Festeggiare

“Odo augelli far festa”… chi di noi non ricorda il più che celebre verso leopardiano de “La quiete dopo la tempesta”? A tal punto che ci suona un po’ ridicolo, soprattutto per l’uso del termine “augello” che ci fa ridere. Ma se ci fermiamo un istante a comporre l’immagine che questo verso dipinge non faremo fatica a perderci in essa… io ho sempre immaginato un coro di usignoli che cinguettano all’impazzata. Il loro cinguettare sonoro e corale dice il senso di un festeggiamento. Avete mai visto persone festeggiare in silenzio?

La festa implica sempre in sé l’esplicitazione di uno stato d’animo che si crea nel momento in cui si sta insieme. Quando andiamo a una festa spesso siamo presi dai nostri pensieri. Anche se sappiamo che stiamo per andare a festeggiare qualcuno o qualcosa, in genere andando nel luogo di ritrovo non saltelliamo o facciamo schiamazzo. La festa inizia nel momento in cui ci troviamo in un luogo preciso dove c’è altra gente si è data appuntamento per far festa. E così tutti possono far festa. Non si fa festa da soli. Forse neanche in due, almeno in un senso proprio. E non si può far festa in silenzio. La parola e tutta la capacità espressiva dei muscoli mimetici del viso e tutto il resto sono ingredienti necessari: il cibo, le bevande e i coriandoli non sono sufficienti.

Per questo Leopardi fa bene a vedere nel coro degli augelli il senso di una festa. Ma la festa leopardiana è una festa di quiete, della quiete dopo la tempesta, appunto. Ma come? Abbiamo detto che la festa non può essere silenziosa e poi diciamo che la festa può vivere nella “quiete”? Guardiamo il paesaggio dipinto dalla celebre poesia. Vedremo una gallina che torna in su la via che ripete il suo verso, “risorge il romorio”, la gente torna al lavoro “usato”. Un paesaggio si ricompone: Ecco il sereno che “rompe là da ponente, alla montagna” e così la campagna si sgombra “e chiaro nella valle il fiume appare”. E’ come se il paesaggio, prima raggrinzito, adesso si dispiegasse davanti agli occhi. La contrattura si distende e… “ogni cor si rallegra, in ogni lato”.

I cuori si rallegrano. Il cuore coglie la quiete e si rallegra. Non fa “festa”, si rallegra. Il cuore degli uomini, in basso si allarga, si illumina, si quieta. Sono gli augelli in alto, magari sugli alberi, che fanno festa, che cinguettano all’impazzata, restituendosi la gioia a vicenda e comunicandola ai cuori umani che si rallegrano. E’ in questo rapporto sottile e delicato, nell’equilibrio essenziale tra quiete ed allegria, e poi tra allegria e festa che si gioca tutto.

Festeggiare non significa far baccano: significa rispondere visibilmente e sonoramente a una quiete che genera allegria. Che cosa sottile e nello stesso tempo vera! Pensiamoci un attimo: quando abbiamo veramente fatto festa?  Quando l’abbiamo gustata, intendo, a parte l’eccitazione del momento che viene e che va? Quando ci è rimasta dentro non come nostalgia di un momento di divertimento, ma come un sorriso profondo che ti tocca l’anima? Quando la festa ha corrisposto a uno scampato pericolo, a un sentimento profondo ricambiato, al raggiungimento di un obiettivo: tutte cose che implicano la conquista di una quiete, di un appagamento che distende il nostro “paesaggio” interiore. Allora in quel momento è proprio questa profonda quiete e solleticare in noi la voglia di sorridere, schiamazzare, “pazziare”, perché ci sentiamo più liberi. Allora ecco gli augelli di Leopardi a farsi carico della festa. Ed ecco tutti i nostri festeggiamenti e l’espressione più sonora e fragorosa e contagiosa di noi stessi che ben si integra col “romorio del lavoro usato”, con la nostra vita ordinaria…

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio.
Torna il lavoro usato.

