Processo a Spoon River?

Sul numero di giugno di Studi Cattolici è apparso un articolo di Giovanni Romano dal titolo «Spoon River»: antologia di poca fede. L’articolo tenta una rilettura in controtendenza del capolavoro di Edgar Lee Masters concludendo: «Una situazione di incomunicabilità penosa che finisce per scaricarsi in una ventata di emozioni disincarnate e soggettive, perché il suo Cristo ideologico non veicola nessun Mistero né salva il presente. E l’Antologia che parte alla ricerca dell’infinito finisce per incagliarsi nell’autosuggestione». Insomma qualcosa come una stroncatura o un “j’accuse”, forse, che comunque mette al centro della riflessione quest’opera – oggi forse un po’ più in ombra rispetto a tempo fa – e da una prospettiva inedita.

Spoon River AnthologySu La Civiltà Cattolica tempo fa avevo letto l’Antologia facendo le mie riflessioni che, tutto sommato, giungono a conclusioni molto differenti e, per certi versi opposte, rispetto a quelle di Romano. Il quotidiano Avvenire oggi, 2 luglio, ha così dato conto di questo dibattito.

Come vedo io l’Antologia di Spoon River? Rispondendo alla mia intervistatrice, Bianca Garavelli, dicevo che di fronte alla morte non c’è schermo che resista. Ogni esistenza in questo libro è così dipinta come un microcosmo individuale, che però si innalza a descrivere quel macrocosmo che è la vita umana. Già nel 1931 Pavese affermava che la cosa importante di quest’Antologia sta nell’ardore con cui sono affrontati, oltre il particolare momento storico, il problema del senso dell’esistenza e il problema delle azioni che si compiono nella vita. Lo stesso Pavese riconosceva in questo ardore e in questi problemi essenzialmente morali un preciso sapore biblico. Ecco dove si gioca il valore e il vigore dell’Antologia: nella domanda sul senso dell’esistere e sul significato dell’agire morale in ordine a quel senso.

L’abilità di Master sta dunque nell’aver fatto nascere la domanda sul senso proprio nell’aldilà, cioè in una vita già passata attraverso il setaccio che è la frontiera del suo compimento. Se la poesia parla dall’aldilà, essa ha una forte capacità di reazione nell’al di qua. Prova ne è il fatto che sembrano assenti i toni lugubri e sepolcrali di una poesia veramente funebre. Il trapasso è inteso anche come «l’alba della vita/ che è pienezza di vita» (Jeremy Carlisle). I personaggi dunque hanno attraversato la fine, ma non sono affatto «finiti», potremmo dire. Non lo sono soprattutto nella loro acuta tensione vitale per la quale neanche la tomba è approdo, come si legge nell’epitaffio di George Gray: «una vita senza senso è la tortura/ dell’inquietudine e del vago desiderio -/ è una barca che anela al mare eppure lo teme».

La coscienza della propria vita, adesso dischiusa, comunica ai personaggi il sentimento che fa dell’Antologia un libro moderno: il senso della mancata esperienza che cerca, come un nervo scoperto, il proprio compimento, con tanta sete d’amore e tanta fame di vita (Minerva Jones). Masters non parla solamente, come hanno scritto in molti, di vite spezzate, frustrate, irrealizzate, cristallizzate nel loro insuccesso, ma di vite che seguono una visione (Alexander Throckmorton) e restano come fotografate nella loro tensione verso la frontiera del loro compimento.

Il motore interno dell’Antologia è quella «inquietudine della vita» per cui «l’intenso centro del maelstrom dell’anima/ vortica per sempre, e diviene un vuoto di stupore/ e di ricerca» come si legge nell’epitaffio di Felix Beam nella meno nota The New Spoon River. E’ dunque in questo vortice, in quest’eterna attesa di compimento che mi sembra di riconoscere il senso più autentico della raccolta. Questo trasforma la «commedia umana» americana in una sorta di «dramma sacro», come ha commentato Pavese: una vita tormentata da istinti repressi e da vigliaccherie camuffate, che però in un certo momento è capace di trasfigurarsi a una «visione di saggezza evangelica».

Così, ad esempio, avviene per Willie Pennington che, chiamato il malatino, lo scemo diventa seme di senape da cui sorge un albero. Il termine vision ricorre spesso nell’Antologia e rappresenta sì l’aspetto ideale della vita, ma anche una sorta di rivelazione che permette di cogliere, in maniera del tutto indeducibile e gratuita, il segreto della vita, il suo mistero, il segno di un confine che indica in se stesso la necessità del suo superamento: la traccia di un «oltre».

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  1. anna ha detto:

    Pienamente d’accordo con Pavese dunque anche con Antonio. Ogni tanto i critici smuovono le acque e quello che andava bene non va più e quello che non andava adesso va…pensare che Spoon River è stato quasi una bibbia per la mia generazione. bah!

