Preposizioni – “A”

Eccoci qui, mese nuovo, preposizione nuova e dopo Di viene A, quindi prendete carta e penna e date un’occhiata al calendario qui a fianco, segnatevi le date dei diversi laboratori e soprattutto della prossima Officina che si terrà il 17 dicembre. Sì, perché quest’anno cercheremo di seguire rigorosamente l’ordine prestabilito delle preposizioni, per cui il 17 dicembre “a”, il 28 gennaio “da”, il 18 febbraio “in”, il 5 marzo “con”, il 21 aprile “su”, il 19 maggio “per”, il 16 giugno “tra/fra”.

Se “di” indica specificazione, “a” indica destinazione, se “di” in latino corrisponde al genitivo, “a” corrisponde al dativo. In effetti si genera per dare, il generare è già un dare, un rimettere in circolo un dono ricevuto, un essere generosi, ma ci vuole sempre qualcuno a cui dare, giusto? “A” introduce proprio questo “qualcuno” così importante, l’altro a cui ci rivolgiamo. Ed è quasi sempre un qualcuno di specifico, di concreto e individuato, altrimenti si rischia la gaffe del grande Totò Schillaci che al termine di una partita della nazionale in cui aveva segnato disse: “questo goal lo dedico in particolare a tutti”.

Ci si rivolge sempre “a” qualcuno, e “ri-volgere” ha a che fare con il nostro volto e la domanda è allora: il nostro volto a chi è ri-volto? Il nostro sguardo cosa o chi guarda? Così come si risponde sempre “a” qualcuno, fa parte del nostro essere respons-abili, capaci di rispondere (a una domanda? a una chiamata?). E infine le nostre parole non sono forse sempre rivolte a qualcuno? Le parole della poesia, “ad” esempio, non sono sempre “dedicate a” qualcuno? O forse è l’intera nostra vita è che è dedicata “a” qualcosa/qualcuno? L’uomo non è felice se non dà, non soltanto cose, oggetti, ma la sua intera vita (a qualcuno). Una vita non dedicata non è forse quindi privata di una gioia profonda? O è solo sgombra e libera di una inutile e pericolosa ossessione?

Leggi i 6 commenti a questo articolo
  1. Gabriele ha detto:

    Dico “A” e penso a Fausto Leali. “A-a-a a chi?” urlava l’inossidabile “negro bianco”.
    Grande domanda, la sua. A chi sorriderò? A chi parlerò, racconterò tutti i sogni miei? A chi, se tu non sei più qui?
    Ecco il grande inganno del complemento di TERMINE e del suo gemello spaziale, il moto a luogo. Ci illudono che ogni moto abbia una meta, ogni azione un obiettivo da colpire, sempre un inizio e immancabilmente una fine.
    E invece tutto a questo mondo trasuda di eternità.
    “Ogni vita lo sa che rinascerà in un fiore che ancora vivrà”. Questa è la chiave un po’ new age, un po’ politically correct, volutamente laica che Ivana Spagna ci consegna all’inizio del magnifico racconto del “Re Leone”. Una visione ripresa in un altro recente successo di animazione altrettanto animista, “Avatar”.
    Nonostante il debole make-up, questo pensiero è profondamente vero. Ci sta davanti. Non siamo fatti per essere autoconclusivi. Una vita non nasce e muore e basta. “Mitakuye Oyasin” era il saluto dei Lakota. Siamo tutti fratelli! Ovvero, abitiamo tutti il continuo del grande cerchio della vita.
    L’opera di una artista come Escher è interamente volta a suggerirci: non c’è un termine. La fine è un’illusione. Ciò che scende sale (cfr “Cascata”). Ogni fine è un inizio e ogni inizio è una fine (cfr. “Rettili”). Ogni cosa va inquadrata in una prospettiva più grande (cfr “Relatività”).
    Solo l’egoismo, la perdita di prospettiva, la disperazione può portarci a credere di essere atomi dispersi, creature del caso, singolarità che si accendono e si spengono senza senso su questa Terra.
    “Ma forse un po’ della mia vita è rimasta negli occhi tuoi.”. Grande Fausto! La risposta alla tua domanda è rimasta ben celata al caldo sicuro di un saluto. Là, dove non esiste un termine. A chi? Addio!

  2. Andrea Monda ha detto:

    Questo mondo non è Conclusione (Emily Dickynson) [cito a memoria], grazie Gabriele..vieni a Roma per parlarne all’Officina?

  3. Gabriele ha detto:

    Purtroppo no, carissimo Andrea. Ma mi mancate tanto. Vi abbraccio!

  4. Emanuela Scicchitano ha detto:

    La storia della lingua ci offre nel campo delle preposizioni spunti interessanti di riflessione: la preposizione “a” deriva da quella latina “ad” che adoperata con l’accusativo significava il “muoversi verso” un luogo o un’azione, che è il fine del mio agire, del mio comportamento. Per cui parafrasando e completando quanto Andrea ci ricordava attraverso la Dickinson: questo mondo non è conclusione, o meglio non è “la fine” ma “il fine” del mio agire, del mio esistere; il quale è per sua stessa natura mobile e teso sempre verso altri luoghi, altre azioni e altre persone: verso altri complementi alla/della mia vita: di luogo, di scopo, di termine.

  5. Carlo ha detto:

    Geniale l’idea di commentare le preposizioni!

    Se “DI” è la proposizione dell’appartenenza,”A” è la preposizione sia del “donare”, quanto della “tensione verso” qualcosa.
    “Per aspera ad astra”, mi viene in mente (e qui ci si ricollegherebbe a una delle prossime preposizioni).
    Sia “DI” che “A” sono preposizioni che mettono in relazione.
    In “A” leggo lo slancio verso qualcosa che ancora mi è ignoto, di cui non ho tutti gli elementi. Ma l’esistenza stessa di questa piccola preposizione, che tutti diamo per scontata, lascia intuire che esista qualcosa “A” cui sono diretto, o qualcuno che mi può accogliere.
    “A” mi parla perciò di fiducia e certezza nella vita.

  6. ales pac ha detto:

    La prep A denota “intenzionalità” .. tensione verso che è tipica dell’essere umano…

Prima di inserire un commento, assicurati di aver letto la nostra policy sui commenti.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *