Realtà e fantasia, mix agitato (non mescolato)?

RushdieIeri 7 settembre 2015, sul quotidiano che porta sotto il titolo la frase “fondato da Eugenio Scalfari” (che in un’intervista pubblica ha detto di detestare il narcisismo) è apparsa un’intervista che mio fratello Antonio ha fatto allo scrittore Salman Rushdie in occasione della pubblicazione del suo ultimo romanzo, pare sia un fantasy, che già dal titolo  (Due anni, due mesi e ventotto notti) fa il verso alle Mille e una notte. In questo dialogo il romanziere fa le seguenti affermazioni: “Non  ne posso più della realtà. Solo le storie ci possono salvare” e “L’irruzione del fantastico nel quotidiano rappresenta l’unico modo per comprendere noi stessi“. Ce n’è abbastanza per aprire un dibattito.
La discussione su questi temi è in realtà iniziata molto tempo fa dentro BombaCarta, forse fin dall’inizio, e non finirà nemmeno dopo questa mia breve annotazione. E’ un tema caro a noi bombers: quale è il rapporto tra realtà e fantasia? e la verità? quale verità? la verità letteraria? quella della “finzione”?
Negli anni scorsi si è spesso dibattuto di questi argomenti, a colpi di Tondelli e Carver, Tolkien e Chesterton, Borges e Lewis… solo per fare qualche nome. Quando ieri ho letto questo testo (di quel giornale leggo solo gli articoli a me “familiari”) mi ha colpito la recisione delle affermazioni del noto scrittore anglo-indiano e mi sono chiesto, come immagino tutti facciano in questi casi: ma io sono d’accordo? Non sapendo rispondere con uguale nettezza, sto qui a chiedere lumi, allargando e condividendo la conversazione, chi si unisce?

Leggi i 5 commenti a questo articolo
  1. Giuliostf ha detto:

    Che tema! Già solo a voler fare un piccolo catalogo personale di rimandi e coordinate – assolutamente banali – ci sarebbe di che ingannare l’horror vacui con quintali di bytes, da Calderon ad “abbasso la realtà”. Meglio non impelagarsi. Forse denuncio la mia inclinazione di realista (deluso? Immalinconito?) limitandomi a tagliare una fetta del problema. E rispondo quindi come non dovrebbe farsi, con un’altra domanda: ma di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di immaginazione e del suo potere? Trovo necessaria una operazione di grande pulizia mentale. La retorica del sognatore ci opprime da tutte le parti; il lessico varia: “siate folli”, “non lasciare che ti portino via i sogni”, “non smettere di credere nei tuoi sogni” eccetera. La mia – forse non solo la mia – è la generazione degli stralunati, degli eccentrici, dei sentimentali. Ma quale predominio dell’immaginazione ci si propone, in fondo? Io trovo che si tratti di una specie molto pratica, perfino utilitaristica, di immaginazione. L’immaginazione ridotta a melassa con la quale rendere sempre più dolce il sapore di una cosa molto forte: la voglia di successo e realizzazione personale. Nella realtà frammentata del postmoderno non è più lecito essere ambiziosi; implicherebbe l’adesione a sistemi di valori condivisi, se non dominanti, che come tali non possono più nemmeno essere nominati. Tutto deve essere relativizzato e reso soggettivo, ed ecco dunque il vecchio mito del successo vestirsi d’intimismo e diventare rassicurante invocazione al proprio fanciullino, declinato però rigorosamente in salsa silicon valley, in salsa politicamente corretta.
    La “follia” della buonanima di Jobs è molto poco folle, insomma, temo; a ben vedere, è solo il volto ingentilito ad uso e consumo dei millennial dell’eterna “fame” che pure lo stracitato miliardario defunto ha (significativamente) messo al primo posto.
    Di questo tipo di sogno non so che farmene, non lo vedo in contrapposizione con la realtà e le sue brutture, semmai ad essa ancillare ed asservito.
    Non credo che la poderosa fantasia di Tolkien, creatrice di mondi, abbia molto in comune con quest’idea di immaginazione.
    Personalmente, vado ad iscrivermi nel gruppone dei pro-fantasia, ma lo faccio con un po’ di vezzo antimoderno. Amo la fantasia melanconica e contestataria che produce narrazioni alternative, che non si istituzionalizza come “tool” di intervento immediato nel (proprio) reale. La fantasia cinica e grandiosa che conosce e presidia esattamente il confine con la realtà; che si espande all’interno dell’universo mentale, nutrendosi di storie mai accadute, di cose che avrebbero potuto essere, e che si dispera nella consapevolezza che, appunto, per dirla con Eliot, esse “are things that cannot be”. Sarà una fantasia sterile per i cultori dell’immaginazione-meccano, dell’immaginazione-autoassoluzione, dell’immaginazione-autocelebrazione, ma in fondo è tanto più onesta quanto più è – come dire – totale. È una lontana, povera e pittoresca cugina della contemplazione, questa fantasia non-moderna, questa fantasia “des anciennes”, ed in ciò è la sua grandezza; nel costruire un mondo a misura di quel che si sa non potrà mai realizzarsi, ci spinge a confrontarci con realtà più profonde. Ci fa percepire e comprendere che la realtà che vediamo brutta e distorta è specchio (speculum, ovviamente); che esiste un’imago mundi tanto più vasta, dietro, e che provare a ricostruirla (a ricostruirne un pezzo) sarà dato solo a chi si saprà armare della capacità di sognare; di sognare come atto ordinante, come riflesso dell’amore creatore di Dio. Forse questa fantasia anti-moderna, tolkieniana (ma di tanti, dei più grandi) ci avvicina davvero, molto più dell’altra, alla Realtà. E nemmeno si può dire che ci spinga verso un immobilismo apatico: agire nel mondo, se si coltiva questa fantasia, diventa anzi una naturale conseguenza, pacata e serena; non l’impulso onnivoro di chi non trova più, dentro la solita stanza buia, l’interruttore del trascendente.

