Prendersi cura

Sabato 10 maggio, alle ore 17 si tiene presso La Civiltà Cattolica (via di Porta Pinciana 1, Roma) una tavola rotonda sul tema La cura dell’uomo. Interventi di Teresa Gamucci, premio Bellisario per la ricerca medica – Mario Marazziti, pubblicista Comunità di Sant’Egidio – P. Francesco Occhetta S.I., sacerdote e giornalista. Modera P. Antonio Spadaro S.I.

Take CareChe cosa significa prendersi cura, curare, aver cura, curarsi di qualcuno o di qualcosa? Tutti questi termini fanno riferimento a una dimensione umana fondamentale che è quella della relazione.

Prendersi cura significa riconoscere che esiste altro da me e, anzi, che c’è un altro davanti a me. Ma non basta. Significa anche riconoscere che quell’altro mi interpella, mi chiede qualcosa, magari implicitamente. Se io mi prendo cura è perché in qualche modo avverto che l’altra persona per me è un appello vivente che sollecita e muove la mia capacità di agire, di pensare, di vivere.

Prendersi cura è avere un rapporto non dis-interessato… scoprire che tra me e gli altri c’è un inter-esse, c’è qualcosa. Io so che in realtà il mio successo in quanto persona passa attraverso la relazione. C’è un modo di intendere il nostro compito nel mondo che lo vede come far sì che gli altri stiano bene, rendere il mondo migliore. Specialmente la malattia, la povertà, l’ignoranza, il disagio, il negativo della vita sono, anche senza bisogno di parole, un appello. Questo appello può provocare o la paura o la commozione; o il fuggire o l’accorrere. E questo fa la differenza tra le persone. Meglio: questo fa la differenza dentro ciascuno di noi. Davanti a chi sta male o fuggiamo o accorriamo. Non ci sono alternative umane. L’indifferenza è la riduzione dell’uomo allo stato vegetale.

Allora l’esigenza di parlare della «cura» non è un optional. La capacità di prendersi cura è qualcosa che è alla radice di ogni atteggiamento positivo nei confronti della realtà.

Abbiamo dunque bisogno di parlare della cura dell’uomo attraverso l’esperienza di tre persone che vivono questa cura: un medico, un uomo impegnato nel sociale, un sacerdote. Come prende forma la cura? Che aspetto prende? Come opera? Che significa?

Il medico si deve confrontare con la possibilità della morte. E proprio questo dunque lo accende della voglia di vincere, di varcare la soglia oltre la quale la morte sembra vincere senza appello. La sua è una gara contro il più grande ostacolo e il suo slancio per superarlo deve far appello a tutte le energie possibili.

L’uomo impegnato nel sociale si deve confrontare con la sfida dei contesti, degli ambienti, delle tensioni, di ciò che rende i rapporti umani inospitali e pericolosi. Lo spazio della sua azione è la riconquista della umanità nelle relazioni. L’energia che deve spendere è enorme perché legata alla necessità di tradurre linguaggi, esigenze differenti, culture, religioni. La sua è una gara contro una serie di ostacoli che fanno appello alle sue energie vitali.

Il sacerdote è l’uomo che si sente chiamato da Dio a mettere la sua vita a servizio degli altri sapendo che l’uomo non è una massa di carne e nervi che rispondono a stimoli elettrici, ma un essere che ha un destino eterno. E dunque un essere in costruzione, non finito, ma pieno di promessa; un essere la cui vita è criptata in Dio e il suo significato sfugge anche a se stesso. E il sacerdote dunque deve fare appello a tutte le sue energie per poter avere forza di «visione» e prendersi cura di una persona nel suo destino eterno.

Tutto questo è affascinante.

Leggi i 5 commenti a questo articolo
  1. Paolo Pegoraro ha detto:

    Visto che non potrò esserci fisicamente, mando il mio contributo virtuale.

    A proposito di medicina, ho trovato molto interessante la raccolta di racconti «L’ombra del dubbio» di Renzo Tomatis (Sironi 2008). Nel colloquio in apertura l’autore – oncologo di fama internazionale scomparso lo scorso anno – fa la seguente considerazione:

    «La caratteristica basilare della medicina (e della ricerca biomedica) è quella di essere insieme e indissolubilmente scienza e assistenza. In quanto scienza, e come ogni scienza, la medicina ha il fine di espandere le conoscenze; in quanto assistenza ha però quale fine primario il benessere dell’individuo, ciò che implica la scelta etica di attribuire un valore assoluto alla persona umana. Tale scelta è un assioma fondamentale della medicina, senza il quale non saremmo in grado di stabilire i concetti di salute e malattia, che potrebbero sfuggire a una definizione basata puramente su criteri obiettivi […] Il fatto di avere una scelta etica come suo fondamento fa quindi della medicina una scienza atipica e tale dovrebbe rimanere, resistendo alla tentazione di seguire una strada che rischia di portare al suo totale asservimento ai valori del mercato. Il “perché” si fa ricerca dovrebbe contare almeno altrettanto del “come” la si fa. Non è al progresso delle conoscenze che si deve mettere un freno o un limite, ma al modo di giungere alla conoscenza […] La ricerca scientifica potrebbe avere un orientamento più responsabile se gli scienziati tenessero presente che la capacità di predire le conseguenze del nostro agire, come ammoniva Jonas, è di molto inferiore al sapere tecnico che conferisce potere al nostro agire».

