Moby Dick / 2 – I messaggeri dell’Imperscrutabile

(La prima parte QUI)

«Per produrre un libro grandioso – scrive Herman Melville – si dovrà scegliere un tema grandioso». Secondo lo scrittore newyorkese la balena è il tema più ampio possibile, eppure, nonostante dia il titolo all’opera, Moby Dick balenerà fuori dalle onde soltanto nelle ultime pagine, in un’epifania fulminea e rovinosa. Se ne contempla la possanza attoniti e smarriti, come un uomo che apra gli occhi giusto in tempo per vedersi piombare addosso un treno. Di YHWH si possono vedere solo le spalle, della balena infuriata soltanto la coda.

Eppure Moby Dick è ossessivamente presente in ogni pagina del romanzo: lo colma con la sua assenza, incombe dalle profondità abissali sopra le quali navigano i suoi incauti cacciatori. Anche le molteplici digressioni non fanno altro che piegare ogni branca del sapere a un suo tentativo di comprensione. Se in altre opere – dai romanzi picareschi al Viaggio sentimentale di Sterne – le digressioni sono centrifughe, quelle di Moby Dick appaiono invece come insistite spinte centripete. Più che digressioni paiono ingressi: porte, finestre, botole, infiniti tentativi di forzare, penetrando da un alto o dall’altro, il Mistero di cui la balena è messaggero. I cetacei – «elementi costitutivi del caos» – sono descritti da Melville come i custodi di ciò che sfugge all’uomo: «il mondo non può risolvere il mistero di se stesso» e la scienza «non è che una favola effimera». Moby Dick rappresenta l’implosione del paradigma conoscitivo dell’enciclopedia: non basta accumulare tutto lo scibile esistente per possedere la realtà. Così che l’uomo stesso si scruta senza comprendersi: «Queequeg era, nella sua stessa persona, un enigma da sciogliere, un’opera stupefacente in un solo volume, i cui misteri però non potevano essere letti neppure da lui, benché sotto di essi battesse il suo cuore vivo».

Di fronte a Moby Dick – e a ciò che essa rappresenta – sono possibili le reazioni più diverse, come esemplificano i suoi personaggi in molte pagine. C’è il narratore, Ismaele, colui che, davanti al Mistero, viaggia animato da «una voglia insaziabile di cose lontane» per ampliare i propri orizzonti e per raccontarlo: è lo scolaro («ho traversato a nuoto le biblioteche») e il testimone («una nave baleniera fu la mia Harvard e la mia Yale»), lo scrivano e l’eterno principiante, l’uomo animato da un desiderio di conoscenza finalizzato alla convivenza. Il primo ufficiale Starbuck è l’uomo devoto che davanti al Mistero s’inchina: sa riconoscerne i segni e li teme; il suo giudizio è sempre ponderato e non smarrisce la propria umanità neppure quando ne va della propria vita. Stubb, il secondo ufficiale, riconosce che tutto è un segno, ma non saprebbe dire di cosa: ritiene che «una risata è la risposta più saggia e più semplice a tutto ciò che è bizzarro». E poiché «tutto è bizzarro, a pensarsi», il suo buonumore è inaffondabile, venato di fatalismo e «quasi empio» per costanza. Flask, terzo ufficiale, è prosaico e piatto; il Mistero semplicemente non lo coglie, il suo sguardo si conclude con il visibile.

