Non solo western: il cinema di John Ford tra dannazione e redenzione

John Ford (con la pipa) e il cast di Un uomo tranquillo

John Ford (con la pipa) e il cast di Un uomo tranquillo

Il mio nome e’ John Ford. Faccio western“. Questa forse è la battuta più celebre di Sean Aloysious O’Feeney, nato alla fine dell’800 da emigranti irlandesi e diventato famoso per le decine di film che hanno raccontato l’ultima grande epica della storia moderna, quella del far-west e della violenta e avventurosa nascita degli Stati Uniti d’America. Come osservava Ludovico Alessandrini, compianto e illuminato dirigente della Rai, se si mettessero insieme tutti i migliori film western di Ford se ne ricaverebbe una sorta di poema epico, degno di Omero, capace di raccontare attraverso i  diversi “canti” (il primo film di Ford è del 1917, l’ultimo del 1966) la nascita di una nazione sorta da quel continuo affrontare e superare la frontiera, il mondo selvaggio, l’ignoto, la sfida dell’integrazione e del “melting pot”. Con il solito acume il poeta argentino Borges ha riassunto molto bene la questione affermando che: “Seppure per motivi commerciali, Hollywood ha salvato l’epica“, e a John Ford spetta senz’altro il ruolo maggiore in questo lavoro di salvataggio.

Ma per una volta proviamo a porre l’accento non su John ma su Sean, cioè sul “lato oscuro” della sua filmografia, sulle opere non-western, quelle che rischiano di essere sbilanciate dal peso imponente delle pellicole con protagonisti il cow-boy. Dare un’occhiata all’altro piatto della bilancia vuol dire imbattersi in altri film straordinari (e anche pluri-premiati, tra l’altro Ford, con i 4 premi Oscar vinti come regista detiene ancora un record insuperato), da Il traditore a Furore, da Un uomo tranquillo a Com’era verde la mia valle, da La croce di fuoco a L’ultimo hurrah…

Sono film dove è forte la presenza della città, come Il traditore o L’ultimo hurrah o altri dove invece prevale il paesaggio rurale, a metà strada tra la natura selvaggia e la presenza dell’uomo, un paesaggio quasi “sospeso”, una dimensione da “soglia” (come nel Messico de La croce di fuoco, l’Irlanda di Un uomo tranquillo e il Galles di Com’era verde la mia valle), ben rappresentata, nei film western, dall’immagine del portico (basti pensare a Sfida infernale o Sentieri selvaggi).

La realtà è che Ford è Ford sia negli scenari infiniti della Monument Valley che tra i vicoli notturni e nebbiosi di Dublino, o quelli corrotti dei bassifondi messicani o quelli non meno “opachi” della città del New England teatro delle sfide elettorali de L’ultimo hurrah: un regista che “sa di cosa è fatto il mondo”, come diceva Orson Welles, suo grande estimatore e imitatore (è lo stesso autore di Quarto Potere a riconoscere l’influenza anche tecnica ricevuta da film come Ombre rosse).

Ford sa di cosa è fatto l’uomo, e sa che la vita di ogni uomo assomiglia all’attraversamento di un deserto, e questa immagine egli ripropone anche quando non si tratta del deserto dell’Arizona: la vita umana è sempre contesa tra i due poli della dannazione e della redenzione. In questo senso sono assimilabili due film, Il traditore e La croce di fuoco, che il regista americano ricava da due intensi romanzi, quello di Liam O’Flaherty e da Il potere e la gloria di Graham Greene: i due protagonisti, Gypo Nolan, il membro dell’IRA irlandese che ha tradito il suo amico, e l’anonimo prete vigliacco inseguito dalla polizia messicana, compiono un’odissea estrema e dolorosa che li porterà, anche contro la loro immediata volontà, ad una sorta di riscatto finale. Sono due fuggitivi (The fugitive è il titolo originale, migliore di quello italiano, del film tratto da Greene) che scappano da loro stessi, dal peso della responsabilità che li schiaccia inesorabilmente e la fotografia, cupa, asfissiante, delle due pellicole rende in modo quasi tangibile il senso della notte dell’angoscia che i due personaggi stanno vivendo. Emerge prepotentemente in questi due film la dimensione religiosa e il peso, anche “iconografico” della fede cattolica del regista d’origine irlandese. Se il finale di In nome di Dio con quel camminare, anzi lo strisciare per terra, di John Wayne l’unico cow-boy superstite che arranca con in braccio il bambino salvato nel deserto, è evidentemente figura del mistero del Natale di Cristo, il finale de Il traditore con Victor MacLaglen nei panni del “Giuda” Gypo Nolan anche lui strisciante ma tra le panche della chiesa dublinese mendicando il perdono per il tradimento, rinvia esplicitamente al mistero della croce, così come l’ultima scena de The Fugitive, con la luce che fende l’oscurità e il ritorno del sacerdote rappresenta un richiamo forte e chiaro alla risurrezione di Cristo e con lui del suo popolo.

Il cinema di Ford ha la forza dell’essere “popolare”, nel senso di concreto, incarnato, un cinema che riesce a parlare un linguaggio forte e chiaro, fatto di passioni estreme e sanguigne ma che non riduce mai la complessità dell’esistenza umana, che rispetta sempre quel mistero che è l’uomo.

Così un film all’apparenza solare e lieve, come Un uomo tranquillo, che sembra solo una scanzonata celebrazione della terra e dello spirito irlandese, rivela al suo interno molto di più, una zona d’ombra e di “forza” che striscia latente in tutti i film di Ford e che permette un godimento del suo cinema che non diminuisce nel tempo. E’ forse questa “custodia della complessità” che spiega come mai sia stato Ford a realizzare uno dei film migliori su quel tema, così difficile e scivoloso, della politica. L’ultimo hurrah è uno degli ultimi film del regista americano, uscito cinquant’anni fa negli USA e ispirato dal romanzo omonimo di Edwyn O’Connor, un film crepuscolare, dolente e struggente, grazie anche ad una intensa interpretazione di Spencer Tracy. A distanza di mezzo secolo questa storia non ha perso il suo smalto rivelandosi uno dei pochi film nell’intera storia del cinema che parla di politica senza cadere nel rischio, molto diffuso non solo nel nostro paese,  del moralismo ipocrita e del manicheismo. Da questo punto di vista il film di Ford rinvia non solo al romanzo di Edwyn O’Connor, ma anche ai romanzi di Flannery O’Connor (anche lei di origine irlandese come rivela il medesimo cognome), una scrittrice cattolica allergica ad ogni forma di moralismo e di manicheismo. Per la O’Connor ogni racconto è la descrizione dell’opera della Grazia nei territori del diavolo e quindi è difficile trovare nelle sue opere storielle a lieto fine: il suo scrivere “da cattolica” non vuol dire costruire trame edificanti ma approfondire il mistero della realtà, penetrare la realtà attraverso una discesa “ad inferos”; questa è la lezione della O’Connor che ha compreso bene come il rischio dell’uomo contemporaneo è lo spiritualismo, il moralismo e il sentimentalismo (e forse sta qui, nel sentimentalismo, la  ragione della strana assenza di buoni film sulla politica). E’ quindi quanto mai attuale la lezione della O’Connor, specie nella sua critica al manicheismo che per la scrittrice americana non è solo cattiva teologia ma anche pessima letteratura: “La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate di impolverarvi, non dovreste tentare di scrivere narrativa.”. E’ la stessa lezione di John Ford, “esperto di umanità”, che ha raccontato la polvere, cioè la stoffa di cui è fatto il mondo, anche quando non ha mostrato direttamente le nuvole di polvere del deserto della Monument Valley.

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