Valter Binaghi e Giulio Mozzi e i loro 10 motivi per essere cattolici

10 buoni motivi per essere cattoliciA proposito di: Valter Binaghi e Giulio Mozzi, Dieci buoni motivi per essere cattolici, Laurana editore, 2011, € 11,20

L’ampiezza dello spazio che i mezzi di comunicazione dedicano alle cose religiose rischia spesso di essere controbilanciata dall’ambiguità con cui le informazioni vengono fornite: il transeunte è scambiato con il definitivo, l’accessorio con l’essenziale, nel migliore dei casi è l’etica ad essere confusa con la fede. A questa tendenza si oppone questo prezioso Dieci buoni motivi per essere cattolici di Valter Binaghi e Giulio Mozzi. Al libro è premessa un’ampia quanto intensa introduzione firmata da Tullio Avoledo, intessuta di divagazioni così personali da potere essere apprezzate (per non dire spesso condivise) da tantissimi tra i lettori che intendano sperimentare se stessi con i dieci motivi di cui al titolo.

I due autori si sono cimentati con ciascuno dei dieci motivi del titolo. Più analitico e di sguincio lo sguardo di Mozzi, attento a dettagli a cui conseguono intuizioni fulminanti e dedito ad estrarre verità dalle narrazioni che compongono la tradizione cattolica. Binaghi riserva, invece, a sé il compito di perimetrare quella verità, richiamando i principi di una fede di cui tanti discettano senza conoscerli. I due punti di vista, come osserva Federico Platania nel suo blog (4 agosto scorso), sono felicemente complementari e l’effetto complessivo è di un’inconsueta combinazione di ampiezza argomentativa e di profondità di pensiero, tanto più notevole se si considerano le ridotte dimensioni del testo.

Il saggio ha suscitato un notevole dibattito, soprattutto in rete, a testimonianza dell’interesse che la materia è in grado di sollevare. Sono intervenuti, e tuttora intervengono, autori dalle provenienze e competenze più disparate, dal già citato Platania a Michela Murgia a Luca Negri, da Alessandro Zaccuri a Fabio Brotto a Carlo Gambescia: di alcuni contributi si renderà sinteticamente conto di seguito, perché particolarmente stimolanti per queste notazioni, semplici impressioni di lettura senza pretese di sistematicità, né tanto meno di esaustività. La raccolta completa degli interventi è comunque reperibile, oltre che sul sito della casa editrice, in Vibrisse, bollettino, alla voce, appunto, “Dieci buoni motivi per essere cattolici”.

Un primo tema riguarda il carattere apologetico dell’opera, il cui titolo appare al riguardo un po’ fuorviante, come osserva Michela Murgia in un articolo apparso su Saturno del 15 luglio scorso, inserto culturale de Il Fatto Quotidiano, in particolare per ciò che ne conseguirebbe circa la polemica contro l’ignoranza dei contenuti dell’Antico Testamento diffusa in larga parte di coloro che si dichiarano cattolici. Dilaga, al contrario, un interesse quanto meno eccessivo intorno a questioni secondarie, se non inconferenti rispetto all’essenza della fede che professano. Scrivono gli autori nell’introduzione: “il dibattito pubblico, sia quello nei giornali, sia quello al bar – si sfoga a commentare le cautissime prese di posizione della gerarchia pro o contro le politiche dell’attuale governo, o a rivangare interminabili discussioni attorno alla morale sessuale … ”. La superficialità, in materia, è diffusa in maniera sconcertante, e non pare proprio una battuta ricordare che “il cristiano cattolico non è – per dire – una persona che ha dei problemi con i preservativi, ma una persona che aspetta con viva speranza la fine del mondo”. Date queste premesse, il libro pare suggerire in primo luogo un uso “interno”, di supporto per chi si sente cattolico perché inserito in una tradizione culturale che lo vuole tale, ma sostanzialmente indifferente. Questo sembra indicare del resto anche il segnale implicito nel titolo, che riecheggia il crociano “perché non possiamo non dirci “cristiani”, per rilevare la distanza tra il dirsi “cristiani” e l’essere cattolici. Così, è quasi inevitabile ritrovare nel libro un seguito di ragionamenti forti, anche in contrasto con ciò che soprattutto a Binaghi appare come un agglomerato di concezioni non solo dominanti, ma anche assai pericolose per l’essenza stessa della cristianità che si assume “cattolica”, e per di più molto pervasivi nei confronti dei cattolici “culturali” di cui s’è detto. Di qui (anche, ma non solo), l’opportunità di “identificare il nemico”, che è poi uno dei dieci motivi per essere cattolici (uno su dieci, appunto, anche se spunti polemici pervadono anche qualche altro motivo). Ed anzitutto il nemico si svela nell’“umanesimo ateo”, che, “ha un bel daffare nel tentativo di sterilizzare l’agire umano da ogni motivazione spirituale, nel bene o nel male, trasformando la bontà in solidarietà di specie o addirittura in utilità sociale”, con la conseguenza che i carnefici sono trasformati in vittime “dalle truppe cammellate di psicologi, sociologi, antropologi criminali e genetisti, che si affannano a dimostrare come dietro ad ogni atto rivolto contro la persona umana ci sia un movente umanamente comprensibile, una rabbia e una cecità dall’origine causalmente determinabile…” (pp. 59-60). Il cattolico vero è “contro” tutto questo, e vive la propria adesione al messaggio di Cristo in una forma radicale che respinge frontalmente le più insidiose tentazioni intellettuali del secolo, derivanti da “quella che è probabilmente la sintesi di tutte eresie, cioè il Modernismo”, riaffiorante oggi in forme adeguate alla nostra sensibilità, soprattutto se lo s’intenda come “rinuncia alla Verità oggettiva e intangibile in nome degli interessi del secolo, una sorta di aggiornamento del vangelo alle teorie scientifiche o filosofiche più alla moda” (p. 115). Di qui, “la rimozione dell’oggettività in quanto tale, cioè della capacità dell’intelligenza di affermare il vero oltre l’opinione, il buono oltre l’utile, dunque il puro e semplice principio di realtà …” (p.116). Binaghi (straordinaria una sua successiva vertiginosa sintesi volta a dimostrare come il “Nemico” sia “dentro” la direzione verso cui è orientato l’intero nostro sistema socio politico), rintraccia queste categorie di pensiero nei “salotti post illuministi di destra e di sinistra”, adottati sia “dai teo-con che dai radical chic”: il richiamo, qui sì duramente polemico, a circostanze contingenti, non riesce però ad oscurare il valore di carattere generale delle sue osservazioni, che possono rappresentare un apprezzabile strumento d’interpretazione dell’universo culturale del nostro tempo.