Leggi i 17 commenti a questo articolo
  1. chiara ha detto:

    Esperienza da adolescenti in genere, comunque prima o poi quasi tutti se ne accorgono: invano si può cercare di festeggiare se non c’è una quiete dentro di noi.
    Per i nostri tempi agitati, cittadini, direi che è un fondamentale.
    Dopodichè qualunque motivo per festeggiare è buono!
    Buone feste, ch

  2. rossana ha detto:

    le gioie più profonde ci fanno festeggiare per anni e vite intere.

  3. Maurizio ha detto:

    “invano si può cercare di festeggiare se non c’è una quiete dentro di noi”
    quanto è vero!

    ed è un’ottima sintesi dello splendido editoriale, Chiara

  4. Gabriella ha detto:

    C’è gente che per “far festa” ha bisogno di stordirsi e purtroppo, spesso, adopera non solo la musica. Viviamo in una società che ha bisogno del chiasso per rimuovere il vuoto di valori che ha in sè.La festa del Leopardi è gioia intima, la serenità che deriva dall’osservazione di un paesaggio “naturale”.Ed è talmente sincera la sua poesia che il lettore gusta col poeta la quiete di una felicità fatta di piccolissime cose.Quello che oggi non sappiamo più amare.

  5. Paolo Pegoraro ha detto:

    mi piace molto quel “pazziare”: nelle feste si fanno un sacco di cose “senza senso” che sono una manifestazione di libertà non perché escludono il senso, ma perché lo custodiscono al loro interno come un tepore, una sicurezza così certa che non ha bisogno di mostrarsi

  6. Gabriele ha detto:

    Ho sempre odiato le feste “indette”.
    Qualcuno ti invita e ti dice: adesso si fa festa.
    Ha senso?
    La festa è il frutto della magia che nasce dallo stare insieme. Prima si sta insieme e poi (forse) si fa festa. Succede se scatta la scintilla. E allora si respira aria di famiglia. I pezzi delle vite che lì sono convenute si ricompongono in un unico disegno. Che ha senso.
    Ecco, la festa è un barlume di senso, una luce gettatta su un incrocio di vite.

  7. tita ha detto:

    Eh sì, la festa richiede un adeguato tempo di preparazione.

    Per prepararsi il cuore, direbbe Saint Exupéry.

    Invece spesso a tutto si pensa, alle musiche, ai dolci, alle bevande, persino al locale … e non alle persone con cui si desidera far festa.

  8. Gabriele ha detto:

    Forse bisogna anche qui separare il bisogno di preparare una festa dal desiderio di festeggiare. Perchè un ritrovo di persone diventi festa occorre che tutti i partecipanti desiderino festeggiare insieme.
    Questo desiderio nasce dal voler condividere con chi ci sta a cuore il nostro stato d’animo. Per questo le feste possono anche non essere gioiose. Mi vengono in mente quei “party” dopo funerale che si usano negli States, piuttosto che quella macabra festa ritratta ne “La grande abbuffata”, preludio al suicidio di tutti gli amici riuniti.

  9. Paolo Pegoraro ha detto:

    @ Gabriele

    e come la mettiamo con le feste “di precetto”? ;-)
    la preparazione della festa non può essere una misura (non l’unica) di quanto è attesa/desiderata?