Infine, ecco il capitano Ahab, l’incapace di lode – «ogni bellezza per me è angoscia, perché non so mai gioirne» – colui che riconosce il Mistero e i suoi araldi, e volutamente vi si oppone: «ciò che odio di più è proprio quell’imperscrutabilità, e che la balena bianca ne sia l’agente o il mandante, io le rovescerò comunque addosso il mio odio». Ciò che Ahab non accetta è il suo statuto deficitario di creatura, palesatogli nella gamba mozzata e sostituita con una in osso di balena: gli è stata portata via durante un’altra caccia, mentre, con una lama di sei pollici, tentava di colpire il centro vitale del cetaceo, collocato a un braccio di profondità… una sproporzione pari soltanto alla pretesa del suo intelletto di violare il cuore stesso del Mistero. Dall’anca slogata di Giacobbe a Brava gente di campagna di F. O’Connor, limitare l’autonomia di movimento pare essere la lezione che l’Imperscrutabile infligge a quanti si vorrebbe padroni assoluti della propria vita. Ma Ahab non desiste: armatosi di una trinità pagana (i tre ramponieri: maori, pellerossa, centrafricano), di roboante retorica («la giusta via per adorarti è sfidarti!») e di blasfema teatralità (la forgia della lancia) stavolta sarà ridotto al silenzio con noncuranza, quasi en passant. In fondo non è altro che un «vecchio» – così lo appella Starbuck – smarritosi nella propria arroganza, resosi ridicolo e per questo irriso da “Colei che abita gli abissi” (cfr. Sal 2,4).

Un assaggio dell’opera

Esplorare i lineamenti della faccia, tastare i bitorzoli sulla testa del Leviatano, è una cosa che finora nessun fisiognomo o frenologo ha mai tentato. Un’iniziativa simile parrebbe foriera di promesse, quasi come se Lavater si fosse proposto di esaminare i corrugamenti della Rocca di Gibilterra, o se Gall fosse salito su una scala per tastare la cupola del Pantheon. Eppure, nella sua famosa opera, Lavater non solo tratta delle diverse facce degli uomini, ma studia anche attentamente la fisionomia di cavalli, uccelli, serpenti e pesci, soffermandosi in particolare sui cambiamenti di espressione che vi si possono ravvisare. Del resto, né Gall né il suo allievo, Spurzheim, hanno mancato di accennare alle caratteristiche frenologiche delle creature diverse dall’uomo. Quindi, pur essendo poco qualificato per far da pionere nell’applicare queste due pseudoscienze alla balena, ci proverò. Non lascio niente di intentato, e ottengo i risultati che posso.

Sotto il profilo fisiognomico, il Capodoglio è una creatura anomala. Non ha un naso vero e proprio. E siccome il naso è il connotato centrale, più cospicuo della faccia, forse quello che più altera e, in definitiva, regola l’espressione congiunta di tutti i connotati, ne deriva che l’assenza totale di questa appendice esterna dovrebbe incidere fortemente sul sembiante della balena. Giacché, come nel giardinaggio paesistico si ritiene che una guglia, una cupola, un monumento, o una qualche torre sia pressoché indispensabile per dare compiutezza allo scenario, allo stesso modo una faccia, dal punto di vista fisiognomico, non può essere ritenuta armoniosa senza quell’alto campanile traforato che è il naso. Fate saltare il naso alla statua di marmo del Giove di Fidia e, ahimé, che cosa ne resta! Nondimeno, se nella statua di Giove la mancanza del naso parrebbe un abominio, il Leviatano ha dimensioni così possenti e proporzioni così maestose che in esso tale lacuna non si configura affatto come un difetto.

Anzi, ne aumenta la grandiosità. La presenza del naso, nella balena, non sarebbe stata pertinente. Nel corso della vostra esplorazione fisiognomica del Leviatano, quando doppierete la sua grande testa a bordo del vostro battellino di servizio, il nobile concetto che vi siete fatto di lui non potrà mai esser sminuito dal pensiero che potreste prenderlo per il naso. Fantasia perniciosa e invadente, questa, che vuole imporsi persino quando ci si trova al cospetto del più solenne mazziere di corte sul suo trono.

Per certi particolari, sotto il profilo fisiognomico, la prospettiva più imponente che si può avere del Capodoglio è quella della sua testa vista di fronte. È uno spettacolo sublime, questo. Nell’atto di pensare, una bella fronte umana è come l’Oriente quando viene turbato dall’alba. Nella quiete del pascolo, la fronte corrugata del toro ha in sé un che di grandioso. Quando l’elefante spinge un pesante cannone su per le gole di montagna, la sua fronte è maestosa.