  2. Rossella Bruno ha detto:

    Per quanto un romanzo debba alla potenza immaginifica del suo
    “creatore”, altrettanti sono i suoi debiti con la realtà. Di essa si nutre, per
    edulcorarla, tradirla, tradurla, sublimarla, rinnegarla, interpretarla:
    specchio e furto di essa. Mi viene in mente la “fame” di notizie sulla vita ed
    il contesto dell’autore che coglie il lettore appassionato, espressa così bene
    da Nancy Antonazzo durante l’ultimo Convegno di Pietre di Scarto, parlando di
    Tolkien. Eppure, c’è una corrente di pensiero opposta, che afferma il contrario:
    “Interessarsi alla vita dello scrittore perché si ama il suo libro è come
    interessarsi alla vita dell’oca perché si ama il fois gras ” (Margaret Atwood). Di certo, un romanzo ben riuscito
    sta in piedi da solo, recando al suo interno tutte le strutture e sovrastrutture
    necessarie alla comprensione del suo sistema morale. Personalmente, faccio
    parte della schiera dei curiosi, sembrandomi che la conoscenza della realtà in
    cui il romanzo ha trovato il suo humus
    non mi privi affatto delle gioie dell’immaginazione, e mi faccia anzi cogliere
    maggiormente la capacità dello scrittore di astrarre dalla realtà.
    L’ammirazione per lo scrittore nasce dalla sua capacità di restituirci il suo
    sogno, che passa solo attraverso il dono della scrittura, ma risiede
    primariamente nel suo sguardo sulla realtà. E poi, quale realtà? Quale verità,
    si chiede giustamente? La parola verità mi fa venire in mente una ragnatela:
    fili che corrono paralleli, che intersecandosi danno vita ad una struttura. Per
    citare Pirandello, in ogni filo c’è Uno, ma essendo tutti altrettanto “veri”,
    Nessuno esiste senza i Centomila fili che ci reggono. Il tentativo di de-finire
    una realtà in maniera univoca, secondo un’unica “verità”, non comporta il
    rischio di considerarla appunto finita, incapace di dirci altro, e di evolversi
    in altre forme? La sfida è tentare di comprendere e lasciarsi comprendere,
    contenere dalla realtà senza rinunciare a farsi sconvolgere dall’imprevisto, da
    quella sfumatura che ci era sfuggita.
    Agrado, riuscitissimo personaggio di “Todo sobre mi madre”, di Almodóvar, da un palcoscenico in cui per
    caso interpreta se stessa, transessuale, afferma: “Una persona è tanto più
    autentica quanto più assomiglia all’idea che ha di sé”. Nella discrepanza fra
    realtà e immaginazione ciascuno è libero di vedere la follia, il grottesco, il
    sogno, il gioco, o il mestiere dello scrittore.

    1. Rosa Elisa Giangoia ha detto:

      I grandi autori dicono la verità tramite la fantasia, immaginando personaggi, situazioni, mondi… per riuscire a comunicare ai lettori la verità. Quello che conta è riuscire a dire la Verità, pur percorrendo strade sempre nuove e diverse, create dalla fantasia. Quindi, essere “realisti”, in senso aristotelico, per cui la Verità non sta a livello fenomenologico, ma metafisico. Così hanno fatto Dante, Manzoni e molti altri…, quelli che merita davvero leggere.

  3. Paolo Pegoraro ha detto:

    Resto sempre un po’ perplesso quando si pongono realtà e fantasia in rapporto di opposizione. Eppure il contrario di “realtà” non è “fantasia”, ma “irrealtà”. Se passo un pomeriggio “fantastico” non significa che ho baciato una sirena e cavalcato gli unicorni, ma che ho fatto un’esperienza particolarmente intensa, dunque realissima, persino più reale della mia quotidiana percezione della realtà.

    D’altra parte, per la maggior parte della sua storia, l’umanità si è dedicata alla letteratura “fantastica” senza mai considerarla in opposizione alla realtà. I miti greci sono così “veri” che millenni dopo Freud non ha trovato un linguaggio migliore per esprimere solo alcune delle verità che raccontano. E da sempre le religioni – anche le più recenti, vedi Scientology – non hanno trovato espressione migliore delle “storie” per indicare la “salvezza”.

    Semmai è la letteratura realistica l’adolescente con appena pochi secoli di storia, che si è pretenziosamente opposta a quella “fantastica”, mutandone senso e in una certa misura anche forme espressive. Sul come e il quando di questo divorzio, sarebbe interessante confrontarsi.

    Realtà e fantasia devono restare in rapporto di circolarità. La fantasia si nutre di realtà – è la facoltà che ci permette di afferrare la realtà, di rimodellarla e darne una nuova sintesi… un po’ come fa il bambino con i Lego: usa un materiale dato per creare forme sempre nuove, ma non può prescindere da quel materiale. Viceversa, la realtà non può fare a meno della fantasia, pena la condanna all’immobilismo totale… come un regalo rinchiuso nella sua scatola. «Un fatto è qualcosa che il mondo dà all’uomo, mentre una storia è qualcosa che l’uomo dà al mondo» (G.K. Chesterton)

    1. andrea ha detto:

      grazie per questo commento Paolo!

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