  10. Emanuela Scicchitano ha detto:

    La festa «implica una grande affluenza di popolo agitato e rumoroso […]. Persino oggi, quando le feste ormai depauperate risultano così poco sullo sfondo grigio che costituisce la monotonia della vita ordinaria, e vi appaiono disperse, frantumate, quasi insabbiate, vi si distinguono le pallide tracce dello scatenamento collettivo tipico delle antiche fratrie…». È quanto afferma Roger Caillois nel saggio Il sacro di trasgressione: teoria della festa (in Id., L’uomo e il sacro, Torino, Bollati Boringhieri, p. 89), in cui ben focalizza le differenze e le analogie che intercorrono fra feste antiche e moderne, che in parte sono emerse anche nel blog. Le feste antiche si inquadravano in una prospettiva sacra che prevedeva il rispetto delle regole e la loro trasgressione: nel calendario cristiano al Carnevale, momento di rovesciamento dell’ordine consolidato, segue la Quaresima che ristabilisce quell’ordine. Credo che oggi, pur sopravvivendo, alcune di queste feste si siano impoverite della loro origine sacra, spesso scavalcate da feste allotrie (es: Halloween al posto della festività di commemorazione dei defunti) o immemori, più banalmente, del loro percorso di significato o ancora più individualizzate ma meno interiorizzate, più pulviscolari e meno collettive. È avanzato il profano, che a differenza del passato non è più trasgressione ma ignoranza di quel sacro che la festa racchiudeva in sé, come in fondo l’antinomia leopardiana fra “quiete” e “tempesta” ricorda.

  11. Gabriele ha detto:

    @ Peg
    Sì Paolo, è proprio ciò che non mi tornava quando scrivevo “odio le feste indette”.
    Perchè ci sono alcune feste a cui sono invitato e a cui non vedo l’ora di partecipare. Perchè? Perchè desidero fare festa con l’ospite.
    Hai ragione a dire che il desiderio si traduce in preparazione. Ma la preparazione della festa è anzitutto la mia preparazione alla festa. La festa sono io!
    Quindi la domanda del Jovanotto nella locandina va modificata in “Sei tu la festa?”

  12. Paolo Pegoraro ha detto:

    @ Gabriele: è verissimo quello che dici! non c’è festa se chi partecipa non ha precedentemente interiorizzato lo spirito della festa. Ma proprio per questo mi interrogo ancora di più sulle “feste comandate”…

    Emanuela dice giustamente che le feste profane, dimenticando la dimensione sacrale, hanno in qualche maniera depotenziato l’identità stessa e la percezione della Festa. Io resto sorpreso dal fatto che nella Bibbia si *ordina* continuamente di fare festa per questo e quello. Come si può *comandare* di fare festa? Eppure il riposo settimanale per noi così ovvio e scontato parte da lì, da una “coercizione alla festa”: e dallo Shabbat si arriva al leopardiano Sabato del villaggio.

    Allora mi interrogo ancora di più sul senso della preparazione come interiorizzazione dello spirito della Festa: Natale e Pasqua hanno una lunghissima preparazione (5-6 settimane), solo queste due coprono 1/6 dell’anno solare! Se poi ci aggiungi i cinquanta giorni del Tempo di Pasqua… Insomma, è proprio la Festa a dare ordine al flusso dei giorni, a spezzare il cerchio della routine e l’eterno sbadiglio quotidiano. E’ la Festa – come celebrazione gratuita ed eccedente – a creare la Storia, a dare senso al tempo.

  13. Emanuela Scicchitano ha detto:

    Le riflessioni di Paolo spostano giustamente la nostra attenzione dalla festa all’attesa, che la festa richiede e che spesso soverchia il tempo in cui la festa in sé si consumerà.
    Credo che essa si possa far risalire alla natura sacra dell’evento, che richiede la preparazione dell’uomo al recupero della sua totalità, intesa come pienezza dell’essere con sé stessi, dell’essere con gli altri e dell’essere con Dio. È una pienezza che pretende la messa in gioco delle energie spirituali, la loro programmazione in vista di un obbiettivo temporale che dovrà far diventare atto ciò che è in potenza. Se è vero che la parola “festa” condivide la sua radice etimologica con il sostantivo latino “fanum”(tempio), allora il tempo che precede la festa è come un “pellegrinaggio interiore” prima di entrare nel tempio, nel luogo sacro. E tutti i pellegrinaggi si preparano nella sospensione, nella purificazione, nell’essere “pronti per”. Non è il tempo vuoto, ma il tempo che acquista consapevolezza di dover stratificare i significati più antichi per poi riceverne di nuovi. È, come disse appunto Leopardi da una prospettiva laica, il sabato in cui il villaggio si prepara alla domenica. E, pur nella ritualità, la domenica come tempo festivo della collettività e dell’individuo dovrà rinnovarsi di quei nuovi significati meditati il sabato senza adagiarsi su quelli acquisiti la domenica precedente, in un costante dialogo fra festa e tempo di preparazione alla festa.

