha affermato che è impossibile che Dio lasci perdere “anche una sola favilla di bontà e di amore, sia pure fasciata da tutta una corteccia di iniquità e di indifferenza”(26).
Ma la parola più vera e più bella su Dio, il Tu personale con cui ti confronti e a cui affidi la tua vita nel momento del dolore, è tutta in questo grido, vergato pochi giorni prima di morire:
O Tu, abbi pietà!
1 C. PAVESE, Dialoghi con Leucò, Einaudi, pag. 66
2 C. PAVESE, op. cit., pag. 67
3 C. PAVESE. op. cit., pag. 42
4 C. PAVESE, op: cit., pag. 151
5 C. PAVESE, op. cit., pag. 154
6 C. PAVESE, La casa in collina, Einaudi Tascabili, pag. 91
7 C. PAVESE, op. cit., pag. 30
8 C. PAVESE, op. cit., pag. 98
9 C. PAVESE, op. cit., pag. 98
10 C. PAVESE, op. cit., pag. 96
11 C. PAVESE, op. cit., pag. 97
12 C. PAVESE, op. cit., pag. 115
13 C. PAVESE, op. cit., pag. 122
14 C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Einaudi, pag. 273
15 C. PAVESE, op. cit., pag. 270
16 C. PAVESE, op. cit., pag. 248
17 C. PAVESE, op. cit., pag. 314
18 C. PAVESE, op. cit., pag. 309
19 D. LAIOLO, Il vizio assurdo, Oscar Mondadori, pag.340
20 C. PAVESE, I dialoghi con Leucò, op. cit., pag. 41
21 C. PAVESE, op. cit., pag. 40
22 C. PAVESE, op. cit., pag. 42
23 C. PAVESE, op. cit., pag. 43
24 D. LAIOLO, op. cit., pag. 339
25 C. PAVESE, Il mestiere di vivere, pag.362
26 C. PAVESE, op. cit., pag. 269

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  1. ndr ha detto:

    mi pone dei dubbi il fatto che una concezione religiosa possa definirsi “razionale”. le religioni, credo, abbiano un primo principio nella fede, nell’abbandono al credere che, e mi sembra sia tutt’altro, quest’abbandono, che razionale.
    che ci fossero da una parte spinte irrazionali, e dall’altra razionali, in Pavese, ok (d’altronde siamo tutti in ballo tra la nostra parte razionale e quella che lo è meno. e forse abbiamo un istinto che ci rende razionali, il che sarebbe un gran bell’ossimoro), ma inserire la seconda all’interno di una concezione religiosa mi sembra una forzatura.
    non è razionale credere, avere fede.
    ecco, questo non capisco.
    Il pezzo è interessante, ma nella brevità cede.
    Certo che, in Internet, lunghezze superiori sono ostiche, ma sarebbe forse opportuno rimpolpare i vari segmenti e offrirne la lettura in più volte.
    Così com’è mi pare limitante e per l’autore trattato, e per chi ha scritto il pezzo. vabbuò, considerazioni pomeridiane, niente più. ciao.

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