Letture: L’estate alla fine del secolo

L’estate alla fine del secolo - Fabio GedaLa linea d’ombra è attraversata: senza improbabili  mutazioni, senza rinnegare il se stesso di prima, ma arricchendo temi prima solo accennati, approfondendo ricerche stilistiche e scavando più a fondo in se stesso e nelle storie che lo frequentano Fabio Geda, con L’estate alla fine del secolo (Dalai editore, 2011) ci consegna il suo romanzo fino ad ora più riuscito. Sono segnali discreti ma incontrovertibili della raggiunta maturità (ma maturi non si è mai del tutto) la scrittura puntuale e sorvegliata, ma capace all’occasione di vertiginose oltranze stilistiche, la fortunata invenzione dei due caratteri principali, rappresentati con affettuosa partecipazione, la sobrietà espressiva che evita il rischio di deviazioni verso eccessi retorici, sempre possibili dati i temi della storia narrata.

Nell’ultima estate del secolo scorso, proprio quando gli si spalancano davanti i giorni immensi delle lunghe vacanze estive, Zeno, un ragazzino siciliano dodicenne, è costretto a lasciare il suo piccolo straordinario mondo di preadolescente e a partire con la mamma per Genova. Lì il padre è ricoverato in una clinica specializzata per debellare una leucemia scoperta improvvisamente. Nella casa di cura non possono essere ospitati minori, e così la mamma decide di affidare il ragazzo al nonno. I rapporti tra madre e figlia sono interrotti da anni e Zeno viene accolto senza soverchie dimostrazioni di affetto. La convivenza è faticosa, resa difficile da silenzi scavati nelle nostalgie di Zeno per la lontananza dagli affetti consueti, nonché nelle sue inquietudini per la malattia del padre, e gravata inoltre da una sorta di aridità emotiva che affligge il nonno. Ma è anche illuminante per entrambi. Il nipote scopre tanto di se stesso, è l’età giusta, ma l’occasione così particolare illimpidisce lo sguardo all’interno di sé, amplia le prospettive, rivela qualcosa dell’universo degli adulti pur sempre così misterioso. Il nonno comincia a ripensare quel senso d’inappartenenza che l’ha attraversato fin dall’infanzia, consolidato nel tempo in una bolla d’incomunicabilità che gli si è incollata all’anima.

La storia si biforca. Da un lato, il ricordo dell’estate nel racconto di Zeno, da adulto autore di fumetti di successo, e dall’altro la storia del nonno, conosciuta attraverso un quaderno ritrovato dal nipote. Le due narrazioni si sviluppano per compartimenti separati, in capitoli alternati. Una prima contrapposizione (quasi simbolica) si gioca anzitutto nel confronto tra le due estati così diversamente significative per i due ragazzini, quella del 1938 del nonno Simone esule forzato in Francia, e quella del 1999 di Zeno, temporaneamente sradicato dal suo ambiente, che vive quel tempo che si rivelerà decisivo con la fortunata incoscienza propria dell’età: “…quanto avrei voluto (oggi lo penso oggi, questo) essere più consapevole, in quel momento, dell’inseminazione che quell’estate aveva praticato nella mia vita, di tutto quello che ci sarebbe stato a partire da lì”.