Sindrome da accerchiamento? Atteggiamento difensivistico e conseguente apologia polemica come sortita da un assedio soffocante e dall’esito in definitiva scontato? La riaffermazione orgogliosa, propria delle parti del libro dovute a Binaghi delle quali s’è proposto qualche esempio, di alcuni fondamenti di fede risalta certo in tutta evidenza nel confronto con l’altro (con l’errore, non con il nemico, ché questa non pare proprio l’intenzione degli autori). Ciò non significa però che sia possibile attribuire all’intero libro un intento di difesa ad oltranza di posizioni non sottoponibili al vaglio del confronto. La pars destruens delle argomentazioni non appare prevaricante su quella construens. È utile al riguardo richiamare quanto Avoledo afferma nell’Introduzione. Per lui il coraggio dovrebbe essere la divisa del cristiano, e costituirne una delle sue dimensioni essenziali, il coraggio e non la difesa rivendicativa o querula (a seconda di chi avanza critiche di tal genere) contro un mondo avverso: “Qualcuno cerca di ingannarci, di farci credere che non siamo cristiani. Perché? Perché un cristiano non ha paura. E questo mondo è dominato dalla paura … Paura del diverso, paura dello straniero, paura dell’aria che respiriamo. L’Apocalisse è diventata la cifra del futuro. Ma apocalisse, in greco, vuol dire rivelazione”…Per un cristiano, l’Apocalisse non è l’Armageddon. Non è la fine del mondo.” Un’idea molto vicina, dunque, a quel “non abbiate paura” proclamato a gran voce da Giovanni Paolo II, che non richiama certo una condizione da stato d’assedio.

