Rosa Elisa Giangoia: la poesia come magma incandescente

Si può dire la morte, dirla poeticamente? Da una parte la morte è proprio ciò che non è comunicabile, è l’esperienza in-dicibile, nessuno è tornato dalla morte e anche Orfeo, simbolo dei poeti, fallisce nel tentativo di far risorgere l’amata. Dall’altra parte tutta la poesia umana ha il sapore della morte e del suo superamento, l’amore. Sulla cuspide vertiginosa di questo paradosso si colloca l’ultima raccolta di poesie di Rosa Elisa Giangoia, poetessa, latinista e raffinata narratrice genovese, intitolata significativamente “Sequenza di dolore”, che scaturisce dalla morte del marito Mino.  Da quel momento il cuore si apre e lascia scorrere il dolore che dilaga come in un’emorragia stordendo il lettore, travolgendolo. Viene subito in mente «Diario di un dolore» di C.S.Lewis in cui lo scrittore inglese si metteva, quasi sotto dettatura, a registrare ogni movimento anche impercettibile del cuore. Ma se nel libretto – in prosa – dell’autore delle Cronache di Narnia l’approccio finisce per apparire refertuale e introspettivo, quasi filosofico (o teologico), nei versi della Giangoia tutto diventa magma incandescente, al punto che, come ha osservato padre Antonio Spadaro nella prefazione, “In questa manciata di versi densissimi che non lasciano al lettore la clemenza di una pausa, di un respiro, di una lacrima di commozione, accade tutto: mors et vita duello conflixere mirando”. Un testo tremendamente denso ma anche delicato, discreto, che riesce a condurre per mano il lettore sulla soglia dell’abisso, provando a tendere il capo per scrutare, oltre il baratro, il mistero della morte. Scritto dopo la morte del marito, la prima di queste trentanove brevi e laceranti liriche (il numero combacia con quello che tradizionalmente è il numero delle frustrate ricevute da Cristo), ricorda il primo incontro: “Forse tante volte ci eravamo incontrati,/ come stranieri per le strade,/ finchè figli della fortuna ignari,/ siamo entrati dalla porta della gioia/nella casa diventata nostra./ E così le nostre vite/ si sono incrociate tardi…”, versi che richiamano l’incipit di “Un amore a prima vista” della Szymborska: “Sono entrambi convinti/ che un sentimento improvviso li unì./ E’ bella una tale certezza/ ma l’incertezza è più bella./ Non conoscendosi prima, credono/ che non sia mai successo nulla fra loro./ Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi/ dove da tempo potevano incrociarsi?”. L’apparente caos della vita, di una vita colpita e ridotta in frantumi, rivela in controluce una trama da decifrare nella faticosa opacità del quotidiano: in questi versi  si dispiega, osserva Spadaro, “il diario di un dolore vissuto con dignità sapiente, capace di avvertire il fuoco dell’assenza e sentire proprio in quello il segno di una presenza differente tutta da scoprire.” In questa luce Sequenza di dolore, come lascia intuire il titolo, assume anche una dimensione orante, liturgica che non sopisce l’acutezza della ferita ma permette, viene da dire miracolosamente, ciò che la morte intrinsecamente nega: la condivisione.

Sequenza di dolore, di Rosa Elisa Giangoia. Fara Editore, Rimini, 2010, pp.59, euro 13,00

(questo articolo è stato pubblicato su RomaSette in data 14 marzo 2010)

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