Letteratura in HD

hdUn annetto fa, dopo aver letto il romanzo Molto forte, incredibilmente vicino di J. S. Foer, sono andato a cercare il DVD della trasposizione cinematografica, diretta da Stephen Daldry. Ho trovato il film più coinvolgente – più vicino –  del libro e la cosa, da fanatico della parola scritta,  mi ha scioccato. Ha spalancato nella mia testa degli interrogativi.

Mi ha fatto pensare ad alcune delle letture che più mi hanno appassionato negli ultimi anni. L’American Psycho di B.E. Ellis, D.F. Wallace (soprattutto Infinite Jest e Caro vecchio Neon ), Molto forte, Incredibilmente vicino di J. S. Foer, Il Peso della Grazia di Christian Raimo. Tutte queste hanno in comune una grande abilità del narratore di utilizzare la prima persona per riprodurre con una risoluzione impressionante lo sguardo/voce e – di conseguenza – l’interiorità del protagonista di turno. È tutta letteratura che ti fa vedere i personaggi come  Incredibilmente Vicini. Letteratura in HD.

Foer mi accompagna nell’elaborazione del lutto del piccolo Oskar Schell raccontandomi i suoi pensieri, le sue razioni, le sue manie, volontarie e involontarie, con una precisione di dettagli superiore a quella con cui io conosco il mio stesso dolore o quello delle persone a me care. Costruisce una gigantografia 10:1 del bambino.  Lo stesso fa Ellis con le ossessioni di Patrick Bateman, Wallace nei monologhi del ciccione dentro Infinite Jest, Raimo con la narrazione del tormento da abbandono che soffre il suo Giuseppe.

Ora, sono arrivato a un punto in cui sento il bisogno di venir fuori da questo tipo di narrazione iperdefinita, “satura”. Ma non capisco bene perché. Queste gigantografie dettagliatissime regalano una bella esperienza di lettura ma cadono nello stesso difetto che ritrovo nella stragrande maggioranza della produzione cinematografica: non lasciano uno spazio vuoto in cui il lettore/spettatore possa esercitare la propria voce/fantasia. Il romanzo di Foer mi colpisce meno del film perché la sua scrittura ha raggiunto un livello di definizione tale da superare quella delle immagini in movimento sul grande schermo.

Io sono impressionato/ammirato dalla potenza narrativa con cui Raimo  mi racconta il dolore di Giuseppe, un dolore così forte da presentarsi come una mutazione dell’intera realtà. Un dolore macinato e sminuzzato mille volte sino a divenire fine come borotalco, borotalco che mi si attacca sulla pelle impedendo la traspirazione. Un dolore destinato a non lasciare traccia dentro di me perché talmente particolareggiato da non poter mai diventare il mio dolore. Anzi, dico di più: è un dolore talmente particolareggiato dal non poter essere il dolore di alcun essere umano. Di Oskar Schell e di Giuseppe  riusciamo a sapere molto più di quello che sarebbe possibile sapere di noi uomini veri.

Ecco un tentativo di risposta: la letteratura in HD mi disturba perché riguarda uomini morti. Non arriviamo mai a conoscerli così bene gli uomini vivi, neanche quelli con cui dividiamo il letto, neanche noi stessi. E, nell’istante in cui proviamo a farlo, creiamo delle cose che –  per quanto appaiano  Molto forti e  Incredibilmente vicine – sono finte. Finite. Morte. Qualsiasi tentativo di riproduzione dell’universo infinito  e misterioso che è un uomo, crea zombi.

Ed è per questo che le  pagine più belle di Wallace sono quelle in cui l’autore denuncia questa sconfitta. Quelle in cui Wallace, dopo aver speso tutta la straordinaria acutezza per cogliere e raccontare  le infinite possibilità che gli uomini si portano dentro,  ammette la propria sconfitta e distrugge le gabbie che ha costruito. Il suicidio del protagonista di “Caro vecchio neon” nasce dalla percezione di un “troppo” incontenibile. Un troppo che non va contenuto. E le pagine più belle del Peso della grazia sono quelle in cui Giuseppe perde il controllo delle proprie parole e dei propri occhi  e si perde dentro un amore che ha la forma misteriosa  della bellezza invisibile che solo la parola scritta ha la forza di tracciare.

 

P.s.

Provo a risalire agli epigoni. Alla convinzione, probabilmente ereditata da Proust, per cui  dissezionando e sminuzzando  il reale  ci avviciniamo a coglierne la realità, io oppongo la continenza chirurgica di Flannery O’Connor.  La sua scrittura precisa ed essenziale lascia tracce indelebili; lei sa afferrare i gesti semplici, e per questo sensuali, gli unici capaci di una portata iconica/simbolica.

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