Gli autori del libro sono due scrittori, che nell’approccio alle questioni che trattano portano le competenze proprie del loro mestiere, quasi a realizzare un inveramento, a parti invertite e con le forme tipiche della nostra contemporaneità, dell’augurio implicito di Karl Rahner: “ … non dovremmo domandarci una buona volta dove sono mai i bei tempi nei quali i grandi teologi erano anche poeti e componevano inni?”. E da letterati è la definizione della religione cristiana cattolica dalla quale gli autori prendono le mosse per enunciare i dieci buoni motivi di cui al titolo: “… è prima di tutto una narrazione: un insieme, un coacervo di narrazioni… un immaginario … che può essere tenuto per vero o per, appunto, puramente immaginario” (pp. 25-26). Una narrazione, dunque, come strumento di conoscenza offerto alla ricerca di verità a cui ciascuno di noi aspira, perché l’indicibile non può per definizione appunto essere detto, semmai rappresentato con storie, simboli, segni, figure alla portata della nostra immaginazione. Ciò suppone una disponibilità, più o meno consapevole, a farsi raggiungere da queste storie, una capacità di decifrarne i caratteri, una collocazione quanto meno liminare rispetto alla tradizione genericamente cristiana. D’altro canto, il bisogno di spiritualità dell’uomo contemporaneo pare manifestarsi (e qui siamo invece anche in partibus infidelium) non più soltanto all’interno del perimetro della confessione religiosa nel senso pieno del termine, da cui anzi tende a fuoriuscire, per cercare risposte in ambiti diversi, soprattutto in esperienze genericamente estetiche (lettura, musica, cinema…). Una narrazione, infine, di cui gli autori enucleano come unico tema “una storia d’amore difficile e contrastata – come tutte le storie d’amore – tra un creatore e le sue creature. È la storia di un’attesa della fine”. È la storia d’amore che fonda anzitutto il primo motivo, “perché questo mondo è stato creato”, grazie ad un primigenio, assoluto, incommensurabile ed incomprensibile atto d’amore. Scrive Mozzi: “Mi pare bella l’immaginazione di un creatore che tutt’a un tratto o da sempre sente la voglia di averci qualcuno che non sia lui stesso, di un qualcuno che gli somigli ma che sia abbastanza distinto da lui stesso da poterci parlare, … da poterci …avere una storia. Una storia d’amore magari combattuta, magari difficile, perché non è facile amare e tantomeno essere amati; però una storia bella e seria” (p. 29), che trova una sua compiuta definizione nell’interrelazione tra bellezza ed immaginazione. Anzitutto, la bellezza, che ci concede di affidarci al racconto che ci viene narrato, di lasciarci penetrare da esso, e poi plasmare e modificare. I dieci motivi, soprattutto nella parte mozziana, sono trapunti di richiami alla bellezza, in coerenza in fondo con una rivelazione della spiritualità che si assume in primis come adesione ad una storia. E, accanto ad essa, l’immaginazione, che sia quella attribuita al Dio creatore, che crea con atto d’immaginazione appunto, o che sia invece la facoltà che ci è di ausilio nel superare ciò che la scienza non prova, strumento atto a compensare le manchevolezze degli altri mezzi di conoscenza, diversi appunto, come s’è detto, dalla capacità di ricavare vita da una narrazione. Ed allora le frequenti antropomorfizzazioni del Dio creatore a cui ricorre Mozzi non sono virtuosismi fini a se stessi: “solo per immagini possiamo parlare di questo”, solo per descrizioni che siano compatibili con il nostro limitatissimo modo di narrare possiamo dirci ciò che l’intera nostra storia di uomini ci dimostra di non saper comprendere ed ancor meno spiegare.

Per questa via si rischia forse qualche scivolata verso l’assiomatizzazione del Dio dell’amore, di cui parla Gambescia in Linea del 30 giugno scorso, utilizzando tuttavia l’argomento in funzione di critica sociologica nei confronti dell’”istituzione – Chiesa”. Ma la storia d’amore che si dipana tra Vecchio e Nuovo Testamento conosce declinazioni del tutto inaspettate, sintetizzabili nel paradosso della figura del Salvatore che Davide incarna circa un millennio prima della venuta di Cristo. ”Davide è, finalmente, davvero una creatura innamorata del creatore … ed è per questo, per questo innamoramento, che il popolo scelto dal creatore considerò Davide come prefigurazione del futuro salvatore. Non immaginavano nemmeno … che il futuro salvatore non sarebbe stato una creatura innamorata del suo creatore, ma un creatore innamorato delle sue creature” (p. 46). È nello svilupparsi di una storia d’amore quale altre mai, all’interno di un vertiginoso rovesciamento di prospettive, che Binaghi individua il carattere unico del cristianesimo: ”… nessun esercito ha bisogno di tutti i suoi soldati, nessun regno si eclissa per la mancanza di un suddito, nessuna festa si rimanda per la rinuncia di un invitato. Ma Lui si è curvato sulla buca in cui ero caduto, e non si è incamminato prima che mi decidessi a uscirne. Pare proprio che la festa non cominci senza di me” (pp.136 – 137).

