Letture. “Se tornasse San Francesco” di Carlo Bo.

 

Con tempismo evidentemente non casuale, in relazione agli orientamenti che si possono intuire in questo avvio di pontificato, la Castelvecchi ripubblica Se tornasse san Francesco di Carlo Bo, un saggio uscito per la prima volta su rivista nel 1982. L’edizione attuale è arricchita da un’antologia minima della Regola non bollata, di cui sono riportati i brani ai quali fa riferimento il testo. In esso è presente, orientata al tema specifico, quella religiosità problematica ed allo stesso tempo vivacemente aperta alle suggestioni del suo tempo che è segno caratteristico dell’autore, e che gli consente di affermare che “il Cristianesimo è stato e resta la più bella delle tentazioni, ciò che vorremmo attuare e non ci riesce perché ci manca l’obbedienza, l’amore per gli altri che annulla l’amore per noi stessi, il perdono”. Proprio l’attualizzazione, da svolgersi nel senso di attuazione integrale, del messaggio francescano potrebbe favorire per il credente, secondo Bo, un confronto positivo con la modernità, purché se ne recuperasse il significato originario, che ben poco ha a che vedere con l’immagine che comunemente si ha del santo di Assisi.

Lo spunto fondamentale è racchiuso nella domanda iniziale, che tutti ci interpella con la medesima, se non più cogente, urgenza di quando fu concepita più di trent’anni fa: “Se un giorno – pura ipotesi della fantasia – battesse alla nostra porta san Francesco d’Assisi che cosa potrebbe succedere? “. Nella risposta riecheggia il mito dostoevskiano del Grande Inquisitore: “certo non saremmo in grado di riconoscerlo, in base alle notizie che abbiamo, alle cose che abbiamo letto…” Per Bo, ciò che ci distanzia in modo probabilmente irrecuperabile dall’insegnamento dell’assisiate è l’insieme delle sovrastrutture culturali che nei secoli ne hanno edulcorato il messaggio: la pace e la letizia che costituiscono il cuore del francescanesimo sono stati travisati, tanto da non costituire per noi pietra di inciampo nel nostro stare al mondo, ma pretesto di conciliazione con le nostre coscienze. Ma non a questo ci indirizza Francesco. L’eccezionalità della sua testimonianza risalta, al contrario, proprio nella titanica tensione a non risparmiarsi, a non cessare mai lo sforzo di attenzione verso gli ultimi, fino ad erodere ogni pretesa di conservare una propria autonoma consistenza identitaria: “Noi entriamo in Chiesa per trovare pace, san Francesco ci entrava per raddoppiare il suo desiderio di guerra contro se stesso, contro tutto quanto gli avrebbe consentito un tempo di rallentamento, di oblio e di sosta”. Ed allora il Francesco di Bo si delinea assai diverso rispetto all’immagine che ci è stata tramandata, ed anche inaspettatamente duro: “Il tema della “vera letizia” è proprio questo: é lieto, è sereno chi viene lasciato fuori di casa, in una notte di tempesta, chi bussa invano alla porta del convento”, perché “è in fondo al male … che sta l’unico segnale di salvezza, meglio nella possibilità che ognuno di noi ha di leggere il male nel senso buono, come la zattera che Dio ci getta sul nostro piccolo mare interiore”.

L’amore verso il prossimo ha un sovrappiù di senso se è tensione anche all’annullamento di sé, o meglio alle parti spurie di sé, innervate dall’orgoglio, alimentate dall’interesse, dal senso proprietario di ciò che più ci piace o ci interessa. In questa prospettiva, si illumina di un particolare significato anche l’umiltà francescana, connotata dalla ripulsa assoluta di ogni forma di orgoglio, compreso quello derivante dalla consapevolezza di essere nel giusto: “c’era nel santo una chiara tendenza alla ribellione, a posporre l’obbedienza alla propria convinzione…” ma “ha capito che la verità non alberga fuori dall’obbedienza…” Bo enfatizza il significato di umiltà intellettuale che è propria dell’obbedienza, esperita nella convinzione che in essa si annidi una verità più ampia di ciò che individualmente è percepibile come bene. Ecco perché Francesco, in tempi in cui altri movimenti cristiani pauperistici scivolano nell’eresia, rimane all’interno della Chiesa di Pietro, facendosi carico di un’obbedienza non “puramente meccanica o che si possa scambiare con una comoda evasione”, e consentendo così il prevalere della fedeltà sulle convinzioni individuali. Qui sta una delle più pregnanti ragioni dell’irriconoscibilità di Francesco nei nostri giorni: oggi “nella nostra concezione non c’è posto per l’obbedienza, caso mai per un simulacro di ribellione, però inerte, tale da non compromettere la nostra falsa pace interiore. Perché obbedire, a chi obbedire dal momento che abbiamo imparato a vivere di noi stessi…?”. Si tratta di una spoliazione di sè straordinariamente collimante con la povertà materiale, ma con un elemento ulteriore, quel “rinunciare o sopire e far tacere le nostre convinzioni”. Rovesciando una convinzione comune, si afferma così una indubbia primazia dell’obbedienza rispetto alla povertà materiale: “la povertà è il simbolo di una conquista nei confronti degli altri, l’obbedienza si rivolge, deve essere rivolta e risolta dentro di noi”. Si giunge per questa via a quella suprema forma di umiltà che è la “cancellazione della propria intelligenza”, l’annichilimento della propria autonomia di giudizio e di discernimento. Per Francesco, l’intelligenza non è ragione di orgoglio, ma strumento “per accrescere l’amore di Dio, l’attesa di Dio e deve essere messa a disposizione di chi è stato chiamato a farci da guida”. Se è qui il suo cuore, l’insegnamento di Francesco non ammette attenuazioni di sorta, che rischierebbero di offuscarlo, di non renderne la radicalità, anche aspra. I nostri anni, e non paiono riscontrabili differenze decisive rispetto ai tempi in cui scriveva Bo, assistono ad una divaricazione tra essenza del francescanesimo e certe sue letture consolatorie nelle quali ci è comodo adagiarci: “nella sterminata famiglia di chi soffre e non ha voce”, e quindi in chi realizza in sé le forme più estreme di annullamento di sé, “si è rifugiata la dura lezione francescana, in tutti gli altri a cui apparteniamo tende spesso a sfumarsi in leggenda”. Di qui il pessimismo che pervade il saggio di Bo, per il quale o il francescanesimo è quello liberato dagli orpelli agiografici che lo sfigurano o non è; e tuttavia, a ben guardare, non mancano aperture verso prospettive diverse, dal momento che è lo stesso Bo a porre la questione in termini di riconoscibilità del messaggio di Francesco, ma non di sua persistenza o attualità in senso assoluto.

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