  14. Paolo Pegoraro ha detto:

    la Festa sta al tempo come la visione artistica al nostro “vedere” quotidiano

  15. Emanuela Scicchitano ha detto:

    Pascoli definiva l’arte come il “cannocchiale rovesciato” con cui si osserva la realtà: ingrandisce i particolari che alla vista quotidiana appaiono invece sfocati, fa sbiadire quelli a cui si al contrario si dà rilievo. e del resto da Omero in poi l’arte è sempre stata associata alla vista interiore antinomica alla vista sensibile, e perciò considerata “sacra”. il confronto tra vedere quotidiano e vedere artistico, tra tempo feriale e tempo festivo è sempre riconducibile a quello fra profano e sacro, pur con tutte le differenze tra antichità e modernità.

  16. Paolo Pegoraro ha detto:

    @ Emanuela
    l’antitesi sacro/profano come ordine/disordine non mi torna, così come non mi torna quella tra Quaresima/Carnevale… voglio dire, la festa a cui fa riferimento la Quaresima non è il Carnevale, ma la Pasqua. Forse la vera antitesi è tra questi due modelli di festa: Carnevale/Pasqua.

    d’altra parte ho come l’impressione che il Carnevale sia una festa sempre meno sentita. Da ragazzino andavo a scuola con il costume, c’era la sfilata dei carri anche nel mio piccolo paese, oggi… mi sembra affievolito. Come se il venir meno della percezione della Quaresima/Pasqua avesse affievolito anche l’altro complemento.

  17. Emanuela Scicchitano ha detto:

    @ Paolo
    Provo a rispondere ai dubbi sollevati da Paolo sul rapporto dicotomico Carnevale / Quaresima, facendo retrospettivamente riferimento alle origini del Carnevale, studiate da Bachtin e da Caillois. Condivido la loro tesi: che il carnevale sia l’evoluzione degli antichi Saturnali, nei quali il popolo poteva infrangere quei divieti morali e sociali imposti durante l’anno, in vista di quell’annuale rinnovamento delle attività umane, che in genere si collocava sulla coda dell’inverno e in vista dell’inizio della primavera. Terminata la festa “pagana”, si ritornava al mos maiorum e ai consueti divieti, resi più importanti poiché infrangibili per una sola volta l’anno. Il radicamento popolare a questa usanza è stato tale che il calendario cristiano ha mantenuto la festa facendola seguire in un continuum temporale dalla Quaresima e dalla Pasqua, con cui l’entrata nella primavera vera e simbolica dell’anno e dello spirito è ormai definitiva. Non credo che sia un caso che al Martedì grasso segua il Mercoledì delle ceneri, che ripristina quegli interdetti corporali e morali che il Carnevale aveva sovvertito. È un modo per ribadire che la Quaresima è il tempo della transizione fra la “festa” più pagana e quella più sacra dell’anno. Che poi, come giustamente osservi, il Carnevale si sia depauperato della sua originale prepotenza è vero: l’organizzazione sociale post- rivoluzione industriale impedisce stacchi temporali incisivi nelle attività umane, che si sono imborghesite, omologate e appiattite in un tempo fluido che più che abbandonarsi alla festa (tempo pieno) preferisce la vacanza (tempo vuoto). E la perdita di valore del Carnevale sta anche nella perdita di vigore dei divieti sociali, etici di fatto infranti per l’anno intero poiché non più avvertiti come importanti ma schiacciati dal relativismo morale dominante.

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