  2. Ticchettòcche ha detto:

    Non ho letto Spoon River (mea culpa…), non ho letto l’articolo di Studi Cattolici (mea grandissima culpa…), ma vedendo il titolo – “antologia di poca fede” – e inturndo il contesto, il tono mi sembra più quello di una stroncatura “religiosa” che letteraria. Quanto è cattolico questo autore? Padre Spadaro, le sembra una domanda da farsi?

  3. Paolo Pegoraro ha detto:

    Ho terminato di leggere l’articolo integrale di «Studi cattolici» ed ecco alcune constatazioni:

    1) non cita mai il testo originale

    2) non attende la conclusione per esprimere un giudizio, ma parte già dall’incipit con una posizione già presa («ferocemente agnostico e per giunta con un dente particolarmente avvelenato con la gente di Chiesa») che si ritrova alla fine («relativista da salotto»)

    3) usa paradigmi categoriali adusi perché non rielaborati («il centro è andato perduto», «liberi pensatori»). In genere si appella alle persone non come a fenomeni dinamici, ma come a categorie granitiche, non debordanti né attigue (l’ateo è sempre e solo ateo, il credente sempre e solo credente).

    In conclusione, mi sembra un tipo di lettura che non tende ad aprire l’opera, ma a chiuderla, bollarla, impacchettarla e riporla sullo scaffale. Non è un’opera critica di decriptazione, non tende a eseguire e dare vita al testo, ma a “succhiargliela via” accentuandone limiti e negatività. Una lettura davvero “lapidaria” e cimiteriale, specularmente opposta al progetto di Masters.

    L’essere umano è dinamismo. Di un’opera possiamo provare a dire, con grande umiltà, se vi riscontriamo autenticità o meno, e fino a quale tappa sembra essere giunto il cammino dell’autore. E’ possibile dirgli dove *non* è giunto – quasi lo si guardasse *immobili* dalla mèta – conservando l’umana solidarietà dei pellegrini?

  4. Angelo ha detto:

    io invece ho letto l’antologia in italiano e mi aveva entusiasmato perche’ mi ha fatto correre con la fantasia,
    e’ dalla lettura dell’antologia che ho cominciato a pensare di aver passato i 40 anni e da lì e’ partita una serie di riflessioni,
    per me l’antologia e’ stato uno spartiacque.
    Successivamente ho letto del dialogo tra Pavese e la Pivano e di come Pavese avesse considerato l’antologia un modo emblematico di fare letteratura americana diversamente da quello inglese.
    Ho letto l’aggressione della recensione di Studi cattolici e ho invece molto apprezzato quel modo aperto di Antonio di dire la sua.
    Non gli ha mai dato del pirla a quel’altro quando invece secondo me lo meriterebbe, lui come chiunque e’ tranchant alla Alberoni nei giudizi, e ha lasciato una poreta aperta.
    Non lo so ancora perche’ ma trovo che ci sia una affinità tra l’antologia di Lee Masters e le poesie di Hopkins.
    Ciao,
    Angelo.

  5. Maura Gancitano ha detto:

    “L’essere umano è dinamismo. Di un’opera possiamo provare a dire, con grande umiltà, se vi riscontriamo autenticità o meno, e fino a quale tappa sembra essere giunto il cammino dell’autore. È possibile dirgli dove *non* è giunto – quasi lo si guardasse *immobili* dalla mèta – conservando l’umana solidarietà dei pellegrini?”

    Paolo, sono più che d’accordo con quello che dici. Quoto in pieno.
    Per quanto mi riguarda, ho conosciuto l’antologia di Spoon River attraverso De Andrè, ovvero ascoltando l’album “Non al denarò non all’amore né al cielo”, che come direbbe qualcuno è un disco “fondamentale”. Non ho letto tutte le poesie dell’antologia, ne ho saltate alcune, le ho riprese, mi sono affezionata ad altre. Ad ogni modo, credo che si tratti di un libro importante, che in Italia (è stato già detto, ed è comunque acclarato) ha avuto un importanza incredibile.
    Questo proprio per il suo “respiro”, perché è in grado di dire qualcosa a tutti noi. Nella fattispecie, quella di Lee Masters è una domanda sul “senso”. Una domanda prima di tutto “umana”.
    Prendere in considerazione quell’opera così come è stato fatto da “Studi Cattolici” è, come ha detto bene Paolo, un modo di “chiuderla”, di dire l’ultima parola, di giudicarla in base a un preciso e rigido metro di giudizio, senza considerare la portata della domanda di “senso”.
    Sempre in riferimento a De Andrè, sarebbe come cassare “La buona novella” (altro album fondamentale, straordinario, che a parer mio rimane il suo migliore) perché si conclude con le parole: “Non posso pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”.

  6. leo ha detto:

    Sarò troppo partigiano, ma neppure io capisco come si faccia a dire cose del genere di un libro così… è il primo libro di poesie che ho letto, e vi ho trovato immagini e figure con una forza tale da scuotermi.
    Rimane il fatto che la cosa più interessante dell’articolo di Avvenire è la foto di Spadaro.

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