La fronte arcana, d’uomo o d’animale, è come il gran sigillo aureo che gli imperatori germanici imprimevano sui loro decreti. Sta a significare: «Dio: fatto quest’oggi di mio pugno». Ma nella maggior parte degli animali, anzi, anche nell’uomo, assai sovente la fronte è una mera striscia di terra alpestre che si estende lungo il limite nivale.

Sono poche le fronti, come quelle di Shakespeare o di Melantone, capaci di sublimi vette e di ime profondità, tanto da far sembrare i loro occhi degli immoti laghi montani, limpidi ed eterni; e al di sopra di essi, nelle rughe della fronte, pare di poter scorgere le tracce dei pensieri ramificati che discendono per abbeverarvisi, così come i cacciatori degli altipiani scozzesi seguono le orme dei cervi nella neve. Ma nel grande Capodoglio questa dignità divina, somma, maestosa, che è già insita nella fronte, viene enormemente amplificata, tanto che, ponendovi dirimpetto per osservarla, avvertite la Divinità e le potenze tremende con più forza che se contemplaste un qualsiasi altro oggetto della natura vivente. Giacché non vi è dato di vedere nessun punto preciso, nessun chiaro lineamento – niente naso, occhi, orecchie o bocca. Niente faccia – non ne ha una vera e propria. Nulla, tranne quell’unico vasto firmamento che è la sua fronte, fra le cui pieghe si celano enigmi, e che mutamente minaccia di rovina lance, navi, uomini. Nemmeno di profilo la sua stupefacente fronte vien sminuita, sebbene, vista cosi, non sia altrettanto imperiosa. Di profilo, a metà fronte si nota chiaramente quella depressione orizzontale a mezzaluna che, secondo Lavater, nell’uomo è il marchio del genio.

Ma come? Il Capodoglio ha il marchio del genio? Ha mai scritto un libro? Ha mai tenuto un discorso? No, il suo grande genio si rivela in quanto non fa nulla di particolare per dimostrarlo. Si rivela inoltre nel suo silenzio piramidale. E ciò mi fa venire in mente che se il grande Capodoglio fosse stato noto agli abitanti dell’Oriente primevo, essi lo avrebbero divinizzato coi loro pensieri da piccoli magi? Divinizzarono il coccodrillo del Nilo perché il coccodrillo è senza lingua. Anche il Capodoglio non ha lingua, o perlomeno, ne ha una talmente piccola che non riesce a protenderla. Se mai un giorno un popolo altamente colto e poetico volesse richiamare in vita gli antichi dèi gioviali del Calendimaggio, inducendoli a rivendicare il loro diritto di primogenitura, e li reinstallasse sul trono, nel cielo ora egotista, sul colle ora disabitato dagli spiriti, allora, siatene certi, il grande Capodoglio ascenderà da dominatore assoluto al sommo seggio che un tempo fu di Giove.

Champollion riuscì a decifrare i geroglifici sul granito corrugato, ma non c’è nessuno Champollion che possa decifrare l’Egitto sul volto di ogni uomo, di ogni essere vivente. La fisiognomica, come ogni altra scienza umana, non è che una favola effimera. Se Sir William Jones, capace di leggere trenta lingue, non sapeva leggere la faccia di un semplicissimo contadino nei suoi significati più sottili e profondi, come può sperare l’incolto Ismaele di leggere lo spaventoso caldeo sulla fronte del Capodoglio? Io mi limito a mettervela davanti, quella fronte. Leggetela voi, se potete.