E le specificità del cattolicesimo, secondo Michela Murgia poco caratterizzate nel testo? Così, infatti, in Saturno, ed ulteriormente argomentando in Vibrisse, bollettino del 24 luglio: “… è proprio l’approccio alla Bibbia, che di per sé non è un testo cattolico, a far sì che per una buona metà del discorso non si capisce perché gli argomenti addotti dovrebbero essere considerati buoni motivi per essere cattolici piuttosto che ebrei, valdesi, ortodossi o anglicani.” Alcuni dei buoni motivi in realtà si confrontano, direttamente o meno, con esse. “Dio ha avuto bisogno di una donna”: e qui il termine bisogno, al limite della blasfemia se riferito a chi può tutto, va integrato ancora una volta nella storia d’amore che gli autori individuano nel rapporto tra creatore e creatura. “Per farsi creatura, aveva bisogno di una creatura” (p. 102): il creatore voleva condividere tutto della sua creatura, e quindi non sembrare, ma essere quell’impasto di spirito e di carne che siamo. Anche per quanto attiene alla Chiesa istituzione alcuni critici dei Dieci buoni motivi hanno rilevato insufficienze od omissioni, sottolineando ad esempio, come “i singoli cattolici pagano non certo l’adesione a Cristo, ma la crisi di credibilità dovuta all’appartenenza a un soggetto la cui natura mistica è difficilmente coniugabile con le brutture umane di cui spesso si rende protagonista o partecipe” e che “lo scandalo di cui siamo chiamati a dare ragione è l’arroccamento su presunte non negoziabilità, il rifiuto di considerarci dentro a un processo storico che pone domande nuove” (così ancora la Murgia, con efficacissima sintesi delle perplessità che non possono non investire un cattolico che provi ad interrogarsi sulla contemporaneità che gli tocca vivere). Tuttavia, nella considerazione di una prospettiva storica che abbraccia due millenni, alcune asperità di un nostro possibile smarrimento possono trovare sollievo. La chiesa istituzione è parsa a volte precorrere i tempi, a volte inseguirli. Ma negli Atti degli Apostoli, Pietro fissa una delle caratteristiche perenni della nuova comunità che si va formando: “i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni, e i vostri anziani faranno sogni” (Atti, 2,17). Per Mozzi, “nient’altro che questo … è la chiesa cattolica, l’assemblea universale: una comunità di profeti”’ (p. 111), da cui deve germinare profezia, cioè discontinuità, essendo il profeta colui per il quale “in qualsiasi momento, un atto di libertà è possibile”, così come un atto di speranza. Riconoscendo alla comunità lo status di comunità di profeti, Mozzi da un lato investe la responsabilità di tutti i suoi appartenenti (e quindi non solo della gerarchia) a farsi lievito della storia, e dall’altro lato smussa i termini delle accuse alla chiesa istituzione: “ che la chiesa organizzazione sia … un’organizzazione di potere, non è peraltro di per sé motivo bastante per volerne fare a meno; a meno che non si ritenga dannosa qualunque forma di organizzazione umana. La comunità spirituale e la ditta dei preti non hanno altra scelta che convivere, guardarsi in cagnesco ed occasionalmente farsi la guerra; senza mai dimenticare di essere un’unità, come io sono un’unità di corpo ed anima” (p.112).

Che cos’ è allora infine questo Dieci buoni motivi per essere cattolici?  Non certo un trattato di teologia, né un testo che dica (né certo lo pretende) qualche parola, se non definitiva, almeno innovante nella sconfinata letteratura sull’argomento. È invece, questo sì, una lunga, appassionata, ma non per ciò irrazionale, chiosa ad un racconto, a quella storia d’amore tra creatore e creatura che affonda le sue origini nella notte dei tempi ed ogni giorno si rinnova. Ed è anche l’espressione di una virtù cardinale a volte fraintesa, la fortezza, spesa nel fornire sostegno a fedi dubbiose, distratte, spesso periclitanti, come quelle di tanti fra noi, cattolici senza significativi perché, passivi fino al punto da non coltivare nemmeno più la salutare arte del dubbio. Al mondo evocato da Avoledo “dominato dalla chiacchiera e dal timore”, si contrappone la parola di coraggio dei due autori, felicemente fedeli al mandato di san Pietro: “siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt, 3,15). Impressionano la nettezza delle loro asserzioni, la schiettezza del loro argomentare, la mancanza di pudore con cui rivelano parti di se stessi che la nostra cultura vuole troppo spesso confinata nel “chiuso delle coscienze”: insomma la forza della proclamazione. Impressiona ancora la passione profusa dagli autori che traluce evidente in molte pagine, nonché l’evidente onestà intellettuale con cui la materia viene trattata, che autorizza l’osservazione, eccentrica solo in apparenza, per la quale “essere cristiani cattolici è oggi, in Italia, la più radicale diversità sperimentabile”. Accogliamo allora questo libro con tutta l’attenzione che merita, riconoscendone l’indubbio valore testimoniale e lasciamoci pervadere dal senso di attesa fiduciosa di cui è impregnato e di cui Mozzi e Binaghi ci rendono cordialmente partecipi: dall’Incarnazione in poi, nella storia degli uomini si sta insediando (p. 92) “non più il sogno – rimpianto delle origini, … ma il sogno – speranza del futuro; non più il pensiero dell’abbandono, ma quello del compimento”.

 

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