Andata e/o Ritorno

C’è una poesia di Mary Oliver il cui titolo Instructions for living a life (Istruzioni per vivere una vita) è più lungo della poesia stessa che dice così: Pay Attention,/ Be Astonished,/ Talk About It cioè: Fai attenzione,/ Stupisciti,/ Raccontalo (o parlane). Ai fini del tema che intendiamo affrontare in questo mese di dicembre si potrebbe ulteriormente “tradurre” così: Fai attenzione, l’andata; stupisciti, l’esperienza; raccontalo, il ritorno.

L’andata è l’attivazione di una at-tenzione sulla realtà, sul mondo che ti si spalanca davanti. L’ometto che è nell’immagine qui a fianco, tutti ormai lo conoscono, è il mezzouomo Bilbo Baggins, lo hobbit più famoso della Contea che ci dà le spalle pronto a tuffarsi nel mondo che c’è oltre la porta spalancata (come è noto il sottotitolo de Lo Hobbit è “Andata e Ritorno“), ecco la sua canzone:

La Via prosegue, senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Devo inseguirla ad ogni costo
Rincorrendola con piedi alati
Sin all’incrocio con una più larga
Dove si uniscono piste e sentieri.
E poi dove andrò? Nessuno lo sa.

Sembra che più che “andare” Bilbo stia inseguendo qualcosa, addirittura la strada, la Via che fugge avanti. L’andata è procedere in avanti, pro-gredire (fare un passo avanti). E tras-gredire? Anche questa è un’andata? Senz’altro anche la tras-gressione conduce ad un’esperienza, a volte ad una brutta esperienza (ma che può essere riscattata, Bibbia docet).

Ma torniamo a Mary Oliver.

L’esperienza: stupisciti. L’esperienza è ciò che ci colpisce, che ci lascia con la bocca aperta, che non ci aspettiamo, che ci capita (ci cade sul capo) e che ci lascia senza fiato.. in qualche modo l’esperienza è un po’ morire. Da questo pericolo (mortale) se ne esce più forti, rinvigoriti, risorti. L’esperienza, anche etimologicamente, è l’attraversamento e superamento di un pericolo. L’andata dunque vuol dire prepararsi e dirigersi verso questo attraversamento, vivere una tensione verso la realtà, verso la vita, quella cosa che si muove sul fondo, come lo scenario che si apre davanti a Bilbo, e che è appunto da sfondare. Fare un’esperienza è (ri)portare la vita dalla morte. E qui siamo già al ritorno.

Il ritorno: raccontalo. Chi supera un’esperienza, chi torna vivo dal pericolo di quell’avventura ne fa racconto. Come l’assassino, che torna sempre sul luogo del delitto, anche la “vittima” di ogni esperienza ritorna sul luogo dell’avventura trascorsa e la ri-vive sotto forma narrativa. E’ sempre stato così: l’uomo preistorico si riuniva attorno al fuoco per raccontare (o magari dipingere) la storia della caccia al bisonte, dell’esplorazioni… di tutte le “andate” che aveva realizzato. E lo poteva fare perché era tornato, sano e salvo. Ogni storia è sempre storia di salvezza. La narrativa nasce qui. Pensiamo a Moby Dick, di Melville: Ismaele è la voce narrante e può (deve?) raccontare perché è l’unico superstite, il sopravvissuto alla grande “andata” a caccia del male assoluto rappresentato dal cetaceo albino. Non è un caso che la letteratura occidentale si apra con il racconto della guerra (l’andata) e con le narrazioni dei reduci, i ritorni, nostoi (da cui “nostalgia”): Ulisse.. ma anche Diomede, Agamennone, Menelao.. Enea… e giù giù, passando per Frodo e Sam (che ritorno differente tra i due!) fino al cinema americano che racconta del ritorno a casa del soldato, si pensi a tutti i film sui reduci del Viet-Nam da Il cacciatore a Rambo. La guerra, sembra dirci la letteratura e l’arte umana, è l’esperienza per eccellenza, quel viaggio che appare sempre come viaggio di “sola andata” perché, ammesso che qualcuno ritorni vivo, sarà segnato nel fisico e nello spirito e certamente non più lo stesso di prima.

Da questo punto di vista è l’andata il momento più terribile, quello che fa più paura, perché è l’apertura verso l’ignoto, il misterioso. Interessante che in inglese si dica “pay attention”, pagare l’attenzione: stare attenti, essere pronti, è qualcosa che ha un prezzo da pagare. E’ un gesto, quello di andare, che quindi il più delle volte rinviamo, ritardiamo.. e che spesso è, più che un “andare”, un “lasciar(si) andare”. L’andata è la grande sfida mentre il ritorno fa più simpatia. Ritornare da scuola è più simpatico che andarci così come quando andiamo in un posto nuovo, anche a casa di un amico che magari vive fuori città, il viaggio di andata sembra non finire mai, pieno di ansie e dubbi (avrò sbagliato strada?), mentre la sera, tornando a casa e rifacendo la stessa strada dell’andata, tutto sembra più facile, rapido, sicuro, familiare. C’è più dolcezza nel ritorno. Così canta Borges la cecità in cui sta progressivamente sprofondando: Questa penombra è lenta e non fa male; /scorre per un mite pendio […]Dovrebbe impaurirmi tutto questo / e invece è una dolcezza, un ritornare.