(articolo comparso su ZENIT 19/04/2011)

Leggi i 3 commenti a questo articolo
  1. Alessandro Maria Piotto ha detto:

    Apprezzo molto l’articolo, che mi richiama alla memoria una delle più affascinanti e misteriose letture. In effetti, in questo concordo pienamente, il libro è permeato di mistero, e lo scrittore sembra davvero voler imboccare il lettore con piccoli pezzettini, prima di consentirgli di spalancare i propri occhi di fronte all’incarnazione del mistero stesso. Ho sempre creduto che il grande scrittore debba riuscire esattamente in questo: produrre attesa, curiosità, più o meno morbosa, di giungere ad un quid tangibile, ed il modo migliore, non vi è dubbio, è quello di rendere il protagonista presente nella sua assenza, capace di colmare quelle lacune che è lo stesso lettore a dover rilevare. Mi ricorda molto un altro scrittore al quale sono legato: Bram Stoker. Nel suo Dracula, in effetti, il Conte compare ben poco, se ne descrivono i tratti fisiognomici, ma poi poco o nulla, eppure la sua è una presenza incombente, minacciosa, invasiva in tutto il romanzo; lo si legge con l’inquietudine del male che finirà per pervadere tutto, lo si legge con rassegnazione, sapendo che ogni tentativo di liberarsi di Dracula è vano, ed in ogni caso comporterà numerosi sacrifici in termini di vite umane.
    L’imponenza del mistero è tema assai difficile da trattare in letteratura: ho in mente due scrittori, fondamentali nella mia crescita non solo letteraria, ma anche esistenziale, come Buzzati e Borges. Sebbene in un contesto storico – culturale ben differente anche loro affrontano in maniera estremamente affascinante il tema del mistero: la fortezza Bastiani e la città degli Immortali sono pietre miliari del labirinto interiore dell’uomo e della vacuità del suo essere. Non siamo però di fronte a testi lirici, nè tantomeno di fronte a trattati filosofici, ma si tratta di un realismo, con elementi fantastici, che non sfocia mai nel drammatico de profundis dell’uomo moderno, ma anzi consente una progressiva presa di coscienza della sua relatività, della sua mortalità, ma mai della sua inutilità. Il mistero affascina, non distrugge.

  2. Paolo Pegoraro ha detto:

    Verissimo Alessandro! «Il mistero affascina, ma non distrugge»: trovo sospette le letture che identificano la Balena Bianca con “il male”… in fondo trattasi di legittima difesa. Scherzi a parte, Melville ha molto ben presente questa distinzione quando stabilisce la fine di Ahab non per “mano” di Moby Dick, ma soffocato dalla propria stessa lenza. La sfida di Ahab conduce non alla distruzione, ma all’autodistruzione: il mistero può ferire, accecare, mutilare, marchiarci indelebilmente a fuoco perché non scordiamo la sua esistenza… ma non distruggerci. Perché – i tatuaggi di Queequeg ce lo ricordano – noi stessi ne siamo parte. Il suicidio è semmai volersi separare da tale mistero, per quanto abissale, per quanto profondamente celato sotto le limpide acque dell’esistenza.

  3. Alessandro Maria Piotto ha detto:

    Proprio con riguardo all’ultima affermazione ho da poco finito di rileggere “la confessione” di Tolstoj..l’autore dipinge quattro possibili atteggiamenti dell’uomo di fronte al mistero ed al senso della vita: l’ignoranza, l’esistenza epicurea, la comprensione del “dramma di vivere” ma senza azioni estreme come il suicidio, forse per una spinta interna uguale e contraria di ricerca ultima di un senso, e la medesima comprensione, a cui fa seguito, però, l’impossibilità di continuare a trascinare pietosamente la propria esistenza.
    In seguito l’autore, in maniera prevedibile, trova il senso della sua vita nel rapporto con Dio, giungendo ad una fede molto peculiare, la fede dei poveri, la fede dei contadini, lontana dal dogma ortodosso, di cui lui rifiuta gran parte dei caratteri.
    Per quanto mi riguarda, a questa ricostruzione manca un punto, ovvero la coltivazione del mistero, il brivido dell’inafferrabile e la curiosità della scoperta, tutti atteggiamenti che, benchè di fronte all’inspiegabile mistero della vita, mi pare riuscirebbero a trasformare un’affannosa e tragica ricerca in un continuo e costante fascino.

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