La tragicommedia del rock

L’artista Morgan dichiara di consumare sostanze allucinogene: «La droga? Apre i sensi a chi li ha già sviluppati, e li chiude agli altri. Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa. La uso come antidepressivo».  Scontata e inutile l’esclusione dal Festival di Sanremo. «Morgan ci sarà» dichiara però a sorpresa la presentatrice della rassegna canora, ma la Rai smentisce: «Morgan non ci sarà nè di persona nè in video». La vicenda continua a disorientare l’opinione pubblica italiana. Ma perché tanto rumore? Morgan  aveva già violato il codice etico televisivo con i suoi  comportamenti da “giudice strafatto” durante la messa in onda di un talent show su Rai Due. Il vaneggiare delirante di Marco Castoldi mette ora alla berlina un genere musicale che più di altri ha unito popoli e culture, pur spingendo molte generazioni verso l’autodistruzione. In “Rust Never Sleeps” Neil Young cantava: “meglio bruciare che spegnersi lentamente”. Lui è ancora in circolazione, un sopravvissuto. Non ha preso sul serio la sua canzone. Gli artisti spesso farneticano e a noi non interessano, tranne quando lo stesso Morgan scrive sul suo sito ufficiale: “Il Cattolicesimo non ha contribuito molto alla causa del Rock’n’Roll, eppure l’etica di Gesù Cristo è modello per quasi tutti i nostri beniamini”. Vale per Johnny Cash, U2, Lenny Kravitz, Bob Dylan, Springsteen. La lista dei redenti e dei messaggeri della buona notizia è lunga. Si spera possa includere, in un futuro prossimo, anche il nome di Morgan. 

La città del rock comunque è abitata da gente ferita e illusa dalla droga, pazzi che hanno mitizzato la dipendenza da un male che uccide. Uno su tutti, Dave Gahan, leader dei Depeche Mode. Una vita piena di traversie causate dalla dipendenza da eroina e cocaina. E’ impressionante leggere i suoi drammi nella biografia “Stripped – I Depeche Mode messi a nudo” di Jonathan Miller (Castelvecchi editore). Un vero orrore.

Curioso l’episodio dei Grant Lee Buffalo. L’album del 1994 “Mighty Joe Moon” fu scritto e composto sotto effetto di droghe, tanto per restare in tema. Eppure su YouTube, tra i commenti al video dell’omonima canzone, un certo dib1969 scrive: «Ho cercato di uccidermi con una overdose, ascoltandola ripetutamente sul player CD appena dopo essermi impasticcato. Dopo vari ascolti del brano “Mighty Joe Moon”, ho deciso di tornare a vivere, così ho vomitato le pillole ingerite per suicidarmi. Con questa canzone, una candela e la mia chitarra sono rimasto tra la vita e la morte per due ore, fino a quando la mia ex moglie non mi ha trovato, aiutandomi. Questa canzone ha salvato la mia vita».

Un paradosso, ma Dio scrive dritto sulle righe storte. Come nella vicenda di un grande chitarrista elettrico riassunta da John Powell (professore associato di Storia alla Oklahoma Baptist University) sulla base della testimonianza autobiografica di Eric Clapton. Vale la pena conoscere la discesa agli inferi e la risalita di Clapton. C’è il pianto, il sorriso e il bisogno di liberarsi da ogni dipendenza aggrappandosi alla fede cristiana. Peccato non averlo ospite a Sanremo. Avrebbe potuto comunicare positività al pubblico televisivo, suonando un pezzo di rock blues.

Tradotto dall’inglese, condivido l’articolo di John Miller su BC. Buona lettura.

Eric Clapton, In the Presence of the Lord.

Eric Clapton nel 2008 ha vinto il suo 19mo Grammy per l’album “The Road to Escondido” e si è riunito con il compagno di gruppo nei Blind Faith, Steve Winwood, per tre concerti di grande successo al Madison Square Garden. Nel 2004 creò il “Festival Crossroads Guitar” per raccogliere fondi per il suo centro contro l’abuso di sostanze in Antigua, e ha scalato la classifica dei bestseller del New York Times con “Clapton: The Autobiography”. È stato felicemente sposato con Melia McEnery Clapton per sei anni, e hanno tre bambine che adorano il loro papà, senza un pensiero verso il suo passato difficile. Tutto piuttosto tranquillo per un artista il cui lavoro con una Gibson Les Paul ha condotto gli entusiasti della controcultura a dichiarare sui muri delle metropolitane che “Clapton è Dio”, l’uomo “adottato” da Muddy Waters e incaricato di portare avanti l’eredità del blues. Ma la strada del successo non è stata facile da percorrere. Dall’età di 9 anni quando seppe che era un figlio illegittimo della sua “zietta” e di uno sconosciuto soldato canadese, lottò per trovare un posto sicuro. Sentimenti di isolamento e di insicurezza lo hanno accompagnato attraverso la vita, conducendolo alla dura alienazione del blues. Ma c’è un lato spirituale di Clapton poco conosciuto, una spiritualità che ha influenzato quasi sempre quello che ha pensato e fatto, il tipo di musica che ha scritto e suonato.