La vicenda del nonno, tra le due, appare più suggestiva, almeno per l’intreccio tra storia individuale e storia collettiva che la costituisce. Nato in una famiglia di religione ebraica, Simone porterà per sempre le stigmate della separatezza nell’anima. Bambino, segue la famiglia riparata in Francia per scampare all’olocausto. Poi, un rientro semiclandestino in un paesino sulle colline dietro Genova, ed un immediato dopoguerra penoso, segnato dai suicidi del padre e del fratello maggiore Gabriele: la stessa identità individuale di Simone via via si affievolisce, inizia una deriva di distacco progressivo dal reale, un opaco abbandono all’isolamento. La distanza dal mondo si consolida negli anni, proprio mentre l’esistenza di Simone assume connotati di apparente normalità. Nulla però può medicare ferite come le sue. Trascina la sua estraneità al mondo anche nei lunghi anni di una brillante carriera di consulente in diverse aziende tra Torino e Milano, ne è attraversato come marito di Elena e come padre di Agata, che, da ragazzina, fissa così l’abulia paterna: “hai l’attenzione che scorre via e non lo sai, o forse lo sai sì, forse è la vita che ti scorre via e tu non fai niente per fermarla …”. Infine, persa la moglie, si ritira nello stesso paese dell’entroterra ligure dove da bambino aveva vissuto per qualche tempo per sfuggire alle persecuzioni, nella continuità di un ottundimento spirituale che riesca ad offuscare ogni dolore. La storia del nonno si muove in un ampio arco temporale, il che consente un fitto gioco di rimandi interni, per via di memorie e di ricordi che sovvengono da un periodo all’altro della sua esistenza, raccontata per blocchi esemplari di episodi. Ciò facilita la creazione di un intero universo emotivo, rendendo conto nel contempo della sua complessità, e garantendo inoltre un alto tasso di verosimiglianza all’intera narrazione.

Difficile stabilire una qualsivoglia relazione con un uomo come Simone: la storia parallela di Zeno è dedicata anche ad esplorarne le possibilità. Si svolge in un tempo narrativo molto più corto, e non punta a far risaltare in tutte le sue sfaccettature possibili un’anomalia dell’anima, quanto piuttosto ad evidenziare con dovizia di dettagli la stagione fervida di sensazioni e di umori di un preadolescente, per quanto sospesa in una situazione esistenziale di forzata attesa, innaturale in quell’età. La spontaneità del ragazzino, oscillante tra cauta scontrosità e abbandono ingenuo, con improvvisi trasalimenti dovuti a precognizioni di una maturità ancora di là da venire, incrina in diversi punti la scorza di apatia del nonno. Un rapporto di cordialità, nel senso stretto del termine, inizia a stringersi, l’avvicinamento tra i due è tratteggiato come uno sforzo di umanizzazione per entrambi, l’uno teso a orientare la propria crescita dimensionandola sul vivere tra gli adulti, l’altro a ricucire brandelli di un’umanità mai compiutamente evoluta fino ai limiti ultimi che a ciascuno sono dati. Certo non per tratti apparenti, se si confronta la trasognata lontananza dal mondo del nonno con l’esuberanza fantasiosa del nipote, ma per via d’intuizioni segrete, quasi indizi di una complicità emotiva inizialmente rifiutata, i due finiranno per riconoscersi ed anche per assomigliarsi: “…lo sguardo, perdio, quello era il mio: ne avrei riconosciuto l’inclinazione e il peso tra mille. Solo la direzione era diversa. Io mi perdevo nel futuro. Lui in ciò che era stato.”

Lo sviluppo separato delle due storie tende ad attribuire al racconto la maggiore densità di significato possibile. Rende conto della complessità delle vicende che intersecano le singole esistenze, mentre la conservazione di una certa simmetria induce a contemplare quanto c’è di ripetibile nelle proposte del destino per ognuno di noi, per quanto possano variare le condizioni contingenti. Per contro, le cospicue differenze tra i due racconti paralleli non consentono sospetti di ripetitiva meccanicità nelle vicende dei protagonisti, ed attestano così per via indiretta una (cattolica) professione di fede nel libero arbitrio dell’individuo. Un intento anche pedagogico presiede dunque al romanzo, e si addensa nella riflessione sulla storia e nel suo involgere tra le proprie spire la sorte dei singoli individui, nel segnarne i caratteri ed incidere nelle loro relazioni future. Felice è poi la combinazione tra l’intensa ricerca di senso e la singolare levità espressiva attraverso cui questa viene svolta: ne è speciale e luminosa manifestazione la capacità di rendere l’incanto di uno sguardo ragazzo sul mondo, cogliendone la freschezza sorgiva, l’originalità dell’impressione di un attimo, la confidente disposizione all’ascolto.

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