  2. Rosa Elisa Giangoia ha detto:

    Mi sembra importante che tutti ci sentiamo “uomini impegnati nel sociale” e che tutti ci si impegni a rimuovere gli ostacoli che possono presentarsi davanti ad una o ad un’altra persona. Quest’atteggiamento, che potremmo definire “filantropia”, però non basta, o meglio non accontenta chi, come il sacerdote, ma anche i credenti laici,è convinto che tutti gli uomini abbiano “un destino eterno”: e allora ci sentiamo sollecitati ad un impegno per far comprendere questa autentica dimensione dell’uomo e far sì che tutti la possano realizzare nella tensione della propria pienezza umana, che speriamo di realizzare nella dimensione dell’eterno. Per questo ci vuole la carità, di cui ci parla San Paolo.

  3. andrea monda ha detto:

    Ieri il secondo incontro di Generazioni a confronto è stato molto bello, intenso. Per certi versi molto diverso dal primo ma questo era forse “in sè”, già nella scelta del tema, “La cura dell’uomo”, un tema più “per grandi” piuttosto che per le giovani generazioni che infatti ieri erano molto meno presenti rispetto all’incontro di novembre. Solo l’intervento di Padre Francesco Occhetta ha cercato di ricucire il “gap” esistente tra questo incontro e il precedente e rivolgendosi ai giovani delle prime file, ha parlato delle sfide della crescita e della vita, privilegiando questo approccio piuttosto che quello più legato al tema specifico della cura dell’uomo, producendo un intervento molto intenso e denso di stimoli e suggestioni, davvero “incandescente”, da sbobinare e rileggere e rileggere.
    Ma ricchissimi sono stati anche i primi due interventi.
    Molte le cose che mi hanno colpito. Ne indico un paio.
    Mario Marazziti ha fatto un intervento molto “urgente”, nel senso che aveva così voglia di parlare che non è stato molto chiaro e “pulito” nel discorso ma senz’altro incisivo e diretto, fresco. Ad un certo punto il suo discorso ha preso la piega di una “pars destruens”, tesa a demolire alcuni “mantra”, alcuni luoghi comuni oggi intoccabili. Ho molto apprezzato, come professore di religione impegnato nei licei, questa parte.. poi soprattutto quando Marazziti ha detto che “i ragazzi hanno oggi bisogno di maestri” mi sono sentito come chiamato in causa. Ho pensato alla scuola, e a quel vento di rassegnazione (+ lamento e ri-sentimento) che soffia da anni dentro le aule, specie tra i professori, e che spegne ogni speranza e accenno di vivacità e vitalità. Sembra che non si possa nè si debba essere più maestro.
    E invece il discorso di Marazziti era tutto sul rifiuto di questa rassegnazione e sull’invito alla speranza, a quella vittoria che sta nella possibilità, reale, di cambiare il mondo (cioè se stessi). Sono uscito molto rinfrancato e incoraggiato.
    Due riferimenti agli aspetti “clinici” del discorso di Marazziti mi hanno fatto da ponte verso il secondo intervento della professoressa Teresa Gamucci, oncologa iper-attiva in Ciociaria e dintorni. Due esempi ha fatto Marazziti, traendoli da alcune statistiche USA: la diffusione a macchia d’olio della chirurgia plastica, e la diffusione della psiconalisi (il 75% della popolazione!). Sono dati che mi hanno molto colpito e ho pensato, mentre la Gamucci ultimava il suo intenso intervento, che il problema non è solo quello della cura, ma quello della morte, cioè di quella cosa che non si può curare, ma solo attraversare… quel “confine” come ha detto Occhetta, un “fine” da attraversare “insieme”, “con” qualcuno. Un pensiero mi è quindi salito alla mente: curare è difficile ma è ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta, ma forse ancora più difficile è lasciarsi curare. Noi facciamo difficoltà a prenderci cura degli altri, è questo è un conto; ma spesso ci chiudiamo a riccio e non vogliamo essere curati, e, ancora prima, rifiutiamo l’idea di essere malati (e i dati proveniente dagli USA mi appaiono conferme di questa tendenza a “rimuovere”). Mi viene in mente, e chiudo qui, una frase dello scrittore inglese C.S.Lewis (forse non c’entra molto, ma mi è venuta un mente):
    “Quando gli apostoli predicavano, potevano contare sul fatto che anche i pagani che li ascoltavano avevano una consapevolezza concreta di meritare l’ira divina. I misteri pagani esistevano appunto per alleviare il peso di questa consapevolezza, e la filosofia epicu­rea sosteneva di poter liberare l’uomo dalla paura del castigo eterno. In questo contesto il Vangelo è apparso come una buona novella: portava la notizia di una possibile guarigione a uomini che sapevano di essere mortalmente malati. Ma tutto questo è cambiato: il cristianesimo oggi deve predicare la dia­gnosi — che in sé è una notizia molto brutta — prima di captare l’attenzione per poter prescrivere la cura.”

    Ho ritrovato questo nel discorso della Gamucci, nella difficoltà di dire diagnosi terribili ad altri uomini come noi.
    E forse la risposta è in quelle mani con cui il Prof.Calabresi toccava i pazienti e diceva ai suoi allievi di fare lo stesso, “il paziente deve sentire di appartenere a qualcuno, anche al medico”. E le mani del prof.Calabresi, ha ricordato commossa la Gamucci, “erano mani molto, molto grandi”.
    Un salutone a tutti. Andrea

  4. Cristiano Maria Gaston ha detto:

    Grazie Andrea, per questo resoconto sintetico ma accuratissimo.

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