Se la vera sfida riposa nell’andata allora forse il vero viaggiatore (come osservava Levinas) è Abramo, più di Ulisse. Ma quanti viaggiatori conosciamo e quanti tipi di viaggi? Difficile a dirsi.. c’è il turista e il pellegrino, l’esploratore e il venditore ambulante, il nomade e il circense, il minatore e l’alpinista.. e c’è Ulisse ed Enea, Abramo e Mosè, Esodi ed Avventi, Cristo viandante e gli apostoli inviati, e poi c’è Dante e tutti i viaggiatori nell’oltretomba o sulla luna come Orlando e i personaggi di Verne, ma anche Gulliver, Robinson e i pirati dell’isola del tesoro, Achab e Ismaele, Bilbo, Frodo e Sam, il padre e il figlio alla fine del mondo che camminano lungo La strada di Cormac McCarthy…. La vita, e la letteratura, come un continuo andirivieni!

Discutendo con gli altri amici di BombaCarta sono emersi alcuni punti di vista interessanti: ad esempio che, secondo alcuni, il ritorno può essere più duro dell’andata, a seconda dell’esperienza vissuta, così i reduci della guerra o dei campi di sterminio non riescono più nemmeno a “ritornare” con il racconto, l’esperienza diventa indicibile, non comunicabile. A volte il ritorno può essere l’ammissione di una sconfitta. E comunque è sempre difficile ri-adattarsi ai vecchi luoghi e ritmi della vita passata. È dura tornare sui propri passi.

È emerso poi che, secondo alcuni, il ritorno non esiste, la vita è solo un andare, tutto è nuovo, sempre. Per altri, al contrario, è l’andata che non esiste e che ogni andare in realtà è un ritornare. Nulla cambia, tutto è praticamente immobile, l’eterno ritorno dell’identico. Oppure il nostro andare è sì un progredire, ma come a ritroso, verso un ritorno, un Paradiso che è davanti a noi ma perché è anche alle nostre spalle (dal Paradiso terrestre a quello celeste): quando si muore si usa dire pure “è tornato alla casa del Padre“. Esiste dunque solo il ritorno o solo l’andata? Allora il titolo più opportuno di questo tema dovrebbe essere “andata o ritorno“: aut non et. Boh.

Infine: in tutti questi viaggi, nel viaggio della nostra vita, esiste il cosiddetto “punto di non ritorno“? Questo punto sembra qualcosa di estremo ma forse è quanto mai vicino, prossimo alla nostra esistenza quotidiana: forse ogni azione che compiamo, ogni parola che diciamo è un punto di non ritorno. E’ questo ciò che distingue l’essere umano da tutto il resto, la libertà, cioè che ogni suo gesto è decisivo e forse definitivo (nel senso che contribuisce a definirci); come sottolinea un antichissimo detto africano: “Nel tempo in cui Dio creò tutte le cose, il sole creò. Il sole nasce, muore e ritorna. Le stelle creò: le stelle nascono, muoiono e ritornano. L’uomo creò. L’uomo nasce, muore e non ritorna più.

Al di là dei significati religiosi (pensate alla differenza tra reincarnazione e resurrezione), mi colpisce come questo detto segni la differenza tra Natura e Storia. L’arte e la letteratura non possono fare a meno della prima ma si dirigono e si accampano necessariamente nella seconda. L’uomo non ritorna, la storia non si ripete, come dice con la sua lieve acutezza la Szymborska nella poesia Nulla due volte (eccone giusto un assaggio):

Nulla due volte accade
né accadrà. Per tal ragione
si nasce senza esperienza,
si muore senza assuefazione.
Anche agli alunni più ottusi
della scuola del pianeta
di ripeter non è dato
le stagioni del passato.
Non c’è giorno che ritorni,
non due notti uguali uguali,
né due baci somiglianti,
né due sguardi tali e quali. […]

E, a proposito di andare o tornare: buon Avvento e buon Natale a tutti quanti, ci si vede nel 2013 (ma prima il 15 dicembre all’Officina, andateci!).

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. Paolo Gobbini ha detto:

    Bella, bellissima la poesia di Mary Oliver (chi è?): la necessità del sacrificio per andare; la centralità dello stupore da cui nascono poesia, filosofia e religione; la doverosità del raccontare per condividere ciò che, attraverso lo stupore, si ha ricevuto.
    Reputo che sia vera l’ipotesi “ANDATA E RITORNO” (ergo che sia falso l’aut aut).
    Senza ombra di dubbio il vero viaggiatore più che il greco Odisseo è Abramo l’arameo, l’andare esodico, l’uscita da sé, l’estasi. L’oltre è la vera meta del cammino dell’uomo.
    Ma senza dimenticare che l’esodo è anche ritorno nel cuore per ritrovare le sue ragioni e celebrare l’invisibile sovraessenziale,
    anamnesi… come il famoso figliol prodigo che ritorna in sé e si rammenta del padre suo e si alza per fare ritorno a casa e ritrovare ciò che aveva smarrito ma non perso: la dignità di figlio.
    Io preferisco la dolcezza agrodolce dell’andare, la scoperta che sorprende e sospende i giudizi, l’inizio alla fine… perciò fatico a raccontare, o meglio, ciò che si esperisce grazie allo stupore è incommensurabile.
    Buon Natale

  2. Andrea Monda ha detto:

    La Oliver è una grande poetessa americana vivente, ancora poco conosciuta in Italia (i suoi testi ancora non sono stati tradotti). Il figliol prodigo, già.. strano ritorno il suo, lui va per scendere più in basso, e invece viene innalzato al centro della grande festa. La casa che trova è più grande, vasta e accogliente di quella che ricordava.. come direbbe Tolkien, il futuro (l’al di là) e di più dei nostri ricordi. Buon anno!

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