Ogni cosa alla sua stagione

In Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi, 2010), Enzo Bianchi distilla sottile sapienza esistenziale, offrendoci di condividere questo suo tempo di maturità piena, nel quale la sovrabbondanza dell’esperienza si amalgama perfettamente con la tensione verso l’essenzialità. Il libro è ricchissimo di stimoli alla riflessione, all’indagine su se stessi e sul proprio modo di rapportarsi con il mondo. Ad inizio anno, ha stazionato per settimane ai primi posti delle classifiche di vendite: ennesimo, singolare (e consolante) paradosso di un Paese di cui le cronache spicciole di questi tempi raccontano un’inquietante inclinazione alla superficialità, alla volgarità, al degrado morale.
Dalla sua cella di monaco, Bianchi spinge la propria meditazione ad esiti straordinari di conoscenza degli uomini e del mondo. Non sono le risultanze di una contemplazione che attinge vette d’inarrivabile dottrina teologica, quelle che ci espone nel libro, nel quale si evidenzia piuttosto la solida trama di un vigoroso esercizio di riflessione sulla vita e sul mondo. La solitudine monastica, ben diversa dall’isolamento, condizione di sterilità e di abbandono, comporta uno scavo nel profondo dell’animo di chi la pratica, ma è al tempo stesso stimolo per un’interazione dinamica con la vita del mondo, al quale l’autore frequentemente torna in praesentia con testi come questo, per rivelare i paesaggi interiori che ha attraversato. La cella non rende estraneo al mondo chi di essa ha concreta consuetudine, anzi è un modo per essere “sul mondo”, secondo l’espressione usata dall’autore: solo una ricerca della verità di sé diuturnamente  rinnovata, ottenuta con il “parlare a Dio, e vincere la tentazione di parlare di lui”, consente di capire che “la passione, della parola, della comunicazione e quindi della comunione, richiede l’arte del silenzio e della solitudine”.
La sua meditazione concerne la sostanza stessa del nostro vivere, riconosce nei suoi segni, anche minimi od esteriori, tracce degli elementi essenziali, corpo e sangue dell’esistenza. Discerne nell’infinita molteplicità delle nostre vite la potenza vivificante del quotidiano, l’opportunità rigeneratrice dell’ordinario, che continuamente danno respiro ai nostri atti, e cioè, nella prospettiva cristiana di Bianchi, a ciò che noi diciamo di noi agli altri e a Dio. Di qui il valore inestimabile che si deve attribuire ad ogni giorno che ci è donato su questa terra, in cui si rinnova per ognuno la possibilità di manifestare una scheggia di assoluto fin nella profondità della contingenza più ordinaria. Le riflessioni di Bianchi si sostanziano nel ricordo di gesti, di luoghi e di incontri, proposti in un colloquio cordiale ed appassionato al lettore, anche a quello più disincantato, anche a quello più laicamente distante dal suo universo culturale.
La sua scrittura non è mai consolatoria, non edulcora né abbellisce, rifugge l’orpello, conduce senza infingimenti al cuore dei problemi dell’esistenza. Vi si persegue sincerità più che bellezza, e ne risulta uno strumento adeguato per percorrere un itinerario della memoria che attraversa diversi periodi, suggestivamente individuati come i giorni degli aromi, del focolare, del presepe e della memoria. Ognuno di questi periodi identifica una particolare stagione della vita e dell’anima insieme. Possono, infatti, avere una precisa sistemazione cronologica, ma anche a volte ripresentarsi in più fasi della vita, identici in apparenza ma con significati di volta in volta diversamente intelligibili.
Ecco allora il ritorno nel ricordo alla terra madre, il Monferrato con le sue colline ondulate, dove i falò segnalavano l’inizio e la fine delle estati immense di attese dell’adolescenza dell’autore, quando tutto era di là da venire, e i ragazzi si sperimentavano sull’amicizia e sull’amore. Primi decisivi spunti per suggerire a Bianchi l’elegia dell’amicizia, che illumina larga parte del capitolo dedicato ai giorni della memoria: “L’amicizia è una grande avventura in cui si conosce cosa vuol dire il bene dell’altro …nasce da un incontro inaspettato, appare come un dono gratuito dovuto a Dio … non si offre, non si compra, non si mendica, non si simula”. Contiguo all’amicizia, pur senza con essa identificarsi, è il rapporto di fraternità, proprio della vita conventuale, in cui può trovare concreta rappresentazione un ideale di convivenza sulla terra, un ”insieme di persone unite non tanto da un possesso, da una proprietà, da un “di più”, ma da un “di meno”, da un debito che ciascuno vive verso gli altri”. Un ampliamento di prospettiva ci spalanca un ambito assai caro a Bianchi, la compagnia degli uomini, la fraterna comunanza con coloro con i quali ci è toccato in sorte di condividere lo spazio e il tempo entro i quali si tende l’arco della nostra vita. Nessun incontro va perduto, in una prospettiva di solidale e scambievole sostegno per imparare a vivere: “vivere è duro, e occorre imparare a vivere come si impara un mestiere”, e, in fondo, è un’incombenza che non finisce mai.
Alcuni momenti sembrano poi particolarmente propizi, ben oltre il loro significato immediato, per suscitare il calore nella compagnia tra uomini. La tavola, innanzitutto, luogo per elezione di cordialità e di condivisione, scuola per un’umanizzazione dei rapporti che trascende la semplice condivisione del cibo, nella quale si esprime, oltre alla gratuità dell’invito per l’ospite, l’auspicio “della fiducia nell’altro, dello sperare insieme qualcosa di comune per il futuro”. L’idea di gratuità, già esemplificata sotto le specie della convivialità, è ulteriormente esposta in una folgorante lode al vino, che allieta il capitolo dedicato ai giorni degli aromi: “bere vino richiede che uno abbia voglia di aiutare la vita, … che aneli a celebrare ciò che gli dà gioia: l’amore, l’amicizia, l’incontro, un evento insperato o a lungo atteso o sperato”. Nulla avviene senza intima coesione tra corpo e spirito, com’è proprio di una visione genuinamente cristiana della vita. Queste manifestazioni di terrena letizia sono altrettante figure di crescite interiori, ed inducono a coltivare la virtù privilegiata da Bianchi, la speranza, che consente serenità ad esistenze tormentate dal dolore, o segnate dall’incomprensibilità del male. Sperare ha per Bianchi un inequivocabile contenuto etico, una manifestazione di quella libertà di scelta che ci caratterizza come figli di Dio, perché implica una determinazione cosciente riguardo al futuro, sia singolo sia collettivo: “scegliere di sperare significa decidersi per una responsabilità, per un impegno riguardo al destino comune, significa educare le nuove generazioni trasmettendo loro la capacità di ascoltare e di guardare l’altro”. Ed è proprio quest’assunzione di responsabilità che, per Bianchi, rende unico il passaggio di ognuno sulla terra, accettabile il mistero della vita e tollerabile perfino il pensiero della fine.
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  1. Vittorio ha detto:

    L’ho trovato “per caso” nell’appartamento del mare. Forse l’ha lasciato mia madre il mese scorso. L’ho letto con piacere e commozione.
    Mi è molto caro il passaggio sulla “durezza” del vivere e sulle “curve” che la vita impone.
    Così come l’accostamento speranza/responsabilità
    Si legge “bene”.
    Leggetelo anche voi, questa estate.

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