Attraverso la soglia

Nel settimo libro della Repubblica, Platone immagina gli uomini rinchiusi in una caverna profonda, stretta e in pendenza: una specie di vicolo cieco, dove essi hanno vissuto per tutta la loro vita, con gambe, testa e collo incatenati ad un muro, impossibilitati a volgere il loro sguardo dietro di loro, dove percepiscono la luce di un fuoco che arde. Sopra il muro, vi è una strada rialzata, trafficata da altri uomini che portano in mano forme di vari oggetti, persone, piante, animali. Attraverso il fuoco, tali forme vengono proiettate come ombre sul muro di fronte agli uomini incatenati. In questo modo, non avendo esperienza diretta del mondo fuori, essi credono che ciò che stanno vedendo non sia altro che la proiezione del mondo esterno, invece che una sua presentazione. A questo punto, Platone ci suggerisce che se, per qualche ragione, un uomo potesse liberarsi dalle catene e volgere, finalmente, lo sguardo verso il fuoco, verrebbe prima di tutto abbagliato dalla luce, ma farebbe subito dopo esperienza del mondo sensibile attraverso la visione degli uomini veri. Dopo aver potuto assaggiare il mondo, l’uomo non potrebbe effettivamente più tornare dagli altri uomini incatenati: non gli basterebbe più la rappresentazione dello stesso, e vorrebbe naturalmente ampliare la sua conoscenza in modo diretto.

Ci sono numerose interpretazioni filosofiche e religiose del mito platonico della caverna, su cui però non conviene soffermarsi in questa sede. Mi piacerebbe, però, interrogare tale simbolismo sul tema della soglia dell’opera d’arte. L’uomo che si libera dalle catene e fa conoscenza del mondo, infatti, finisce per oltrepassare la soglia (il muro) tra il mondo intellegibile e la sua rappresentazione. È un uomo a cui non basta più la proiezione del mondo: ne vuole fare conoscenza diretta, interrompendo quella sospensione dell’incredulità alla base della sua credenza, della sua fede nell’immaginazione. È spezzando le catene che egli infrange la sua esperienza con la rappresentazione, che divelle gli argini dell’opera d’arte, che sconfina il mistero dell’indicibile. Viene da chiedersi se la soglia sia una necessità, più che una limitazione al rapporto che l’uomo instaura con il mondo. È in quella soglia che, probabilmente, si gioca la relazione tra noi e il mondo, ovvero fino a dove e fino a che punto lo vediamo proiettato e lo rappresentiamo.

Qual è il limite, la soglia, il confine di fronte al quale dobbiamo fermarci quando facciamo esperienza dell’opera d’arte? Che relazione c’è tra quello che osserviamo, di cui facciamo esperienza appunto, e ciò che decidiamo di raccontare? C’è qualcosa che non è lecito mostrare della realtà che rappresentiamo? Non è solo un problema etico, ma è anche e soprattutto un problema di natura estetica, che incide direttamente nel modo attraverso cui raccontiamo le storie. Ribaltando la prospettiva del mito della caverna, pensiamo ad Alex DeLarge, personaggio al centro del romanzo distopico di Anthony Burgess Arancia meccanica (A Clockwork Orange, 1962), poi protagonista dell’omonimo film di Stanley Kubrick del 1971, che viene sottoposto, legato a una sedia, alla “cura Ludovico”: osservare per ore filmati in cui la violenza è rappresentata integralmente, proiettata senza filtri, al fine di non agire più violentemente nel mondo. Alex viene così costretto da un’autorità a superare quella soglia tra violenza esercitata e violenza rappresentata, a scardinare la sua natura. Sono immagini oscene che ci vengono solo parzialmente mostrate dal regista, ma che riflettono un posizionamento autoritario rispetto a chi decide e perché di collocare un confine nella rappresentazione. La realtà, dunque, anche quella più oscena e scabrosa, sarebbe del tutto e in tutto dicibile e rappresentabile?

In un film come L’atto di uccidere (The Act of Killing, 2012) di Joshua Oppenheimer, alcuni leader dei paramilitari indonesiani, tutt’ora al governo, si prestano alla messa in scena di un genocidio di massa che, nel 1965, li aveva visti protagonisti. Dopo aver mostrato le tecniche attraverso cui giustiziavano gli oppositori comunisti, già destituiti attraverso un colpo di stato, accettano di recitare in un film che li vede protagonisti, in cui interpreteranno anche i ruoli delle vittime. È soltanto nel momento in cui si guardano in uno schermo interpretare il ruolo dei propri oppositori che essi mostrano, per la prima volta, dei cedimenti morali rispetto a quello che hanno compiuto, quarant’anni prima, nella realtà. È nella presa di coscienza, e non nel superamento, di quel confine tra una storia ricordata e una storia rappresentata che si cela un meccanismo di rivelazione, che altro non è che un movimento a ritroso, di recessione, nella memoria dell’uomo. Rappresentare, dunque, ci aiuta a ricordare, a superare le soglie della memoria?

Rivelazione, dunque, o disvelamento? Se la prima locuzione lascia intendere, appunto, un movimento a ritroso, finalizzato a «tirare addietro il velo» su qualcosa che era stato coperto, la seconda assume più un valore di manifestazione del visibile attraverso una «alterazione» del velo (cui fa riferimento il prefisso «dis-»). Si tratterebbe, quindi, di un processo di mutazione del punto di vista, di osservazione, teso a vedere diversamente oltre il velo, attraverso il velo, più che sotto il velo. Un movimento, dunque, che dia per scontata l’esistenza di una soglia, di un velo come parte integrante del mondo stesso che osserviamo. Non basterebbe, in questo modo, guardare sotto il velo, superare la soglia, ma porsi in una dimensione di osservazione che ci permetta di osservare il mondo proprio grazie a quella soglia. Soglia di cui, esattamente come l’opera d’arte, non possiamo più fare a meno.

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