Preposizioni – “CON”

Maradona

La "mano de Dios" di Diego Armando Maradona

«Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia. Quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno.» Così parlò Pavese. Possiamo davvero fare a meno di tutti, tranne che di noi stessi? Io propenderei per il no, proprio perché diventiamo realmente noi stessi –  e tali ci auto-riconosciamo – soltanto se ci poniamo in relazione al mondo che ci circonda. La con-divisione è alla base dell’esperienza stessa della vita umana, e l’amore non è altro che la divisione di una parte di noi stessi con qualcun altro.

L’editoriale potrebbe finire qui, rimandando qualsiasi ulteriore riflessione all’Officina del 24 marzo. Ma vorrei raccontarvi una breve storiella. Il punto è: abbiamo sempre bisogno di qualcun altro per fare qualcosa o possiamo fare benissimo da soli? Mi vengono in mente gli sport individuali, a cui ho sempre preferito, sia da fruitore attivo che da osservatore passivo, quelli di squadra. Mi ricordo che per un breve periodo, da bambino, mamma mi portava a giocare a tennis, tutte le settimane, in un club su via di Pietralata. Probabilmente lo ricordo come un trauma perché non ero abbastanza bravo e, giornalmente, venivo preso a pallettate dai miei antipatici colleghi. Colleghi che non erano compagni, perché apparentemente con loro non condividevo proprio un bel niente (se non la traiettoria della pallina dalla loro racchetta alla mia poco atletica sagoma)!

Decisi poi di passare al calcio, con scarsi risultati, nascosti però nel caos del gruppo, della squadra, della compagnia. Capii finalmente che non era tanto importante quello che facevo, né fortunatamente come lo facevo, ma con chi lo facevo. Anche semplicemente per il fatto di farlo con qualcuno, di non essere onni-comprensivo, talmente bravo da rimanere a me stante, pensai che dei miei colleghi tennisti potevo fare a meno, mentre dei miei compagni di squadra no. Magari era perché, appunto, a tennis ero piuttosto scarso, o forse solo perché al club ero circondato da esseri detestabili. Ma anche solo il fatto di aver vissuto quell’esperienza con loro mi fece capire dove avrei dovuto/voluto collocarmi.

Anche lo sport individuale, infatti, ti “costringe” a relazionarti con altre persone, soprattutto al momento della preparazione alla prestazione. L’unica circostanza in cui sei davvero solo, in cui puoi contare solo su te stesso, in cui ti assumi tutte le responsabilità di un’eventuale riuscita o fallimento dell’impresa sportiva è proprio quello della performance “solitaria” – che rimanda inevitabilmente a quella dell’esperienza creativa. Ma alla gara in qualche modo ci devi arrivare, qualcuno o qualcosa ti ci deve portare. E poi, che in(con)tro sarebbe senza nessuno con cui gareggiare?

Leggi i 6 commenti a questo articolo
  1. Paolo Pegoraro ha detto:

    Grazie per l’editoriale che con-divido per intero.

    Una sola domanda, proprio su questo termine applicato all’esperienza di coppia. Scrivi:

    l ’amore non è altro che la divisione di una parte di noi stessi con qualcun altro.

    La con-divisione è divisione-con. Giusto. Io però (mi) chiedo: ma siamo sicuri che quella parte di noi con-divisa esistesse anche prima di quel gesto comune? O esisteva soltanto come possibilità non realizzata? Insomma, la con-divisione è soltanto una scoperta o addirittura… una creazione?

    Con-divisione? Io dico: con-moltiplicazione!

  2. Andrea Monda ha detto:

    bella domanda Paolo..
    a me invece è piaciuto molto il passaggio “Decisi poi di passare al calcio, con scarsi risultati, nascosti però nel caos del gruppo, della squadra, della compagnia. Capii finalmente che non era tanto importante quello che facevo, né fortunatamente come lo facevo, ma con chi lo facevo”, anche perchè ha svelato il motivo per cui sono diventato anche capitano della squadra di BombaCalciotto! (in 8 in campo non mi si vede tanto e non è tanto importante quello che faccio..spero!), grazie Damiano, a presto!

  3. Lorenzo ha detto:

    Editoriale molto bello! :)

  4. Pietro ha detto:

    Con voi con-tinuo a navigare nel mare dell’amicizia.Per salvare gli stinchi,lasciai il calcio. Ero già adulto quando iniziai a giocare a tennis. In questo sport il giocatore non prende calci però deve cercare continuamente un equilibrio tra energie mentali e fisiche. Si esprime bene a tennis chi ha autocontrollo in campo. Ma anche i grandi campioni hanno bisogno del maestro vicino. Per superare i momenti difficili, basta uno sguardo. Bravura a parte, chi inizia da piccolo, anche nello sport può fare bene. A noi è Gesù che ci ha con-quistato il cuore. La con-versione quotidiana,è l’esercizio più bello e importante che ci appassiona sempre.

  5. Franco Esposito ha detto:

    Esistono sport in cui dalla performance individuale dipende il resto della squadra. Si veda, per esempio, il cricket (o il baseball, che ne è l’imbastardimento nobile) dove l’intera partita (che può durare fino a 5 giorni) è una serie infinita di episodi che coinvolgono il lanciatore e il battitore, il primo contro il secondo e viceversa. Un singolar tenzone al servizio del resto dei singoli individui che compongono la squadra. E’ diverso dal calcio, o altri sport a squadra, dove i singoli si mischiano agli altri, “si nascondono nel caos”. Nel cricket, invece, poni la tua individualità veramente al servizio degli altri. Sei singolo ma CON gli altri.
    Un po’ il senso della vita n’est-ce pas?

  6. Gabriella ha detto:

    con-FRONTARSI con chi ti vuol bene consente di allontanarsi dal Sè per divenire Altro

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