Report Laboratorio O’Connor maggio 2011

Ultimo appuntamento della stagione con Lettori cercasi, l’incontro mensile tra il laboratorio di lettura O’Connor e la libreria Feltrinelli-Galleria Sordi di Piazza Colonna a Roma. Si ritrova così, quasi al completo, il gruppetto di affezionati che ha dato vita alle precedenti serate. C’è una magia che si ripete ogni volta e dalla quale rimaniamo sempre incantati: i testi proposti sembrano parlarsi tra loro, come ci fosse un filo invisibile ad intrecciarne le trame. Oggi raccontano la storia di un uomo, il valore delle sue scelte e di quelle che ha ereditato, il rispetto (o il rifiuto) per chi l’ha preceduto; oggi raccontano un lungo viaggio chiamato vita.

Non a caso, il primo brano letto viene da un romanzo di formazione: Il garofano rosso di Elio Vittorini. Alessio Mainardi sale gli ultimi gradini della sua adolescenza, per andare incontro alla scoperta dell’eros. Era così, una regina, pensai, e allora la toccai prendendole le braccia, e mi lasciai cadere in ginocchio dinanzi a lei col volto nel suo grembo. Quando Alessio si affaccia alla finestra vede un paesaggio a cui non ha mai fatto caso; forse è lo sguardo dell’adulto che prende il posto del ragazzino. Scorsi altre case, con tutte le finestre accese, e oscure ciminiere da ogni lato. Le vedevo per la prima volta, non avevo mai neanche pensato che ci fossero ciminiere nella nostra città.  E mi parve bellissimo che ce ne fossero tante, e tutte proprio là attorno.

Dalla storia di Alessio Mainardi, al secondo romanzo, fresco di pubblicazione, dell’urbinate Alessio Torino: Tetano. Ma che importanza ha, nella vita di un uomo, la scelta del nome? Ce lo spiegano  due ragazzi intenti a costruirsi un sentiero. Per volere del padre, originario di Gubbio, era stato battezzato con il nome del santo che ha liberato la città dal drago. Tra i miei amici di Roma, l’attaccamento ai santi era roba da vecchi, lui invece guardava a San Giorgio come fosse Mazinga Zeta.[…] Francesco Simoncelli, invece, si battezza una seconda volta con le sue stesse mani all’età di undici anni. Un giorno, senza sapere neanche lui perché, esce di casa con l’idea di farsi chiamare Achille Spada. Se Giorgio era stato educato all’orgoglio, il battesimo di Achille suona come il rifiuto dei fallimenti di un padre attaccato alla bottiglia come ad un cordone ombelicale. Quando aveva bevuto, Simoncelli era una casa in cui era appena andata via la luce.

Poche parole, eppure così efficaci nel descrivere la sensazione di spaesamento di chi ha bevuto, preparano il sentiero al brano successivo, che pure descrive i postumi di una sbornia colossale.  Leggendo Il sogno americano di Norman Mayer, ciò che colpisce è la grande ricchezza di immagini e suoni, la scelta di paragoni non sempre immediati – Per strada l’aria fresca mi entrò nei polmoni come un complicato massaggio d’allarme – e il ricorrere frequente ad espressioni e verbi “invasivi”.  Il clacson di un’auto mi sferzò l’orecchio […] il sibilo acuto mi portò su un treno della notte […] urlava dentro di me come un vaso appena spezzato può stridere invocando lo stucco.

È il turno di Michela Murgia e del suo Accabadora. Il classico ceffone per una marachella puerile diventa l’occasione per una importante lezione di vita. – Hai capito perché ti ho picchiato? – Perché ho rubato le mandorle. – No. Ti ho picchiato perché mi hai detto una bugia. Le mandorle si ricomprano, ma alla bugia non c’è rimedio. Ogni volta che apri bocca per parlare, ricordati che è con la parola che Dio ha creato il mondo. Capita poi che il ricordo di un episodio si attacchi ad un particolare, come il profumo dei dolci, i pabassinos,  che la Tzia Bonaria aveva preparato in cucina.

Altro giro, altra corsa. Ascoltiamo un brano da Conta le stelle se puoi di Elena Loewenthal. Le Alpi se ne stavano lì, impenetrabili, in fondo all’orizzonte su quasi tre lati interi con le cime imbiancate di vecchia neve e il dorso grigio metallico. A Moisìn parve impossibile che il padre le avesse mai attraversate; per un attimo gli venne da pensare che quella strana storia non fosse vera. Ritorna il bisogno di confrontarsi con la figura paterna, quel desiderio istintivo di un’unità di misura che possa quantificare il peso di un legame. C’è poi quel dorso grigio metallico che sembra fare l’occhiolino alle ciminiere di Vittorini.

Dopo cinque romanzi arriva un fumetto, un esordio (chissà?) nel nostro laboratorio. Le vignette, da L’inverno italiano di Davide Toffolo, mostrano una coppia di bambini immersi nella tragedia di un campo di concentramento e le loro reazioni di fronte all’uccisione di un millepiedi. Se il ragazzo ha ormai costruito una corazza di fronte ad un male che non può capire, la bambina non riesce ancora a sviluppare un distacco totale. A stare qui, diventiamo come gli italiani. L’intensità del dramma dei bambini dinanzi al sonno della ragione passa attraverso canali a noi nuovi: il disegno, la disposizione delle figure, le singole onomatopee.

Si è fatto tardi, è quasi ora di andare. Chiudiamo con Il nuotatore, un racconto di John Cheever che, neanche a farlo apposta, ci riporta a casa. Il bambino che oggi ha scelto un altro nome, il ragazzo che ha conosciuto l’amore, l’uomo che pur si è sentito piccolo di fronte alle Alpi sconfinate, ora sente il bisogno di lasciare il viaggio alle spalle, di riposare. La casa era chiusa a chiave, e pensò che doveva averla chiusa qualche stupida cuoca o cameriera, finché non ricordo che già da un po’ non avevano cuoche o cameriere. Gridò, batté i pugni sulla porta, tentò di abbatterla a spallate, e poi, guardando attraverso le finestre, vide che la casa era abbandonata.

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