Clapton non si è mai eretto a modello della fede cristiana, né ne parla. È cresciuto in una rurale Surrey frequentando una congregazione locale della Chiesa di Inghilterra; e nella sua autobiografia ha scritto che è “cresciuto con una forte curiosità verso le questioni spirituali, ma la mia ricerca mi ha portato via dalla chiesa per lungo tempo”. Il fondamento della sua fede minimalista è riflesso nell’inno preferito della sua gioventù, “Jesus Bids Us Shine” (Gesù ci invita allo splendore):

Gesù ci invita allo splendore con una luce chiara, pura,
Come una candela che brucia nella notte;
In questo mondo di tenebre, dobbiamo splendere,
Tu nel tuo piccolo angolo, e io nel mio.

Quel riconoscimento implicito secondo cui noi serviamo Dio individualmente – nel nostro “piccolo angolo” – faceva senso in un quartiere della classe operaia dove Clapton trovò poco incoraggiamento spirituale.

Nel 1969 è stato attratto dal genuino calore di Delaney e Bonnie Bramlett, che hanno aperto per i Blind Faith nel tour del 1969. «Il personaggio di Delaney di un predicatore battista del Sud, che portava un messaggio di fuoco e zolfo poteva essere scoraggiante», osservò Clapton, «se non fosse per il fatto che quando cantava, era assolutamente ispirante». Una notte, Bramlett sfidò Clapton a cominciare a cantare: “Dio ti ha fatto questo regalo, e se non lo usi, te lo porterà via”. Clapton, sempre poco sicuro di sé, seguì il suo consiglio.

Solo qualche giorno dopo, due cristiani andarono nel camerino di Clapton dopo lo spettacolo, probabilmente spinti dall’esibizione di “Presence of the Lord”, il grande successo del tour dei Blind Faith. A dei giovani credenti, la canzone sembrava essere una risposta di tentativo a 1 Samuele 6,20 – “Chi potrà resistere alla presenza del Signore, questo Dio così inavvicinabile? Una volta via di qui, chi lo riceverà?”:

Ho finalmente trovato un posto in cui vivere
Proprio come non ho mai potuto fare prima
E so che non ho molto da dare
Ma presto aprirò qualunque porta
Tutti conoscono il segreto
Tutti conoscono il risultato
Ho finalmente trovato un posto in cui vivere
Alla presenza del Signore

I due cristiani chiesero a Clapton di pregare con loro. Quando si inginocchiarono, egli vide una “luce accecante” e sentì la presenza di Dio. La sua testimonianza era aperta e onesta; disse “a tutti” che era “un cristiano rinato”. Ma la natura della sua fede è intinta di una sorta di superstizione che desta sospetti alla luce della teologia sistematica e dei suoi canoni.

Man mano che la leggenda di Clapton cresceva, altrettanto crescevano i suoi comportamenti distruttivi. Trascorso un anno dalla sua conversione diventò dipendente dall’eroina, la superò, ma si diresse verso l’alcool, la promiscuità sessuale e una serie di relazioni fallite. «Le cattive scelte erano la mia specialità», disse. Nel 1987 toccò il fondo. Fallito un tentativo di riabilitazione durato un mese, cadde in ginocchio e finalmente “si arrese” a Dio, dedicando la sua sobrietà al suo figlio appena nato, Conor. Quattro anni dopo, quando Conor morì cadendo dalla finestra del 53mo piano di un appartamento di Park Avenue, Clapton ammise: «ci fu un momento in cui ho veramente perso la fede».

Eppure, trovò la forza di presentare una sessione della sua riunione degli alcolisti anonimi sul tema “Metti la tua vita nelle mani di Dio”. Successivamente, una donna confessò che lui le aveva portato via l’ultima scusa per bere, una conferma per Clapton che stare sobri e aiutare gli altri a raggiungere la sobrietà è l’unico e più importante proposito della sua vita.

Nella sua autobiografia, Clapton rielabora gli inizi della sua vita di preghiera – quel momento in cui nel 1987 toccò il fondo nel centro di recupero.

«Ero nella disperazione assoluta», scrive Clapton. «Nel privato della mia stanza, ho supplicato per avere aiuto. Non sapevo con chi stavo parlando, sapevo solo che dovevo risalire la china e, mettendomi in ginocchio, mi arresi. Nel giro di pochi giorni mi resi conto che avevo trovato un posto verso cui rivolgermi, un luogo in cui credere, conosciuto da sempre ma che rifiutavo di visitare: la presenza del Signore. Da quel giorno fino ad oggi, non ho mai smesso di pregare al mattino, in ginocchio, chiedendo aiuto, e la sera, per esprimere gratitudine per la mia vita e, soprattutto, per essere sobrio. Ho scelto di inginocchiarmi perché ho bisogno di sentirmi umile quando prego, e con il mio ego, è il massimo che possa fare. Se ti stai chiedendo perché faccio tutto questo, te lo dirò: perché funziona, è tutto qua».

Copyright © 2008 Christianity Today


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